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L'Eruzione del 1843
VISTA DALLO STORICO,
DAL VULCANOLOGO,
DALLO SCRITTORE
Lo storico brontese, Benedetto Radice, nelle sue "Memorie storiche di Bronte" ed il vulcanologo catanese Carlo Gemmellaro (1787-1866) ne "La vulcanologia dell'Etna (Catania, 1858), parlano diffusamente delle eruzioni dell'Etna e descrivono in particolare le colate laviche, a volte lunghe e devastanti, degli anni 1170, 1395, 1536, 1651, 1758, 1763, 1832 e 1843. Quest'ultima - della breve durata, appena nove giorni - è rimasta particolarmente viva nella memoria perchè, oltre a distruggere e ricoprire boschi ed i fertili terreni coltivabili di Fiteni, Dagali e Barrili , causò - cosa per la verità rara per le particolari caratteristiche eruttive del nostro vulcano - la morte di oltre 50 persone fra brontesi e curiosi. Su questa funesta eruzione vi proponiamo le pagine dello storico Benedetto Radice, del vulcanologo Carlo Gemmellaro e "la leggenda" che Giuseppe Cimbali scrisse sulle stesso argomento. L'Eruzione del 1843 vista dallo STORICO Benedetto Radice [Memorie storiche di Bronte] La sera del 17 Novembre | |||||||
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Carlo Gemmellaro L'apertura di non meno di quindici bocche
Scosse di tremuoto, e continuo rumoreggiare precedettero di poche ore l'apertura di non meno di quindici bocche. Erano queste così vicine una all' altra da prender l'aspetto di una sola infocata spaccatura della montagna, e le scorie che venivan fuori, vi andavan formando nel cadere, un elevato margine che tutte le racchiudeva. Al primo aprirsi di quelle bocche, a grande altezza furon lanciate masse di varia mole, alle quali successero esplosioni di scorie e di lapillo; e quindi immensa quantità di arena venne fuori agglomerata nel fumo, e si sparse per tutta la plaga orientale e meridionale della Montagna. Non andò guari che da quella scissura cominciò a sgorgare un fiume di lava infuocata, che corse precipitoso per la pendice, passando sopra di quella del 1832, non molto alta in quel sito, ed occupavala con una fronte di canne 50 sino a mezzo miglio, restringendosi ed elargandosi a seconda del suolo vario che percorreva. In poche ore era andata due miglia; si divise in tre braccia, fra M. Egitto, e M. Rovere: quello a destra prendeva la direzione del bosco di Maletto, quello di mezzo scendeva dritto verso Bronte, l'altro a sinistra avviavasi al bosco di Adernò; ma queste braccia laterali non ebbero molto vigore, e non tardarono ad arrestarsi. Quello di mezzo però ingrossato e minaccevole precipitoso scorreva sopra Bronte, fiancheggiando in prima le Dagale chiuse, ed occupando poscia intieramenle quelle antiche lave coltivate; nè ostacolo alcuno incontrava dalla ineguale ed asprissima superficie di quella del 1832, nè di quella di M. Rovere, di epoca ignota. Il giorno 18 continuava a minacciar Bronte, benchè non molto rapida apparisse nel corso, meno acclive essendo il terreno che percorreva, ed il braccio diretto pel bosco di Adernò cominciava a fermarsi. Straordinarie erano intanto, le colonne del fumo che dalla nuova apertura; non che dal sommo cratere dell'Etna, senza intervallo sollevavansi; l'intero corpo della Montagna ne restava ingombrato, e pareva che enorme mucchio di nuvole agglomeravasi intorno ad essa. L'indomani il disordine cagionato dell'imminente pericolo, regnava nella popolazione di Bronte, che a tre miglia vedeva già la lava infocata venirsene direttamente alle sue mura. Fortunatamente però la corrente venne a dar di fronte ad un alto poggio detto la Vittoria, a due miglia da Bronte, e piegando così a mezzogiorno deviò il suo corso, e scese ad occupare le antiche lave coltivate dette di Paparìa. A 23 Novembre, dopo di aver ingombrato il fondo detto di Fiteni in contrada Tripitò, giunse alla strada consolare da Palermo a Messina, e la traversò in poche ore con una superficie di un quarto di miglio, di orrida lava alta da 30 a 50 palmi, fra le colonne milliarie 156.167. Nel giorno 24 avea già preso il declivio del pendio della gran valle, che vien formata dalla falda occidentale dell'Etna a sinistra, e dalle montagne della Placa a destra, nel mezzo della quale scorre il Simeto attraverso dell'antico terreno secondario, e delle lave prismatiche dell'Etna. La parte sinistra, così, della valle per essere costituita di lave antiche è alquanto coltivata, benchè non molto rigogliosa ne è la vegetazione; nel basso però ove il terreno è irrigato da acque sorgive, la coltivazione è più innoltrata, ed alberi di alto fusto e fruttiferi, e terre da cereali ed ortaggi la rendono amena e profittevole.
