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Nicola Lupo

Fantasmi - Storiette paesane

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Regalo di maturità

Oggi i giovani che superano gli esami di maturità, in particolare quella classica, e sono una percentuale altis­sima che sfiora il 100%, esami sempre stressanti dal punto di vista psicologico, ma facilissimi dal punto di vista delle prove, ricevono regali favolosi: auto di piccola e grossa cilindrata, motorazzi stranieri, barche, gite in paesi lontani ed esotici, spesso accompagnati dalla ragazza o dal ragazzo (beati loro!), mentre quando superai io la maturità classica, nel medievale 1938, unico maturo su tredici candidati del mio Istituto (il glo­rioso Liceo «Capizzi» di Bronte, nel suo anno nero), dei quali sei furono respinti e gli altri sei, rimandati a ottobre, furono anch'essi bocciati, per regalo ebbi un lavoro estivo.

Infatti, mentre me ne stavo alla Cisterna, località sulla strada Bronte-Maletto, a godermi il meritato riposo nella nostra casetta di montagna, un giorno arrivò da Bronte mio padre e mi riferì che un suo amico geometra gli aveva chiesto il nominativo di un giovane in gamba che potesse fargli da segretario durante un lavoro da svolgere proprio nel mese di agosto nella Ducea Nelson di Maniace.

Al che egli non aveva saputo fare altro che proporgli il mio, con la speranza, quasi certezza, che io accettassi. Infatti, io per il desiderio di novità che superava il bisogno di riposo, e con la prospettiva di un certo gua­da­gno, accettai di buon grado, anzi con entusiasmo.

L'indomani mattina di buon'ora un'automobile venne a rilevarmi e mi trovai in compagnia del geometra , che già cono­scevo, e con altri due signori che mi furono presentati come geometri del Catasto di Catania, in ferie. Uno di essi si chiamava Amico o D'Amico e in seguito lo rividi a Catania durante gli anni di Università; l'altro, di cui non ricordo il nome, non l'ho più rivisto perché era più anziano e sofferente di prostata.

Io, futuro professore di Lettere, anzi Belle Lettere, come si diceva una volta, mi trovai con tre tecnici i quali mi misero al corrente del lavoro che avremmo dovuto eseguire. Il geometra, che era l'imprenditore del lavoro stesso, mi informò che l'Amministrazione della Ducea Nelson, per non incorrere nel rigore della legge fascista contro il latifondo, aveva deciso di lottizzare il suo vasto feudo per poi assegnarne i lotti ai suoi mezzadri e contadini.

Noi, quindi, in quel mese dovevamo fare i rilievi necessari per poi riportarli sulle mappe ed io avrei dovuto scrivere i dati che i geometri man mano mi avrebbero dettato e che, dopo, avrei dovuto imparare a sviluppare per passarli ai disegna­tori che ne avrebbero fatto il lucido, cioè l'originale da cui ricavare le copie.

Durante il viaggio io con le orecchie ascoltavo le istruzioni per potere eseguire il mio nuovo lavoro, che era anche il primo, ma con la mente mi vedevo insediato in una bella stanza del Castello di Maniace fra mobili e suppellettili degli antichi discendenti del Duca Orazio Nelson e di Lady Hamilton, sua compagna, la cui storia avevo visto in un vecchio film muto.

Ma quando arrivammo al lungo viale di accesso a Maniace, l'auto, guidata da uno dei fratelli Carastro che erano tutti dipendenti della Ducea, deviò verso una dependance che sarebbe stata la nostra residenza, ma non del geometra, che tutti chiamavano Ingegnere, il quale invece sarebbe stato ospite al Castello.

Ed ecco la mia prima delusione! La casa in cui prendemmo alloggio era formata da tre camere, una sala, cucina e bagno, il tutto spartanamente arredato in stile rustico. Installatici nelle rispettive camere, ci riunimmo nella sala da pranzo per determinare il lavoro che sarebbe cominciato l'indomani mattina.

Intanto il maggiordomo-cameriere e cuoco ci aveva comunicato gli orari: ore 6 sveglia e prima colazione alle 6,30; ore 7 partenza per il luogo di inizio lavoro, che sarebbe stato ogni giorno diverso; la colazione sarebbe stata al sacco e ci sarebbe stata servita dal personale ausiliario; al rientro al tramonto, dopo la doccia, pranzo e quindi a nanna.

