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Bronte è diventata un punto di riferimento importante per la cultura e le arti figurative Questa nuova e importante realtà del patrimonio storico culturale di Bronte è nata dopo un lungo e impegnativo cammino nel segno della progressiva rifunzionalizzazione del Real Collegio Capizzi, la prestigiosa istituzione fondata da Ignazio Capizzi nel 1778, con l'obiettivo di «promuovere un'offerta culturale al passo con i tempi e in grado di parlare al cuore dei giovani per promuovere l'elevazione spirituale e la conoscenza della dimensione etica della persona umana». E' sorta grazie all'intuizione ed al costante impegno del prof. Nunzio Sciavarrello illustre artista brontese (nella foto a destra dell'ottobre 2010, mentre sfoglia il catalogo il giorno dell'inaugurazione della Pinacoteca), che ha donato al Collegio la ricca e preziosa collezione di opere grafiche e pittoriche frutto della personale raccolta nel corso della sua attività professionale ed ha contribuito, con instancabile generosità e sollecitudine, al definitivo allestimento riponendo in esso i frutti del suo sapere e della sua esperienza, dell’impegno artistico e sociale che hanno caratterizzato il percorso della sua vita. Per dare degna ed organica allocazione alla raccolta delle opere sono stati ristrutturati i locali del piano terra del Collegio, con accesso autonomo dalla via Card. De Luca, ed è stata costituita tra il Real Collegio Capizzi ed il Comune l’“Associazione Culturale di Studi, Formazione Ricerche e Servizi Nicola Spedalieri” che è il mezzo di gestione della Pinacoteca e della Biblioteca e di altre attività che sono in cantiere. Il corposo nucleo di opere, raccolte e acquisite con dedizione e lungimiranza da Sciavarrello e donate al Collegio con atto del 22 Marzo 2001, rappresenta un significativo exursus artistico dei maestri del 900 ed una preziosa testimonianza del panorama artistico siciliano e nazionale fra secondo e nono decennio del ‘900. Sono, infatti, presenti, per citarne solo alcune, opere di Alessandro e Carmelo Abate, Sebastiano Formica, Rosario Frazzetto, M. M. Lazzaro, Concetto Marchese, Sebastiano Milluzzo, Francesco Ranno, Elio Romano, Domenico Tudisco, Carla Accardi, Concetto Maugeri, Filippo Scroppo, Remo Brindisi, Ernesto Treccani, Gastone Breddo, Carlo Levi, Emilio Isgrò, Mirella Bentivoglio, Alberto Abate, Adriano Altamira, Marco Nereo Rotelli, Antonio e Tano Brancato, Franco Vaccari, Enzo Indaco e di molti altri pittori e scultori del panorama artistico siciliano. Per doveroso omaggio e riconoscimento la Pinacoteca è stata intitolata a Nunzio Sciavarrello ed è stata ufficialmente aperta domenica 10 Ottobre 2010 alla presenza dello stesso Sciavarrello e di numerosi artisti ed autorità. Uno staff qualificato della Accademia di Belle Arti di Catania, ha contribuito ad organizzare nei vari aspetti (archiviazione, catalogazione, documentazione, comunicazione, etc...) l’avvio della “Pinacoteca Nunzio Sciavarrello”. «Se la Pinacoteca – ha affermato il primo responsabile Avv. Enrico Ciraldo - saprà dare ai suoi visitatori, che ci auguriamo numerosi, la ricreazione dello spirito e dell'animo nella ammirazione del Bello avrà raggiunto il proprio scopo, appagando di tante attese e fatiche tutti coloro che hanno lavorato per raggiungere tale fine.»
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di Giuseppe Frazzetto Un discorso sulla Pinacoteca Nunzio Sciavarrello del Reale Collegio Capizzi di Bronte implica inevitabilmente un riferimento al suo promotore, Nunzio Sciavarrello(1). Beninteso, non intendo riproporre qui le analisi storiche e critiche della sua figura artistica che ho avuto modo di articolare in varie occasioni (ad esempio nel libro Solitari come nuvole e nella mostra e nel relativo catalogo La questione siciliana)(2). È però opportuno notare come questa collezione sia da un lato contrassegnata dalla singolare natura del suo determinarsi, e come dall’altro lato in essa sia riscontrabile un legame profondo con le motivazioni complessive dell’intellettuale e organizzatore di cultura Sciavarrello. Comincerò spiegando perché ho scritto “singolare natura” del determinarsi della collezione. Ovviamente, le collezioni d’arte iniziano e si sviluppano per volere d’un privato oppure di un’istituzione; il privato di norma segue motivazioni appunto private, laddove le istituzioni