Tradizioni brontesi

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La leggenda dell'arrivo a Bronte delle statue

La Madonna dell'Annunziata

di Giuseppe Cimbali
(da “Terra di Fuoco – Leggende siciliane”)

Mentre Bronte era anco­ra al principio della sua fonda­zio­ne, una tem­pe­sta inaudita fece naufra­gare in sulla costa occi­den­tale della Sicilia una nave che veniva dalla Grecia diretta per non si sa dove. Tutto perì, uomini e cose; ma, super­stite al comune naufragio, pochi giorni do­po, si vide galleg­giare vici­no alla riva una grande cassa, che conteneva un peso enorme e che mo­stra­va nondimeno d'avere la leggerezza di una piuma.

Ripescata, quella cassa fu aperta; e, con sorpresa e confusione generale, fu rinvenuta lì dentro l'immagine della Vergine Madre di Nostro Signore e quella del­l'An­gelo Annunziatore. Tutti caddero in ginocchio, umiliati e tremanti dinanzi allo spettacolo di tanta bellezza celeste. I primi occupanti se ne impadronirono e contavano di posse­dere un tesoro inestimabile.

In quella stagione alcuni mercanti, in giro pel commercio del­l'albaggio, capitarono in quella costa fortunata dell'isola. Ebbero sentore delle due statue ed aprirono l'animo alla speranza d'un negozio vantaggioso. Le loro speranze, infatti, non andarono fallite ed il negozio fu conchiuso: barattarono le due statue con tutto l'albaggio che quell'anno portavano appresso.

L'avrebbero poscia rivendute a caro prezzo in Catania, in Messina o in Palermo. Si sarebbero fatti ricchissimi. Erano pazzi di gioja. Ma non tardò molto che si pentirono amaramente del negozio fatto.

Situate le due statue sopra un carro resistente im­provvisato, non c'era forza umana che potesse tra­sportarle. I buoi più gagliardi vi restavano oppressi, schiacciati.

Era una disperazione grande. Avrebbero voluto rifare il baratto e maledivano l'occasione che li aveva distolti dal loro traffico solito. Dinanzi a quelle immagini di paradiso non lasciavano nemmeno di far sentire imprecazioni e bestemmie perfide.

E la Vergine e l'Angelo che sorridevano sempre di questo imbarazzo dei mercanti, delle loro imprecazioni e delle loro bestem­mie, con un sorriso tutto candore, tutto bontà.

Piangendo e delirando notte e giorno, quelli s'erano decisi final­mente di abbandonar tutto e di tornare in patria poveri e derelitti. Era stata una vera sciagura. Avrebbero detto che erano stati derubati da' briganti. Veramente, parti­rono imprecando e bestemmiando più a lungo.

Giunti una mattina, in sulla prima alba, in una selva foltissima, videro sbucare di tra le macchie impene­trabili un'infinità di buoi  selvaggi, che avrebbero potuto portare addosso lo stesso Mongibello. Mentre gli altri fuggirono dileguando come baleno nella bosca­glia, due di essi, pieni di mansuetudine nuova, restarono a guardare con benevolenza i mercanti desolati, in atteggiamento di dir loro, che erano pronti a mettersi a loro disposizione.

A' mercanti tornò improvvisamente nell'animo la speranza perduta. Guidati da una inspirazione sovrumana, si avvicinarono a quella coppia di buoi selvaggi; con letizia somma poterono legarli con un pezzo di corda al collo e tornarono indietro, là donde erano partiti.

La Vergine e l'Angelo in sul carro, che si disegna­vano con purezza inef­fabile in quello sfondo azzurro e lucente di cielo e di mare, sorridevano sempre col loro sorriso tutto candore, tutto bontà!

I buoi, giunti colà, come ci aves­sero avuto il giudizio, fecero rive­ren­za alla Vergine ed all'An­gelo compagno, inginoc­chian­dosi. Poi si lascia­rono legare al carro umil­mente e si misero in cammino, tirandolo come niente fosse. Non c'erano strade, non c'erano sentieri; e pure, il carro proce­deva liberamente. Durante quel passag­gio, le selve diradavano gli alberi, i precipizii scompa­rivano e gli abissi si colmavano!

I mercanti, pentiti profondamente per avere osato di dubitare un istante, dinanzi a tanto prodigio parlante, andavano versando lacrime caldissime.

