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Vincenzo Pappalardo

Il mio “Padre” Sanfilippo

Un magnifico ingenuo

Ricordo la frase latina sempre pronta ad affiorare compiaciuta; ricordo le “forette” e le “bunache” rispolverate da chissà quale cigolante armadio in soffitta della parola; ricordo i cappelli a “tre pizzi”, le “padelle” preconciliari, l’orgogliosa trincea della talare che resisteva a ogni clergyman e arditezza modernista dell’abbigliamento clericale degli anni ’70 e ’80.

Sento il buon odore di muffa delle vecchie sacrestie di campagna, nei ricordi che affiorano alla memoria pensan­dolo; sento la musica discreta della nostalgia per un mondo bello perché perduto, che solo noi che ci inzacche­riamo sin dalla nascita del senso di morte di quest’isola possiamo capire; sento la malinconia color seppia di vecchi fotogrammi di una Chiesa del cuore dov’era la bellezza del sapere, l’eleganza dei paramenti di seta e dei loro riccioli d’oro, la bontà di uomini semplici uniti dal sublime incanto della parola di Gesù.

“Padre” Sanfilippo, lo chiamavano noi bambini, che la misera provincia di un paese della montagna siciliana degli anni ‘70 costringeva a scegliere tra la strada e le canoniche; e sorridevamo di quelle sue strane manie per tutto quello che sapeva di antico e non c’era più.

Come con i padri, pendevamo stupefatti appesi a quella memoria formidabile che teneva in vita ogni fatto e ogni nome, il passato che si schiudeva come scrigno delle meraviglie; come con i padri, sopportavamo malvolentieri le asprezze generose di un carattere che non conosceva le mezze misure; come con i padri, tolleravamo col paziente sussiego dei bambini l’ingenuità che fa capolino dietro le spalle di ogni passione adulta.

Io lo conobbi da bambino: come da sempre, un sempre avvolto dell’alone magico del passato. A casa mia, era di casa; e parlarne era parlare dei ricordi di mia madre, che di lui era stata compagna dei banchi severi del Capizzi; e di quelli di mio padre, che l’aveva conosciuto giovane prete, tornato da Firenze per le vie traverse della Patti di monsignor Pullano.

Aneddoti, chissà quanto veri, che passavano già allora come vecchie cartoline ingiallite: il giovane studente che dietro il banco gioca a dare le benedizioni; il padre possidente che non accetta la vocazione del figlio maschio, l’esilio a Firenze, gli occhi chiusi al cinematografo davanti a un fuggevole bacio anni ’50 - a pensarci, magari, Ivonne Sanson.

E poi l’amore per la sua Bronte, la tenace volontà di tornarvi, la fuga dagli incarichi parrocchiali forse a Braidi, o forse a Librizzi, così incomprensibile a mio padre e al suo peregrinante amore per i sentieri dei Nebrodi. Andam­mo insieme a Roma che avevo dodici anni, e già allora non riuscivo a tenere nascosto l’interesse per la storia.

Davanti al medaglione di Pio nono, a San Paolo, non riuscii a trattenere il biasimo per quel padre caritatevole di tutti i cristiani che portava sulla coscienza, tra gli altri, quella ventina di morti caduti alla Porta Pia, per dimostrare col loro sangue di quanta violenza fosse vittima il romano pontefice: mi guardò severo dicendomi quanto avesse sofferto quel Papa.

Non so se già allora fui in grado di capire come la sofferenza per la perdita di quella Chiesa fosse anche la sua sofferenza. L’indomani mi sottrasse alle ansie di mia madre e chiese la mia compagnia per visitare i musei vaticani: non sapevo bene cosa fossero, ma lo segui con devota fiducia.