dovrebbero agire in vista d’un interesse più astratto, impersonale. In altri termini, il privato è quasi sempre un collezionista, più o meno competente, più o meno benestante, più o meno illuminato; la sua collezione riflette il suo specifico gusto e/o la direzione culturale che ad un certo momento deve pur avere intrapreso consapevolmente. Il collezionista può avere l’orientamento esclusivista, appassionato, talvolta fazioso che nel suo celebre libro Occhio critico Guido Ballo assegnava agli artisti: l’Occhio assolutista, capace di cogliere nelle opere congeniali il minimo e appena accennato fremito, e all’opposto del tutto freddo se non ottuso di fronte alle opere escluse dalla luce accecante di quell’interesse da fan. Di conseguenza una raccolta da collezionista è spesso intensiva, e altrettanto spesso è soggettiva, perfino umorale, riflettendo con grande somiglianza la fisionomia culturale ed umana di colui che la mise insieme. D’altro canto, le raccolte organizzate dalle istituzioni hanno (o dovrebbero avere) un carattere più estensivo, focalizzandosi su finalità scientifiche e/o didattiche, perfino staccandosi dall’individualità dei curatori pro tempore. Quanto appena ricordato è ovviamente assai generico: in non pochi casi il collezionista ha anche una lucidità da storico, in non pochi casi le collezioni pubbliche risultano casuali e disorganiche. Tuttavia non è difficile cogliere la validità generale dell’argomentazione, almeno dal punto di vista per così dire statistico. Ora, bisogna notare che questa collezione (di cui non ricostruisco la vicenda) non ha avuto quelle caratteristiche. Sciavarrello non si è mosso da collezionista: ancora oggi, la prima cosa che afferma, parlando della sua raccolta, è che la sua motivazione è stata documentaria. Documentaria, quindi assimilabile a una collezione pubblica; tuttavia, sebbene la sua attività si leghi inestricabilmente alla fondazione di un’Istituzione pubblica, l’Accademia di Belle Arti di Catania, Sciavarrello è pur sempre un privato. Insomma, non bisogna chiedere alla raccolta Sciavarrello quello che evidentemente non poteva avere, ad esempio “completezza”; d’altra parte, non ha nemmeno lo stigma spesso monotematico delle collezioni private. In più, la raccolta rivela l’origine delle singole opere, non di rado donate o acquisite per una cifra simbolica sulla base di rapporti di stima, d’amicizia e perfino d’affetto (per cui a volte le opere sono quasi pagine di diario, veloci appunti a matita o a penna, o sono contrassegnate da dediche). L’intento di Sciavarrello del resto risulta particolarmente chiaro là dove si consideri che uno dei nuclei di interesse della raccolta è la documentazione dell’attività artistica in Sicilia e in particolare nella zona etnea nel periodo che va dagli anni ‘30 agli anni ‘60. Un nucleo importante di opere che in pratica assegnano alla raccolta lo status di unicum, considerato che nessun’altra collezione esistente propone alla considerazione degli storici un repertorio analogo (qualche collezione sita nella zona occidentale dell’isola documenta l’attività artistica in Sicilia negli anni precedenti o negli anni successivi). Di là dalla considerazione critica é delle singole opere, il valore appunto di documentazione storica di quel corpus appare insostituibile. Tuttavia la raccolta Sciavarrello non è soltanto una collezione di dipinti e sculture prodotti da artisti siciliani. Al contrario, un gruppo ancora più numeroso di opere documenta, sia pure in termini sintetici e non esaustivi, la produzione di alcuni fra i protagonisti della ricerca artistica italiana della seconda metà del ‘900. Un altro nucleo documenta alcune fra le tendenze emergenti nell’arte fra gli anni ‘70 e ‘80, con specifico risalto assegnato alla generazione nata negli anni ‘50. (Un discorso a parte andrebbe poi fatto per la corposa collezione di grafica, di provenienza in questo caso internazionale). La collezione documenta alcuni aspetti del ‘900 italiano. Qui si presentano circa cento quaranta opere, selezionate fra le oltre trecentocinquanta della raccolta completa (esclusa la grafica). Parlarne pone l’opportunità di una riflessione complessiva; d’altra parte, sarebbe francamente incomprensibile non cogliere l’occasione offerta dalla collocazione definitiva della raccolta per rilanciare una campagna di nuove acquisizioni, con tempi e modalità di cui qui