Triste e desolante spettacolo era la vista di tanta gente pallida ne' volti, con ansante sguardo mirare la minaccevole massa della corrente; la quale, scorificata nella superficie, pareva un'antica macerie di asprissime rocce; ma il muoversi di quelle, lo strepito metallico che tal movimento produceva, e lo andare in frana, di un colpo, tutto il fronte della corrente e scoprirsi la infocata liquida materia sottoposta, dava a conoscere, che viva ed insistente era la forza che innanzi spingevala, e che tremendo era il suo progredimento. Gli alberi che incontrava divenivano in poco tempo preda delle fiamme; e tosto gli incarboniti tronchi restavan gomitolati fra le scorie, e dato l'ultimo fumo sparivano dalla vista. Ad evitarne la perdita totale i proprietarii, a via di colpi di scure ne recidevano, piangendo, quelli cui imminente stava la infocata fiumara, e via trasportavanli ad uso di legna. Altri a salvar quanto potevano affrettavansi, togliendo dalle casucce di campagna le tegole, le porte, il legname: sradicando le viti, abbattendo gli alberi, e tutto trascinando lungi da' minacciati luoghi. Inesorabile scendeva la corrente sul pianotto e verso la contrada di Dagala e Barile, e minacciava altri terreni irrigui e fertilissimi. Un avvenimento, ancor più funesto però, sopraggiungeva agli abitanti di Bronte nel giorno 25 poco dopo mezzodì, ove vengono a limitare tra loro il fondo di Fiteni e di Barile, e precisamente in una chiusa dell'aromatario D. Ignazio Zappìa. Molta era la gente che presso al Pianotto trovavasi ad osservare il progresso della lava, ed a lavorar con ardore a mettere in salvo quanto poteva di que' terreni coltivati. La lava lentamente avanzavasi, e dava tempo a quei miseri di riuscire nelle opere loro: quando di un colpo, inaspettatamente una violentissima esplosione ebbe luogo nel fronte della corrente; la quale con immensurabil forza scoppiando, ridusse in frantumi in lapillo ed in minuta arena la lava rovente; densa ed estesa nebbia di fumo sparse all'intorno, carica di minuta rovente arena, e spinse con tal empito questi materiali, che non solo gli alberi e gli uomini che vi stavan presso ne furono colpiti e disfatti, ma a distanza di ben trenta canne quali morti, quali semivivi, quali feriti, sessantanove persone del solo Comune di Bronte, con altri non pochi di altri comuni ivi tratti dalla curiosità di vedere il corso della lava. Quale si fosse stato lo spavento della popolazione di Bronte a quel lagrimevole avvenimento, è facile più ad imaginarlo che a descriverlo qui in poche parole. Le relazioni che se ne scrissero ne conserveranno la trista memoria. La eruzione intanto nel giorno 16 cominciava a scemar di energìa, e la lava lentamente avanzavasi nella contrada di Dagala e Barile - finalmente a 27 Nov. le bocche della Eruzione cessarono dalla loro attività, e nuova materia fusa non venne più fuori; talchè il movimento progressivo della lava era tardissimo. [Prof. Carlo Gemmellaro (1787-1866), "La vulcanologia dell'Etna", Tipografia dell'Accademia Gioiena, Catania 1858] | ||
E la lava, lavorava, lavorava senza tregua