Dentro annegò nel mondo delle sue meraviglie, trascinato dalla vertigine onirica del fluire sen­za posa di pastorali pontifici, mitrie che avevano coperto calvizie di papi cinquecen­te­schi e calici che ne avevano inumidito le labbra, pergamene, bolle con i pesanti sigilli: dimen­ticò di tutto, di sé, delle ore che scorrevano, del pranzo che saltava; anche di me, che non tardai a trascinare le gambe e a sentire i morsi di una fame che, a quell’età, nep­pu­re i nudi della Cappella Sistina riuscivano a saziare.

Era un magnifico ingenuo, il padre Sanfilippo; di quelli che solo la pratica vissuta dell’evan­gelo può pazientemente costruire; un animo colto e sensibile educato a conservare lo stupore del bambino, perché solo quello spalanca il regno dei cieli.

Per questo gli ho voluto bene.

Chissà se proprio per questo sentì sempre il bisogno di rifugiare il suo animo in un passato del cuore, uno spazio senza contorni di tempo e di luogo, lontano dai compromessi del presente e del reale, dove la corruzione del mondano non toccasse anche la sacralità del divino e fosse solo la poesia semplice dell’armonia cristiana.

 

Mons. Salvatore Sanfi­lippo è nato a Bronte il 22 feb­braio 1932. Ordinato sacer­dote a Patti il 20/7/1958 da Mons. Giu­sep­pe Pullano, esercitò, nei pri­mi anni, il suo mi­nistero da Vice par­roco nelle par­roc­chie di Torto­rici e Librizzi nella dio­cesi di Patti. Ritornato a Bronte nel 1964 fu per 25 anni Vicario coo­pe­ratore nella chiesa madre. Nel 1989 fu nominato Cano­nico Peni­ten­ziere del Capi­to­lo Metropolitano.

Ammalatosi, portò con pa­zienza e grande rassegna­zio­ne il grave male che lo con­dus­se anzi tempo alla morte, a 66 anni, l’8 maggio 1998.

MONS. SANFILIPPO

Gli ultimi anni non furono felici. Dalla sacrestia della sua matrice, dalle fuligginose ombre di antichi arcipreti che, come forse sognava, aspettavano che un giorno anche lui si aggiun­gesse e trasmutasse in nostalgia della memoria, per correre lungo la schiena di lontani e futuri visitatori, andò via, caduto come un angelo dal cielo al contatto con la realtà degli interessi e degli intrighi di quella Chiesa in cui aveva sempre vissuto abitando altre dimensioni. Obbedì, come doveva fare; ma da quel giorno cominciò a spegnersi.

Lo vidi per l’ultima volta il giorno che, dalle sue mani, presi la mia matura e scettica cresima; ci commuovemmo ambedue, io nel dare un senso umano a un rito in cui non credevo più, lui nell’accompagnarmi sino a grande in quel cammino cattolico in cui credeva sopra ogni cosa.

Sembrava così felice in quegli abiti della dignità ecclesiastica al cui fascino aveva sempre soggiaciuto; ma aveva già il pallore triste della malattia.

La notizia della sua morte arrivò in uno di quei giorni di banale quotidianità, quando la monotonia appiattisce il sentire e le emozioni durano lo spazio di una sigaretta. Così, anche la morte di un uomo buono e infelice diventa fumo e la cicca finisce per terra, calpestata dal passo indifferente della vita.

Vincenzo Pappalardo

Maggio 2010




Nicola Lupo

Ricordo di Padre Antonio Messineo S. J.

Premetto che due ricordi di P. Messineo sono stati pubblicati da Civiltà Cattolica in occasione della sua morte[2], che io riporto in appendice nella mia “ricerca” su Vincenzo Schilirò, di prossima pubblicazione anche sul sito Internet “Bronte Insieme”; quindi, questo mio è un ricordo strettamente personale, che tuttavia desidero rendere pubblico in omaggio non solo a un grande brontese, ma ad una persona che mi ha onorato della sua amicizia.