Avviso importante: avremmo avuto ogni mattina sei pasticche di chinino di Stato, da prendere due alla volta prima dei pasti, contro la malaria che allora imperversava in tutta la Sicilia e specialmente lungo i fiumi, allora quasi a secco, e che in quella zona erano almeno quattro, che formavano poi il Simeto: Saracena, Martello, Cutò e Troina.

Il primo giorno trascorse così in organizzazione, presa visione dei servizi logistici e, infine, visita al Castello, dove fummo accolti dal geometra, il quale ci presentò all'Amministratore della Ducea, un ometto arzillo dalle gambe a tarallo che lo classificavano ex ufficiale di cavalleria, il quale ci accolse con un britannico: «Spero che vi troverete bene e che facciate un buon lavoro!» Noi intanto ammiravamo la stele al centro del cortile con la scritta «Heroi Nili!» (All'eroe del Nilo!).

La prima sera, dopo la cena, il geometra più anziano, dopo aver armeggiato con il catetere che portava nel taschino della giacca e che io avevo scambiato per la cannuccia di una pipa, dato che, soffrendo di prostata, aveva difficoltà di minzione, andò difilato a letto; l'altro geometra era assorto nei suoi problemi, pensando forse alla famiglia al mare che spendeva i soldi che lui avrebbe guadagnato lavorando d'agosto per giunta in una zona malarica, mentre io ascoltavo i grilli e sentivo già nostalgia di casa.

L'indomani fummo svegliati dal profumo di un buon caffè e la cosa ci sorprese, dato che eravamo in territorio inglese dove ci saremmo aspettati beveroni di tè a tutte le ore. Evidentemente il nostro governante italiano non ancora britannizzato, aveva avuto ordine di servirci all'italiana, e noi ne fummo contenti. Dopo il chinino e la colazione abbondante e nutriente, usciti fuori, trovammo il personale che ci avrebbe accompagnati nel nostro lavoro: esso era formato da un campiere che comandava tutta la comitiva di contadini che guidavano cavalli, muli ed asini con gli attrezzi di lavoro e le vettovaglie per la colazione che a mezzogiorno avremmo consumato nel sito in cui ci saremmo trovati, qualunque esso fosse: alberato o brullo, in collina o sul greto di qualche fiume con poca acqua o completamente secco.

Quel campiere, di cui purtroppo non ricordo il nome, era un omone robusto e rubicondo che teneva a bada tutti i con­ta­dini che avevano a che fare con la Ducea e che dovevano filare dritto se non volevano incappare nel rigore delle regole della proprietà. Egli aveva un bel cavallo baio che lo portava da un capo all'altro della grande tenuta, di cui conosceva problemi, persone e cose.

Al resto dell'èquipe furono assegnati dei cavalli che erano ormai nella riserva e quindi erano montabili da cittadini inesperti come noi.

I nostri attrezzi di lavoro erano un tacheometro e delle stadie che servivano per i rilievi topografici; mentre i due geometri davano ordini ai contadini dove piazzare le stadie e uno di loro faceva le relative letture al tacheometro, io scrivevo i dati che egli mi dettava, in un libretto appositamente predisposto. In pochi giorni fui in grado di leggere anch'io i dati al tacheometro, mentre uno dei due geometri si riposava scrivendo i dati al posto mio, seduto sopra un furrizzu (sgabello di ferla) che i nostri contadini portavano dietro con gli altri attrezzi.

Si arrivava a mezzogiorno stremati dal caldo, dalla fatica di lavorare sotto il sole, e dai continui spostamenti che, essendo brevi, non ci consentivano di utilizzare le bestie da soma; e consumavamo la colazione al fresco, quando era possibile trovare qualche albero che offrisse un pò d'ombra. L'unico passatempo, durante il pasto, era costituito dai racconti del campiere.

Un giorno eravamo in località Tahiti, in collina, fra il fiume Martello e il Cutò e mangiavamo a ridosso di una capanna dove, secondo il campiere, era stato sentito il seguente dialogo fra due novelli sposi:




Ingresso al Castello



Cortile interno

Immagini della Ducea Nel­son (il cosiddetto "Castello Nelson"). In bas­so la croce celtica dedicata all'Ammi­raglio inglese "Heroi im­mortale Nili"


L'ntica abbazia
















«'U furrìzzu», sgabello mol­to economico, costruito  con una pianta delle Ombrellifere molto comu­ne a Bronte (la Fèrola). Accanto due tradizionali contenitori per l'acqua: "a quattàra" e "u bùmbaru".