«[…] Una nebbia densa copriva, come con una cappa di bronzo, tutto, cielo e terra. Aliava nell'aria pesante e opprimente una vaporosità così calda e cosi accensibile, che un lieve strofinio, una lieve scintilla sembrava avesse potuto destare un incendio universale. Dappertutto un odor nauseabondo e caustico di metalli fusi, che bruciava gli occhi, che schiaffeggiava il viso, che opprimeva i polmoni: si stentava a respirare. Era uno spettacolo mai visto, che metteva paura. Poteva essere forse il preludio d'un eclissi di sole, forse d'un uragano, forse d'un terremoto, forse d'un eruzione dell'Etna. Dei mormorii confusi ed insistenti e crescenti di preoccupazione triste si levavano a folla da ogni punto del paese; e, congiungendosi in alto, prendevano la forma lugubremente solenne d'un lamento di desolazione angosciosa. Da un momento all'altro si poteva essere trasportati via, come niente fosse, tra le spire d'un ciclone, centinaia e centinaia di miglia lontano; da un momento all'altro si poteva essere inghiottiti dal seno squarciato della terra; da un momento all'altro si poteva essere sepolti da una pioggia d'arena infocata! Poi la scena cambiò d'un tratto, doventando più spaventosa. De' boati stordenti che, rumoreggiando senza interruzione e suscitando echi paurosi dovunque, scuotevano le case, i monti, la terra stessa come una foglia d'albero, e parea avessero voluto subbissare l'universo intero, animarono più lugubremente il silenzio dell'oscurità muta incombente. Dopo, il cannoneggiamento, giunto alla sommità della parabola, cominciò a decrescere; e, nella direzione di quei boati, sprizzò improvvisa una sorgente di luce colossale, le cui fiamme, con slancio irrefrenato, sfondavano il terzo cielo. La vaporosità tenebrosa circostante si tinse subita mente del colore de' riverberi sanguigni, rosseggiando; e tutto si vedeva come in preda ad un incendio finale distruggitore. La preoccupazione allora doventò spavento, e le voci di sorpresa doventarono grida d'orrore. Un pianto interminato proruppe fremendo dall'animo di tutti. Erano perduti: e, nell'imminenza del pericolo certo, era un pregar fervido, un imprecar disdegnoso, un abbandonare tumultuoso le case, un suonar pazzo delle campane a stormo, un accorrere affrettato nelle chiese, come ad un ultimo rifugio, un chiamarsi e richiamarsi disperatamente reciproco, un abbracciarsi e un baciarsi furibondo come per l'estremo addio. Erano perduti: perduti senza speranza alcuna di salvazione! Più tardi, inaspettatamente, il rumoreggiare, cessò del tutto e la nebbia cominciò a diradarsi un poco dal resto dell'orizzonte, lasciando vedere il giorno e mettendo una calmante rassicurazione ne' più. L'oscurità densa s'era ritirata man mano attorno attorno all'Etna, perduta in un oceano fluttuante di fumosità tempestosa, dai cui fianchi, in più parti dilacerati, scendeva giù devastatrice una fiumana dilagante di fuoco. L'eruzione durava così, colla stessa violenza, da parecchi giorni. Bronte, però, come in altre eruzioni precedenti anche in questa, non correva pericolo alcuno.