Prima di cominciare a scrivere queste note ho letto la bella, lunga e documentata pagina dedicata al Messi­neo nella rubrica “Personaggi“ di Bronte Insieme e ho rilevato lo stesso errore in cui ero incorso io scri­vendo, all’attuale Direttore di Civiltà Cattolica, p. Gian Paolo Salvini S. J., che il nostro concittadino era stato Direttore della rivista. Ma ecco cosa mi rispondeva, fra l’altro, il Salvini in data Roma, 25 marzo 1997: “Mi fa piacere che p. Messineo abbia ancora amici ed estimatori. Nella rivista ha lasciato una traccia durevole, anche se non ne è mai stato direttore, ma certo uno dei più significativi scrittori specialmente nei primi decenni del secondo dopoguerra.”

Desidererei sapere dall’estensore (chi è?) di quanto scritto nella pagina del sito in base a quali documenti per ben due volte dice, a pagina 1 di 6, che “ fu redattore e successivamente direttore della rivista Civiltà Cattolica” e più avanti, nella stessa pagina, “ per quasi quarant’anni vi svolse un ruolo determi­nante contribuendo con i suoi scritti e la direzione della rivista (designato dal Superiore Generale della Compagnia col beneplacito di Pio XI) anche alla sua crescita.” per eventualmente poter confutare quanto scritto dal Salvini.

Padre Antonio Messineo

Padre Antonio Messineo (foto fornita da La Civiltà Cattolica al prof. Nicola Lupo)

Da ragazzo avevo sentito parlare di Padre Messineo come del più importante e del più giovane dei tre Gesuiti brontesi che erano per anzianità P. Camuto, economo al Collegio Pennini di Acireale, P. Luigi Franco, preside del Ginnasio-Liceo dello stesso istituto, e lui che era già scrittore di Civiltà Cattolica. Ma la conoscenza personale avvenne nei primissimi anni cinquanta a Bari, dove mi ero sposato ed insegnavo.

Durante la Quaresima del 1951 o ‘52 (?) lessi su La Gazzetta del Mezzogiorno che nei giorni precedenti la Pasqua si sarebbe tenuto un triduo, a cura dei Padri Gesuiti del Collegio Di Cagno Abbrescia, e le prediche sarebbero state pronunciate da P. Antonio Messineo S. J., scrittore di  Civiltà Cattolica, nella chiesa centrale di S. Ferdinando. La mia gioia fu grande perché finalmente potevo conoscere un tanto concittadino, quindi mi recai all’istituto che lo ospitava e mi presentai.

La sua accoglienza mi dimostrò che anch’egli provava lo stesso piacere di conoscere inaspettatamente un concittadino, figlio di un vecchio amico.

Dopo gli inevitabili convenevoli gli dissi che avrei fatto in modo di potere andare a sentirlo, dato che il triduo si sarebbe tenuto durante le messe mattutine. Così avvenne: la sua prima predica fu avvincente, perché aulica e pronunziata con voce maschia, ma alla fine, quando mi avvicinai per congratularmi con lui con il rituale prosit, vidi sul suo volto la delusione per avere notato la scarsità di un uditorio qualificato e adeguato a tanto predicatore. Quasi a confortarlo, ma non solo, lo invitai a venire a casa mia a bere un caffè, cosa che accettò con molta naturalezza e con piacere.

Arrivati a casa, con la mia “500 C“, mia moglie che sapeva dove ero andato, ma non pensava che avrei condotto l’ospite a casa, sorpresa, preparò in fretta il caffè che sorbimmo nel mio studio.

Quel caffè non mi piacque perché era il peggiore che avesse preparato mia moglie, perciò guardavo P. Messineo il quale, però, non fece una grinza, ma avrà pensato che quella era per lui la giornata delle delusioni. Ad ogni modo, dopo una breve conversazione quasi famigliare, io gli proposi un giro turistico per Bari, per fargli dimenticare il pessimo caffè.

Egli anche questa volta accettò di buon grado non solo per conoscere un po’ Bari, ma, forse, per non tornare troppo presto fra i suoi confratelli con cui era abbastanza irritato.