Archeologia lessicale  di N. Lupo

Lei: «Chiù suprìcchia... chiù suttìcchia...»
Lui: «Trasìu?»
Lei: «Allura, ahi, ahi!»
Lui: ...
Lei: ...
Lui: «Ah! Binidìttu fruttu di donna!»
Lei: «Picchì? Nun l'avivi fattu mai?»
Lui: «Iu no! E tu?»
Lei: «Iu l'haiu fattu quattro vutazzi cu' figghiu 'i Nibali!»

Dopo la colazione ognuno di noi cercava di schiacciare un pisolino nel miglior modo possibile, e io ricordo di aver dor­mito saporitamente anche sotto il sole sul greto di un fiume, steso sul basto di un mulo.

I contadini che si incontravano erano taciturni, ma estremamente rispettosi, e salutavano alla voce anche da lontano; di donne, invece, non se ne vedevano se non vicino alle case coloniche, intente ai lavori domestici e ai bambini, e appena vedevano avvicinarsi estranei, si ritiravano in casa, facendo uscire gli uomini. Questi veni­vano chiamati cummaroti, forse dal latino cacumina (cime), perché oriundi dalle cime dei Nebrodi retrostanti.

La sera si faceva ritorno alla nostra residenza cavalcando quelle bestie che erano più stanche di noi e, dopo la doccia e la cena casareccia, ma saporita e abbondante, innaffiata da un vino rosso di 16 gradi, si andava a dormire senza bisogno di sonniferi! A proposito del vino che ci veniva servito, devo ricordare che la Ducea Nelson era una forte produttrice di buon vino che ai tempi dell'amministratore Brick, esperto enologo, veniva trasformato in ottimo cognac, reclamizzato anche all'estero con un cartello che ricordo di aver visto in casa di mio nonno paterno. Si diceva che quell'amministratore tenesse sempre sul comodino una bottiglia del suo brandy e che sia morto di etilismo.

Quel mese di lavoro mi insegnò per la prima volta come sa di sale lo pane altrui e mi riservò un'amara delusione sull'ami­cizia (quella fasulla): il nostro compenso era costituito da vitto, alloggio e venti lire al giorno per i due geometri e dieci per me. Gli altri erano tutti dipendenti della Ducea.

Per caso in uno dei libretti che servivano per la registrazione dei dati topografici vidi degli appunti che indicavano invece trenta lire per i geometri e venti per me; il che dimostra che la tangente esisteva anche allora, anche se abilmente (?) camuffata! Questo fatto non lo raccontai mai a mio padre per non fare provare anche a lui l'amarezza che provai io per la prima volta nella mia vita.


Giulietta e Mìnicu

Conseguita la Maturità classica, mi iscrissi a Lettere, come era nelle mie previsioni e nelle speranze dei miei, delusi di non essere riusciti a fare di me un prete; il mio amico Gino si iscrisse a Medicina, ma nella stessa città di Catania continuammo a frequentarci e a fare insieme nuove esperienze, sia culturali che di vita.

Il primo anno trascorse relativamente tranquillo, ma la guerra, scoppiata il 1° settembre del '39, cominciò a mettere tutti in agitazione; Gino si era sistemato in una delle migliori pensioni della città, mentre io stavo presso una famiglia assieme a mio fratello maggiore, Nino, il quale, studente di Economia e Commercio a Ca' Foscari di Venezia, dopo l'exploit dei primi due anni, si era dato alla bella vita e non aveva sostenuto più esami e perciò nostro padre lo aveva richiamato a Catania perché stesse con noi e fosse costretto a laurearsi, come infatti fece, sostenendo in un solo anno ben 18 esami (alcuni superati anche col 30) e la tesi, e il quarto, Elio, che frequentava la terza classe del ginnasio inferiore.

Io, che in famiglia ero ritenuto il più equilibrato, facevo da amministratore, e così il maggiore si laureò nei termini dei quattro anni e subito dopo andò militare in Marina, presso la Capitaneria di Porto di Siracusa, il piccolo ottenne con facilità la licenza del ginnasio inferiore e io superai tutti gli esami del primo anno.

La famiglia presso la quale avevamo preso due camere, una per studio e l'altra per dormire, con diritto ad avere prepa­rati i pasti, dietro nostra ordinazione, dalla padrona di casa, era quella di un ex costruttore edile il quale, colpito da ictus cerebrale e rimasto invalido, viveva assieme alla moglie e ad un figlio scapolo, nella bella e grande casa che gli era rimasta dopo i guai subiti, con qualche risparmio arrotondato, appunto, dall'affitto delle due camere superflue.