Per dispetto ha voluto prendersi la vittoria di inaridirgli a più riprese i campi fecondi de' dintorni, tramutandoglieli da giardini fiorenti in immensi deserti di massi giganteschi e nereggianti, accessibili solo alla solitaria ginestra, che a primavera manda a profusione il grato odore de' suoi fiori gialli e vellutati fra tanto squallore irriconoscente; ma il cuore è rimasto sempre intatto; e quel cuore arde anche in mezzo al deserto, è fecondo anche in mezzo alla devastazione, vince tutto e trionfa. Ecco: tutti i dispetti non erano esauriti: restavano ancora alle falde dell'Etna terreni ubertuosi da distruggere per compiere la rovina generale; e son questi terreni appunto che vengono ora coperti da immense masse incandescenti che, raffreddate, ne suggelleranno la sterilità per secoli infiniti. Facevano uno strano contrasto, invero. Da un lato deserto e dall'altro l'incanto d'una meravigliosa vegetazione tropicale! Bisognava uguagliar tutto nel nulla, dunque. E la lava, a questo scopo, lavorava, lavorava senza tregua. Un giorno, quando già gli animi erano rassicurati e il dolore delle perdite si riduceva solo a poco perchè la gente era andata sin' allora sana e salva, fu inteso uno scoppio orrendo, come l'esplosione d'una forza trapotente per tanto tempo compressa, che risuonò per la Sicilia tutta, quasi avesse voluto sconquassarla. Il cielo s'era coperto d'un tratto d'una caligine cocente e densissima; il sole si era come eclissato sinistramente, e per l'aria s'erano visti vagare de' pezzi di membra umane e uomini interi dispersi in fumo subito dopo. Il paese fu di nuovo in grande scompiglio; e lo scompiglio doventò delirio quando poco dopo si seppe tutto. La lava era stata gelosa nel suo lavoro di distruzione: gelosa sino all'ultimo sangue. Molti e molti, quel giorno, attendevano, pietosi, a sradicare alberelli giovani e gagliardi, che più tardi sarebbero stati travolti nello sterminio invadente per trasportarli in contrade meno sfortunate. Per quell'opera di salvataggio essi credevano di conquistare la gratitudine della grande famiglia vegetale e provavano insieme la gioia di risparmiare la morte certa a tanti esseri degni di vivere e di fecondare ancora. La lava, gelosa, a un certo punto parve si arrestasse; ma gonfiava, gonfiava, come gonfia nell'animo nemico un odio irrefrenato per far più colpo dopo, scoppiando improvvisamente. Quei miseri credevano, che esso acconsentisse alla loro opera buona con quella calma, con quella sosta apparente e che avesse voluto concedere loro del tempo per profittarne meglio; e, dimentichi del pericolo sovrastante, doventarono più alacri e più arditi. Nel momento della loro incoscienza maggiore, però, la bolla traditrice scoppiò; e le vittime non si poterono contare! Tosto il paese, come un corpo solo, valanga irrompente, si rovesciò sul luogo del disastro con lacrime di disperazione, con gemiti d'orrore, che facevano fremere la natura impassibile intorno, alto chiamando chi il nome del padre, chi quello del fratello, chi quello dell'amico, chi quello del marito o dell'amante. A molti non rispondeva alcuno: ad altri, forse pili infelici, rispondeva soltanto un filo di voce umana, che metteva ribrezzo venendo da uomini trasformati in mostri orrorosi d'inferno. I più, infatti, erano scomparsi del tutto nella catastrofe senza lasciare traccia veruna di sè, e gli altri erano rimasti come tanti pezzi di legno ridotti in carbone, putrefatti e animati soltanto da un soffio fuggente di vita. - Maria Vergine, dunque non si ricordava più de' suoi figli diletti per permetterne tanto strazio? Bronte, allora più della disgrazia toccata, ebbe paura dell'abbandono della sua santa protettrice. Senza di essa, non avrebbe avuto verso chi ricorrere nelle sciagure. Abbandonato a se, non avrebbe avuto più un giorno, solo un giorno di vita. Perchè solo Maria Vergine bella avea voluto essere la sua protettrice, la madre sua; ed essa sola poteva salvarlo nell'avvenire come l'avea salvato nel passato, da' furori ciechi di Mongibello. Quando il giorno appresso tutti corsero alla Chiesa per pregare la Gran Signora ad aver pietà di loro e a voler risparmiare altri disastri ed altre vittime, trovarono la meravigliosa statua di marmo con due grosse lacrime tremolanti in sugli occhi e con del sudore sulla fronte. Oh no: essa non si era dimenticata de' suoi figli diletti! Voleva dire, che quelle vittime era necessario, che ci fossero; e che per tanto intercedere che avesse fatto, non aveva potuto ottenerne la grazia richiesta dalla misericordia di Dio, in tempi di tanta corruzione. Il popolo volle la sua madre celeste discesa dall'altare: la volle in mezzo alla chiesa. L'avrebbe pregata più calorosamente così, e sarebbe stato certo esaudito nella sua preghiera fervente. Poi la condusse fuori in processione e la piantò nel cospetto di Mongibello, orribilmente minaccioso tuttavia. Poco dopo, il miracolo era tatto. L'eruzione sembrava estinta da cento anni». (Di Giuseppe Cimbali, vedi la "leggenda" "La Madonna dell'Annunziata") | ||
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