Gli feci percorrere il lungomare fino alla Basilica di S. Nicola, che ammirò estasiato per l’imponenza di questa costruzione di stile romanico-pugliese del 1080; poi visitammo la cattedrale e quindi il Castello svevo-aragonese, che sono nella stessa zona. Dopo avergli fatto vedere questi tre indimenticabili monumenti, lo riaccompagnai al Collegio che allora era all’inizio di Via Napoli, cioè vicino al Castello. Ci congedammo entrambi soddisfatti delle seconda parte della mattinata, con un arrivederci all’ indomani.

Ritornato a casa dissi a mia moglie che il caffè non mi era affatto piaciuto, ma che il nostro ospite non aveva fatto cenno di disgusto; al che essa, mortificata, mi confessò che quando eravamo arrivati inaspettati, lei stava facendo le tagliatelle e, per fare presto il caffè, aveva usato l’acqua che aveva riscaldato, ma senza ricordarsi che vi aveva aggiunto del sale: per sdrammatizzare ci mettemmo a ridere, mentre io mi ripromettevo di scusarmi con Padre Messineo raccontandogli l’accaduto.

Il giorno dopo l’uditorio qualificato fu leggermente più numeroso e la sua predica più convinta e dopo un caffè al bar, durante il quale gli spiegai perché il caffè di mia moglie era stato disgustoso, per cui gli chiedevamo scusa e nello stesso tempo lo ringraziavamo per averlo bevuto come Socrate aveva fatto con la cicuta, Egli molto paternamente mi disse che non se ne era neppure accorto, ma che del resto aveva “bevuto” ben altro. Chiuso l’incidente, lo accompagnai a visitare la basilica dei Cappuccini a Santa Fara, facendo al ritorno il giro dalla Fiera del Levante.

Anche questa giornata passò più tranquilla della prima, in un clima più sereno durante il quale mi permisi di esternargli le mie impressioni sulle sue prediche: gli dissi che, ascoltandolo, mi era venuto in mente Fénelon[3], e il mio spontaneo complimento, forse poco azzeccato, lo lasciò un po’ interdetto, ma gentilmente finse di accettarlo.

L’ultimo giorno l’affluenza di pubblico qualificato fu maggiore e il triduo ebbe una conclusione più degna e gratificante; ed io, continuando e integrando l’apprezzamento del giorno precedente, lo paragonai ai grandi predicatori d’inizio secolo, come P. Giovanni Semeria[4], barnabita; ma anche questo riferimento fu poco opportuno perché il barnabita era stato un Modernista, condannato dalla Chiesa al silenzio. Tuttavia Padre Messineo non profferì verbo e, paternamente, mi diede il suo affettuoso commiato, invitandomi ad andarlo a trovare se fossi capitato a Roma.

Queste due gaffe viste adesso non mi sembrano più tali, ma non perché Padre Messineo fosse effettivamente paragonabile né a Fénelon, né a Semerìa, se non nell’eloquio, ma per la mia incoscia propensione e simpatia verso i personaggi critici nei confronti della Chiesa, come hanno dimostrato i miei interessi per “Riformisti ed eretici del Medio Evo” di A. De Stefano, per Ernesto Buonaiuti[5] col suo Pellegrino del mondo, e, in questi ultimi anni, i miei scritti su Antonino De Stefano[6] e Vincenzo Schilirò.

Rividi Padre Messineo, al quale da allora scrissi qualche biglietto in varie occasioni, nel 1953 in occasione di un mio viaggio a Roma per concorsi. Allora per l’esame orale noi dovevamo fare anche una “lezione”, il cui argomento ci veniva assegnato per sorteggio un giorno prima; a me l’argomento fu sorteggiato il sabato pomeriggio per il lunedì mattina; quindi non avevo nessuna possibilità di andare in biblioteca per prepararmi adeguatamente.