ovviamente non è il caso di discutere, ma che di certo potrebbe e dovrebbe orientarsi verso un’integrazione dell’indagine sul recente passato, e verso un interesse per l’attualità e per la produzione dei giovani artisti. Come si è detto, un gruppo di opere documenta l’attività degli artisti siciliani nati nei primi due decenni del ‘900, o poco prima (fra gli altri Alessandro e Carmelo Abate, Sebastiano Formica, Rosario Frazzetto, M. M. Lazzaro, Concetto Marchese, Sebastiano Milluzzo, Francesco Ranno, Elio Romano, Eugenio Russo, Domenico Tudisco). Pittori e scultori attivi in una fase delicatissima della vita culturale e sociale dell’isola: si tratta infatti dell’ultima stagione nella quale gli artisti siciliani non avvertono un distacco effettivo dal dibattito nazionale, interpretandosi non come testimoni d’una realtà provinciale ed emarginata, bensì come portabandiera di un’efficace volontà di “rinnovamento”. La nozione di “rinnovamento” è anzi quella centrale, là dove si voglia comprendere il senso complessivo dell’attività di questi artisti portabandiera di un’efficace volontà di “rinnovamento”. Un aggiornamento culturale ed esistenziale che significava da un lato consapevolezza dell’urgenza del Moderno, in ogni sua forma (non solo artistica, intendo), e dall’altro lato comportava l’acquisizione delle “novità” con una sorta di beneficio di inventario, per cui il susseguirsi degli “ismi” non veniva registrato come semplice dato a cui adeguarsi, e al contrario appariva punto di partenza su cui commisurare, rinnovare ed eventualmente modificare la propria identità artistica. Tale tensione verso il Moderno può cogliersi quasi in ogni testimonianza, artistica e critica, dell’operato e delle intenzioni di questi artisti. E talvolta quella tensione veniva vissuta come rischio o come opportunità d’un distacco dall’opinione comune, e dunque come rivendicazione d’essere specialisti, portatori d’un vessillo ancora misconosciuto ma vincente. Dopo aver esaminato alcune fra le opere presentate Lazzaro passa alle opere ‘novecentiste’, fra cui le proprie: “Del Lazzaro, naturalmente, ci piace tutto checché ne pensi tanta gente che abbiamo udita. Solamente teniamo a dichiarare che le male parole che riguardano lui e i suoi amici modernisti lasciano il tempo che trovano, e sono destinate a percorrere, in effettivo, quei quindici o venti centimetri che distanziano in linea retta gli orecchi di ognuno: dal sinistro al destro e viceversa. Il tema della ‘incomprensione’, ovvio risultato dell’intento rinnovatore degli artisti, riecheggiava del resto in molte riflessioni dell’epoca. Incomprensione, in primo luogo, fra gli artisti e quelli che avrebbero dovuto essere i loro naturali interlocutori, i letterati. Questi artisti affrontarono il travaglio d’un passaggio epocale, durante cui si consumò la transizione fra due modi radicalmente diversi e forse opposti d’intendere e di realizzare l’arte. Salvacondotto, durante quel difficile e rischioso transito, fu per alcuni l’idea dell’oltranza linguistica, prima futurista poi novecentista; per altri fu la rielaborazione d’un modernismo “spiritualizzato”, spesso consentaneo ai modi del Liberty; per altri (soprattutto per gli scultori) fu la nozione d’un “classicismo moderno” che riuscisse a saldare in unità la maestria del fare e l’inquietudine dei tempi nuovi. A tutti fu comune un disagio e un disincanto, che per qualcuno divennero amaro rinserrarsi nella dignità della propria cifra stilistica, mentre per altri si sublimarono in fervore didattico e organizzativo. Del resto, è il caso di ricordare che se l’inizio degli anni ‘30 vide apparire alla ribalta il palermitano “Gruppo dei Quattro” (Guttuso, Pasqualino Noto, Franchina, Barbera), caso esemplare del colloquio fra attitudini culturali di origine locale e istanze di respiro europeo, viceversa alla fine degli anni ‘30 o subito dopo la Seconda Guerra Mondiale molti giovani protagonisti della cultura artistica isolana decisero di emigrare. E la presenza rilevante degli “emigrati” nell’ambito della cultura artistica nazionale è uno degli elementi specifici di quella che altrove ho definito “la questione siciliana”. La vicenda del Moderno nell’isola va contestualizzata nell’ambito d’un discorso più ampio. Dato il carattere composito della collezione, che propone documenti artistici contrassegnati anche dalla compresenza di (e/o dalla dialettica