Il capo famiglia si chiamava Domenico (Minicu) e la mattina, dopo essere stato aiutato a mettersi in ordine, si tra­sci­nava fino al forno della figlia sposata, che si trovava a un isolato di distanza, sulla stessa strada, perché non era abituato a stare in casa, ma forse anche per sottrarsi al dispotismo della moglie. La quale si chiamava Giuliet­ta, ma non aveva nulla a che fare con la Giulietta di Romeo, perché era grossa e arcigna e di una sordità a dir poco sospetta, perché non sentiva quasi mai, tranne quando non avrebbe dovuto sentire.

Diceva di non mangiare mai, perché mangiava i migliori bocconi prima che arrivasse il marito e quando questi, buono e affettuoso, rientrava in casa e la chiamava, lei lo accoglieva con questa dolce frase, particolarmente gentile in bocca ad una donna e per giunta di nome Giulietta: «Chi minchia voi

Nella preparazione dei pasti, però, la nostra signora Giulietta era pulita e precisa: alle 8 prima colazione, alle 13 pranzo e alle 20 la cena; e non sbagliava mai di un solo minuto!

Una volta ci portò anche fortuna. Mio fratello di buon mattino stava studiando con un amico in vista del primo appello degli esami di giugno, quando dal primo piano, dove abitava una famiglia con tante figlie che avevano una grande passione per un loro gatto siamese, questo, sfuggendo dalle braccia di una delle sue padroncine, cadde giù in strada con grande strepito delle ragazze che misero in subbuglio tutto il palazzo.

Accorremmo tutti, ma il gatto, come tale, era caduto sulle zampe ed era rimasto incolume. Rientrati in casa, la signora Giulietta ci propose di fare smorfiare l'accaduto e giocare al lotto i relativi numeri. Giocammo io, mio fratello, l'amico e la Giulietta un terno da dieci lire che uscì sulla ruota di Bari e ci fruttò ben mille lire!


Marina

Tornato da Milano a Catania nel febbraio del '41, dietro invito del mio amico Gino e con il suo appoggio, ottenni in fitto una stanza dell'ammezzato della sua pensione «Abete», dove dormivano la padrona e le sue due figlie, la più piccola delle quali, Clelia, storpia, ma vivacissima, era di una furbizia maligna, pari alla sua bruttezza. E a propo­sito della quale un altro giovane pensionante, studente di giurisprudenza, dopo l'occupazione anglo-americana, intro­dusse il primo vocabolo inglese dicendola, in tono sfacciatamente satirico, piena di sex appeal, al che lei sorrideva soddisfatta dell'incompreso complimento, ancorché evidentemente ironico e sarcastico.

Non potendo affrontare la spesa della pensione completa e avendo ottenuto quella cameretta in quella prestigiosa pensione, io consumavo il pasto principale in una modesta trattoria delle vicinanze e per la cena mi arrangiavo man­giando qualcosa in camera, mentre la prima colazione era completamente sparita, sostituita da un bicchiere di acqua! Com'era diverso dai tempi della signora Giulietta!

In compenso il mio amico ed io usufruivamo delle grazie gratuite della bella cameriera della pensione, la quale si chia­ma­va Marina. Ciò era facilmente possibile, malgrado il rigido controllo delle tre padrone della casa, perché questa era disposta su due piani: il secondo e il terzo; al secondo, con relativo ammezzato, c'erano solo camere e il soggior­no, al terzo c'erano altre camere, più cucina e sala da pranzo nel relativo ammezzato.

Quindi la cameriera la mattina andava al terzo piano e, così, poteva dedicare qualche minuto al mio amico; nel primo pomeriggio, mentre tutti erano a pranzo, poteva passare da me che ero già tornato dal pranzo consumato fuori. Così eravamo tutti e tre contenti; infatti allora l'alternativa all'amore mercenario era quello ancillare, più sicuro e più economico!

Questa giovane cameriera un giorno fu involontaria causa di una nostra disavventura, fortunatamente finita bene. Al­lora tutti i locali pubblici in Italia erano tappezzati da certi manifesti raffiguranti un grosso orecchio teso ad ascoltare, con sotto la scritta: «Silenzio, il nemico ti ascolta!».

Il che voleva dire che non si poteva parlare affatto di cose belliche. Senonché in una delle splendide giornate di sole siciliano, splendida malgrado la guerra e la mancanza di prima colazione e altro, Gino e io decidemmo di noleggiare due biciclette e fare una gita ad Acitrezza, di fronte alla quale ci sono i famosi scogli dei Ciclopi e dove il Verga ha ambientato il suo capolavoro I Malavoglia.