Allora telefonai a Padre Messineo il quale senza esitazione mi disse di andare pure la domenica mattina alla sede di Civiltà Cattolica in Via di Porta Pinciana, 1, dove avrei potuto usufruire della loro biblioteca che curava lui stesso. In quella occasione vidi la nuova sede che era ancora in allestimento (mancavano i salottini di ricevimento) e pertanto fui ricevuto nella stanza del Padre che guardava sul retro di Trinità dei Monti e piazza di Spagna, un indimenticabile panorama, e da lui fui accompagnato nella biblioteca dove egli stesso mi fornì i libri per potere preparare la mia lezione di latino.

La mia riconoscenza per lui fu grande e da allora ogni qualvolta capitai a Roma non mancai mai di andare a farli visita e fui ricevuto sempre con grande cordialità ed interessamento.

Nel 1962/63 mi trasferii a Roma ed ebbi l’opportunità di conoscere anche il nipote di Padre Messineo, Nunzio, che era impiegato al Ministero delle Finanze e del Tesoro, in Via XX Settembre, dove in seguito fece una bella carriera specialmente sotto il ministro Stammati. Con Nunzio e la sua famiglia ci frequentammo finchè abitò in viale delle Province, ma quando si trasferì a Monte Sacro, nel Villaggio Talenti, la nostra frequentazione diminuì per le distanze e i nostri molti impegni.

A proposito di Talenti, il quale era un grosso imprenditore edile dell’epoca, amico del nostro illustre concittadino, devo dire che Padre Messineo era anche un uomo politico, e avrebbe preferito che la Democrazia Cristiana, si scindesse in due partiti: e lui propendeva per quello di destra che, però, non riuscì mai ad avere vita autonoma.

I miei rapporti con Padre Messineo, durante i miei 25 anni di permanenza a Roma, furono costanti e cordiali e qualche volta siamo usciti assieme, passando spesso dalla sede della rivista “Idea“[7], era nella stessa via di Porta Pinciana, quasi all’angolo della famosa via Sistina, prima di accompagnarlo alla chiesa di Trinità dei Monti, dove confessava e celebrava Messa.

Una curiosità: quando telefonavo e chiedevo di Padre Messineo, dicevo di essere Nicola Lupo, e subito il centralinista mi rispondeva: “subito, dottore!“ Dopo capii che mi confondeva con mio cugino Vito, grande e più intimo amico del Nostro, e da allora, fui costretto a premettere la qualifica di professore.

Un giorno ero andato a trovarlo e mi ricevette nel suo studio di bibliotecario dicendomi: “Permetta che finisca questo lavoretto e poi usciamo insieme.” Intanto che lui vedeva delle carte, io guardavo un’alta pila di libri che stavano sulla sua scrivania e, appena ebbe finito il suo lavoro, preso dalla curiosità, gli domandai: “Sono tutti libri da recensire? E come fa a leggerli tutti?“

Egli, guardandomi con un sorriso sornione, prese uno dei libri e disse: “Guardo e leggo la copertina, poi la controcopertina e l’eventuale risvolto, quindi sfoglio così a caso - e così dicendo aveva preso il tagliacarte che era sul tavolo e tagliò a caso un quinterno, (allora i libri non avevano la costa rifilata e quando non erano letti si diceva che erano intonsi) - leggo la pagina che mi è capitata sott’occhio, e quindi scrivo la mia recensione. Come potrei fare altrimenti?”

Avevo imparato un altro segreto, ma per riuscirci bisogna avere qualcosa che p. Messineo aveva ed altri non hanno: la perspicacia e l’intuito guidati da lunga esperienza.

Arrivò il triste anno ’78 e la sua fine: conosciuta la data e l’ora dei funerali, celebrati nella cappella di Villa Malta, mentre ero a scuola, (inse­gnavo da tre anni alla Media L. Ariosto, vicino casa) chiesi solo un’ora di permesso per rendere l’ultimo omaggio al mio benevolo grande amico; ma feci male perché potetti sentire solo l’elogio funebre, tenuto dall’allora direttore, Padre Bartolomeo Sorge[8], e non vidi né salutai il nipote Nunzio, il quale si offese e non rispose neppure alle condoglianze inviategli subito dopo per lettera.