fra) globale e locale, ovvero di “stile internazionale” e di sviluppi regionali, si dovranno ricordare alcune peculiarità del Moderno, considerato sia nelle sue motivazioni e nei suoi esiti “alti” che nelle sue dislocazioni diffuse, inavvertite, perfino di secondo grado. In particolare, non poche testimonianze qui proposte (ad esempio quelle di Carla Accardi, Concetto Maugeri, Filippo Scroppo, da un lato; Remo Brindisi, Ernesto Treccani, Gastone Breddo, Carlo Levi dall’altro) richiedono una riflessione sul tema, così presente (così ossessivo, per essere precisi) nel dibattito artistico italiano, dell’alternativa fra astratto e figurativo. Per quanto concerne il ‘900 italiano, le origini di tale dibattito possono cogliersi già nella pulsione macchinica del Futurismo, e dell’avanguardia “sommersa” fra le due guerre; ma è nel dopoguerra che la questione si pone all’ordine del giorno, implicando anatemi, rotture, fraintendimenti. La polemica fra “astratto” e “figurativo” è la manifestazione del contrasto fra una concezione dell’arte come correlato narrativo d’una “realtà” che si suppone conoscibile agli occhi ed alla mente del pittore (oppure: alla sua ideologia), e una diversa idea dell’arte, che sospende o revoca il giudizio di conoscibilità dell’esterno, concentrandosi piuttosto sulla considerazione del proprio modularsi, e scommettendo talvolta sulla connessione o identità fra quel modularsi delle forme/colori e un ipotetico affiorare della “autenticità” del Singolo, giusta la vulgata esistenzialista. Ma ci si può chiedere se, pur essendo non più pensate come segnale d’un individuo, d’un oggetto o di una storia, le “forme” possano (o debbano) conservare un legame col visibile. La soggettività dovrà scomparire, dato che le forme, nella loro cartesiana ed astratta chiarezza o nel loro sconfinamento simpatetico, rivelano lo strutturarsi d’un più alto, immateriale piano dell’esistenza? Oppure all’emozione dovrà sostituirsi la mera percezione? Beninteso, si tratta di tematiche che attraversano l’intero percorso dell’arte dalla fine dell’800, e che so stanziano prima il Simbolismo, poi l’Avanguardia Storica, poi l’apparente ripiegamento del cosiddetto “Ritorno all’ordine”; tematiche che nel Dopoguerra italiano vengono tuttavia riprese con specifiche tonalità (ad esempio esplicitamente ideologiche, oppure di impostazione cattolica). Non a caso, la koinè informale italiana si configura con movenze assai diverse rispetto a quella francese e più in generale a quella europea. Nel passaggio fra gli anni ‘50 e i ‘60 si osserva una ulteriore vaporizzazione delle poetiche e degli stili. La nuova cesura è legata all’avvento della società “dei consumi”; e il linguaggio più comune tende a diventare il Pop, sedotto dall’artificialità mediatica (ascendenze Pop possono cogliersi anche in molti protagonisti di quella che si chiamò “Nuova Figurazione”). Allo stesso tempo si registra il diffondersi di esperienze oggettuali e protoconcettuali. In questione è talvolta la stessa nozione di opera, “aperta” e/o destrutturata da tattiche intertestuali e infratestuali di relativizzazione mentalizzata dei linguaggi. È in certo senso una risposta al primo apparire del Nuovo Mondo Estetico, che continuamente consuma e rianima parole e immagini, sfiorando l’entropia dell’assenza di senso per eccesso di senso. I linguaggi sempre più spesso appaiono rovine d’una costruzione che forse in origine fu razionale e comunicativa, ma che è ormai inabitabile per l’uso reiterato e maldestro. Se l'indagine del nesso significante/significato (o significante/significante) si confronta col campo dell'artificiale, del mediale, del simulato, altre esperienze fanno i conti col rapporto critico fra Singolo e Collettivo. La prassi analitica, esplicitamente mentalizzata, attraversa gli anni dalla metà dei '60 alla fine dei '70. La scommessa analitica muove dal credito assegnato all'idea d'un soggetto saldamente legato ad un progetto forte, tanto forte da sopportare perfino la propria sostanziale eclisse. E l'indagine metalinguistica ha per oggetto talvolta anche la pittura, della quale si rimettono in gioco le articolazioni primarie, destrutturando il rapporto fra stesura superficie, cromatismo e segnicità, quasi per verificare se e come pittura possa ancora farsi. Quella fase sembra concludersi negli anni '80. |
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