Ce ne andavamo bel belli, direbbe il Manzoni, su quella strada, allora bellissima, che si snodava, dopo Ognina, fra limoni, aranci e buganvillee e che con i loro colori e i loro profumi ammorbidivano il tetro nero della lava, quando ad uno di noi sovvenne il desiderio della nostra cameriera e gridò all'altro: «Qui ci vorrebbe la nostra Marina!».

Ma dopo qualche centinaio di metri fummo raggiunti da uno stradino dell'ANAS (che allora si chiamava AASS) anche lui in bicicletta, il quale ci fermò e ci chiese perentoriamente prima i documenti e poi il motivo per il quale parlavamo a voce alta della nostra Marina. Capimmo subito il malinteso e cercammo di spiegarlo a quello zelante operaio-cittadino che cercava di far rispettare l'ammonimento bellico di cui ho riferito sopra, ma non sono sicuro che egli abbia creduto effettivamente alla nostra banale, ma veritiera giustificazione.


'A z'a Mattìa

Non sono né un puritano né un purista, ma certi vocaboli, usati senza conoscerne il significato originario, mi procurano un grande fastidio; come, per esempio, casino, usato ormai da tutti e in tutti i luoghi, perfino in una canzoncina cantata in coro in una recente trasmissione televisiva. Ed ora suscita in me uno dei miei fantasmi per cui ne traccerò brevemente la storia, per chi ne voglia sapere qualcosa di più.

Il termine, nell'accezione popolare, indica la casa di tolleranza o bordello, che era una istituzione legalizzata, dove si faceva commercio di amore puramente fisico. Era chiamato anche casa chiusa, perché tutte le sue finestre e balconi erano rigorosamente chiusi da persiane che non venivano aperte mai per non dare scandalo al vicinato.

Esso era un vero e proprio esercizio commerciale di proprietà di stimati (si fa per dire!) professionisti o impren­ditori, ma dati in gestione ad una direttrice o maîtresse, la quale doveva conoscere il mestiere e, quindi, generalmente era una ex prostituta.

Le professioniste, ospitate in quelle case, erano schedate dalla Polizia con l'indicazione della loro attività ed erano sottoposte a periodiche visite mediche, perché fossero limitati i pericoli di malattie veneree. Nella casa esse ave­vano tutto, perché non potevano uscire, e pagavano le spese con una buona percentuale dei loro proventi che venivano contabilizzati con le famose marchette, gettoni che la direttrice dava loro dopo ogni prestazione e relativo incasso.

I casini cambiavano professioniste ad ogni quindicina e allora si vedevano per le vie principali della città carrozze piene di allegre e variopinte ragazze le quali reclamizzavano la casa e se stesse. Ricordo che a Catania nei primi tempi della mia vita universitaria, mi capitava di vedere dietro quelle carrozze un'altra con a bordo un vecchio signore dalla barba bianca fluente, vestito rigorosamente di nero e con il cilindro, per quei tempi ormai fuori moda, almeno per andare a passeggio.

Io non sapevo spiegarmi il fatto, perciò un giorno mi decisi di chiedere delucidazioni a un mio compagno d'uni­versità che era della città e questi mi rivelò che quel signore, dal vestito ottocentesco, era il medico dermosi­filo­patico che visitava periodicamente le signorine dei casini e al quale veniva attribuito il seguente ammonimento, dato a quei giovani che capitavano da lui per disturbi venerei: «Carusi, 'u pacchiu 'n'avi denti, ma muzzica!»

I casini, ai miei tempi, erano di diverse categorie e prezzi: quelli di lusso da 16 lire; quelli per studenti da11 lire e quelli popolari da 5 lire. Noi frequentavamo quelli da 11 lire, ma più per fare flanella che per consumare. Fare fla­nella significa andare lì per curiosità e per prendersi qualche passaggio con le ragazze senza spendere; ma noi andavamo in quattro o cinque, mettevamo ognuno la nostra quota e poi sorteggiavamo chi doveva andare in camera; così non facevamo la figura dei «flanellari». Gli altri restavano in attesa nel salottino e spesso si discuteva di cose serie: letteratura, filosofia o arte che, qualche volta, interessavano anche quelle professioniste del sesso.