Come rivedo Padre Messineo: un uomo alto e robusto in cui spiccavano gli occhi vivaci e indagatori e una voce bene impostata, in un viso dal caratteristico colorito scuro dei siciliani, che lo facevano sembrare una scultura di bronzo o una pittura del Caravaggio; ma la sua grande umanità contrastava gradevolmente con le fattezze rudi delle sue schiette e genuine origini contadine, che hanno dato all’umanità personaggi come il ven. Ignazio Capizzi e Papa Giovanni XXIII.

Bari, 9 gennaio 2005

Nicola Lupo

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Note:

(2) La Civiltà Cattolica del 20.5.78 e idem del 3.6.78 a cura di Padre Domenico Mondrone S.J. pp. 468/73.

(3) Fénelon, Francois de Salignac de la Mothe (1651-1715), ecclesiastico e scrittore francese; precettore del Delfino Luigi, duca di Borgogna, per cui scrisse il romanzo pedagogico le Avventure di Telemaco (1699). Seguace del pietismo fu condannato dalla Chiesa e si ritirò a Cambrai, di cui era arcivescovo. Lettere sulle occupazioni dell’ Accademia.

(4) Semeria, Giovanni (1867-1931), di Coldirodi (Imperia), barnabita, grande predicatore Modernista, fu scomunicato e ridotto al silenzio; si rese popolare e benemerito anche per la sua opera durante la guerra 1915-18, cui partecipò come cappellano militare al comando supremo; nel dopoguerra fondò l’Opera Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia per gli orfani di guerra. E’ ricordato dal nostro Vincenzo Schilirò. (vedi nel sito alla mia pagina dedicata a lui.)

(5) Buonaiuti, Ernesto (1881- 1946), di Roma, sacerdote e storico delle religioni, tra i maggiori esponenti del Modernismo in Italia; fu scomunicato (1926). Lettere di un prete modernista, Storia del Cristianesimo.

(6) De Stefano, Antonino, nato a Vita (TP) il 4.8. 1880, ma vissuto a Erice (TP), seminarista a Monreale poi passato al Pontificio Seminario Romano, dove conobbe e fu molto amico del Buonaiuti, ordinato con lui sacerdote nel 1903, fu prima nella sua diocesi di Trapani, ma poi si trasferì a Ginevra dove, dopo il 1907, anno della condanna da parte di Pio X del movimento modernista, fondò e diresse la rivista “Revue moderniste internazionale”. Altre sue opere: Riformatori ed eretici del Medioevo, Chiesa ed eresia, Federico II e le correnti spirituali del suo tempo, L’idea imperiale di Federico II, La cultura alla corte di Federico II imperatore. Morto a Palermo nel 1964.

(7) A proposito della rivista “Idea“ a pag 3 di 6 si dice “Negli ultimi tempi divenne anche collaboratore assiduo della rivista Idea […]” e nel riquadro accanto, che riguarda la Civiltà Cattolica, si dice: “Prestò la sua valida opera anche nella direzione della rivista Idea [...].” Consultato telefonicamente p. Guido Valentinuzzi S. J., bibliotecario di Civiltà Cattolica, egli mi dice che P. Messineo fu un assiduo collaboratore di Mons. Pietro Barbieri, direttore della rivista, nella cui sede il Nostro passava mezze giornate intere, ma non ne fu direttore perché non poteva esserlo in quanto Gesuita che avrebbe dovuto avere una particolare autorizzazione.

(8) P. Gian Paolo Salvini nella succitata lettera del 25.3.’97, scrive anche: “Non mi risulta invece un ricordo pubblicato da p. Sorge, che probabilmente, come Direttore, tenne l’omelia funebre, ma senza poi pubblicarla. Io a quel tempo ero ancora a Milano.” 
 

          

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