Una volta, sorteggiando chi doveva consumare la scopata pagata da noi tutti, uscì un nostro caro e compianto amico e collega il quale, però, era un pochino più ricercato nei modi di quanto non fossimo noi altri. E allora, quan­do lui si fu allontanato con la ragazza, noi chiamammo la direttrice e, pagata in anticipo la marchetta, la pregammo di trasferirci in un altro salottino e, all'uscita del nostro amico, pretendere da lui il pagamento della consumazione, dicendo che noi eravamo andati via. Ci divertimmo un mondo a sentire le reazioni del nostro amico, indirizzate, naturalmente, tutte contro il nostro comportamento; quando però, lui si decise a pagare la marchetta, noi uscim­mo facendo casino e pretendemmo, con l'appoggio della direttrice, di sorteggiare anche la seconda marchetta. Da quel giorno, credo, non praticammo più quella specie di parziale flanella.

La mia comitiva non era andata mai in un casino popolare da 5 lire, di quelli che si trovavano tutti nella zona più malfamata della città: la via Maddem, ora scomparsa per fare largo al lussuoso corso Sicilia che collega la stazione Centrale con piazza Stesicoro. Ma una sera che eravamo più numerosi, più eterogenei e più curiosi, decidemmo di fare un giro da quelle parti e capitammo in una casa alla quale si accedeva da un portone che immetteva subito su un'alta e ripida scala ad una sola rampa.

Arrivati in cima ad essa, si entrava in un grande stanzone, maleodorante di sperma, permanganato, fumo e broccoli, scecherati in un cocktail nauseabondo. Alla parete di fronte si ergeva una vera e propria cattedra alla quale era seduta una vecchia donna dal piglio deciso e manageriale, dalle fattezze ripugnanti e dalla voce chioccia per le troppe sigarette e il gran gridare nell'esercizio delle sue funzioni. Essa pregava le signorine di farsi vedere dai clienti, esortava questi ad andare in camera, incassava il corrispettivo delle prestazioni, dando ad ognuna la relativa marchetta, e vigilava sulla regolarità di esse.

Tutt'intorno alle pareti c'erano delle panche di legno, unte e bisunte di antica sporcizia sulle quali erano seduti esseri degni di quel luogo: gente misera e mal vestita, sguaiata nel parlare e nel gestire, per cui spesso 'a z'a Mattìa (questo era il nome di quella maîtresse) doveva intervenire con tutta la sua autorità e forza per riportare l'ordine e la calma. Davanti a quel pubblico di dannati, al richiamo della direttrice, sfilavano le signorine, tutte discinte e promettenti le più esotiche ed allettanti prestazioni, per invogliare ad essere scelte e perciò usavano un gergo allusivo dei piaceri più esclusivi.

In quella occasione vedemmo un tale che fece una acrobazia degna di una descrizione dantesca: pregava il pub­blico di gettare in terra una moneta da 20 o 50 centesimi (di lira!) che lui si prodigava a prendere azionando le chiappe come un'agevole pinza.

Ma ad un tratto, essendosi levato un gran chiasso per quella straordinaria prestazione al misero prezzo di qualche centesimo, 'a z'a Mattia si alzò, prese quel poveraccio per il bavero della bisunta giacchetta, lo sollevò di peso con grande facilità e, dandogli un poderoso calcio in quel suo fenomenale attrezzo, lo scaraventò letteralmente dalla scala accompagnandolo con una litania di parolacce irripetibili e, alcune, sconosciute al nostro vocabolario.

Di questa maîtresse, personaggio ignobile ma caratteristico, mi ricordai tanti anni dopo: entrando nella sala dei profes­sori, dove era già in corso una riunione di docenti, sentii una voce rauca che mi fece esclamare: «Hi! 'A z'a Mattia!». Tutti i colleghi si voltarono, ma senza capire; solo uno, sorridendo, ammiccò; era - come seppi subito dopo - un cata­nese, professore di Educazione fisica e vice-preside, il quale evidentemente conosceva il perso­naggio; la voce e le fattezze erano della Preside la quale, per il resto, era una gran signora.

Negli anni Cinquanta la senatrice Merlin propose e riuscì a fare approvare una legge che aboliva le case chiuse. sot­traen­do le loro ospiti allo sfruttamento dei gestori e dello Stato che faceva la figura del mezzano e del pappa e conce­dendo loro il ruolo di libere professioniste le quali, però, bivaccando in certe strade, in inverno alla luce e al calore di focherelli ottenuti dalla combustione di vecchi copertoni d'auto, danno del loro nobile mestiere una dimo­strazione ancora più squallida di prima.

 

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Nicola Lupo: "Fantasmi"