La Vergine, così, giunse presto in Bronte, fermandosi nella parte estrema del paese che allora cominciava a sorgere, di fronte a Mongibello, che s'innalzava gigante e minaccioso lassù, in fondo. I mercanti volevano che proseguisse tuttavia il viaggio per giungere almeno a Catania, dove l'avrebbero rivenduta a caro prezzo; ma i loro sforzi furono inutili.

Ella volle rimanere quivi; ed Ella stessa fece fare un giretto a' buoi per segnare i confini della chiesa che avrebbe voluto edificata.

Tutto il paese si prosternò a' piedi della Vergine, che gli si offriva per protettrice; colmò d'oro i mercanti perchè gliela lasciassero, e le fondò in quel punto la bella chiesa dell'An­nunziata, che guarda di fronte l'Etna. Sin da quel tempo Bronte non teme più i furori di Mongibello; perchè Maria Vergine, dal suo stesso altare benedetto, non perde un momento di vista il terribile mostro.

[Da “Terra di Fuoco – Leggende siciliane”, di Giuseppe Cimbali, Euseo Molino Editore, Roma 1887. Dello stesso libro vedi pure "L'eruzione del 1843"]

    

Le Leggende

«Quello che colpisce di più in queste leggende in versi popolari - scrive p. Vincenzo Saitta ("Aspetti sulla religiosità popolare dei brontesi", pag. 15) è la fede di un intero popolo che vuole per il paese una statua della Madonna.
Il paese era povero e il Gagini nel 1541 per la statua aveva chiesto 48 onze.
Poiché gli abitanti erano famosi per la tessitura dell'albaggio (drappo grossolano), fu venduto di questo tessuto e con il ricavato si ottenne la statua della Madonna con l'angelo che le annunzia la nascita di Gesù. La statua fu collocata nella chiesa che prese il titolo “della Annunziata” e costruita di fronte all'Etna. I brontesi costruirono la chiesa per di fronte all'Etna per essere guardati e custoditi dalla Madonna: sacro e profano vanno insieme».

Ma intanto seguiamo queste leggende nei versi della tradizione popolare:

Diu ca fussi jiu lu so pueta
Di lu Spiritu Santu accumpagnatu.

Vurria aviri lumi e sensu quetu
È spiegari di Maria lu so puttatu.

Nullu ci avia pututu pi sta criatura fari strata
Ca alla marina era situata
La a Nunziata.

Ognunu chi la guaddava s'indi cumpiaciva
E ri li so billizzi s’indi ralligrava
E li so muniti ci spindiva.

Un pòviru miccanti si truvà a passari
N'avia rinari
Ma c'un pocu r'abbràciu sa cangiau.

Ma lu mastru marioru ci rissi:
“Vi rata a puttari tutt'anavota
A s'annunca non vi rugnu ne a Maronna e no rinari”.

A lu puvvirellu ci muriu lu cori.
“Ora maru pi mia commu àjiu a fari?”
Ma pi spirienza ci vinni la junnata:
Sbirau 'ndi una ri chilla cuntrata.

Va ‘ndo mègghiu ri chilli patruni:
“Na prighera vi dumandu amicu mèjiu”.
“Chi cosza aviti,e chi vi succiriu?”

“Cca ciàjiu na bella mmàggini sacrata
Vurissi na para ri bò pi fari strata”.

Apprimma non avia la ‘ntinzioni
Ma pò u patruni rissi:
“Lu vògghiu buffiniari.

Aspittati ca vi scrivu ddu parori
C'allu curatru ci rati a puttari”.

Tuttu cuntentu s'indi ritunnau
A la Matri ri Diu cciù ji a cuntari.

Un lazzettu novu si ccattau
È ‘ndi lu curatru s'indi jiu.

“Diu v'ajiuta curatru!
Mi manda lu vostru patruni
Si mi rati li bò marapimoni”.

Lu curatru ci rissi:
“Chissu fu buffiniuni amicu miu.
Li bò sgarraghi sù, cu ra ‘manzari?
Pigghiari non si fanu
Né ri curatri, né ri vaccara,
Ca mancu rarreri ci putimmu jiri”.

Ma si riponi la Matri ri Diu!
Li bò marapimoni ci cumparinu.

“Truscì, truscì”, s'indi jiu facendu,
A la marina si ranu scindutu.
Li jinu a ‘mpajiari commu na para ri sciccarelli.

Passu, passittu lu so caminari
L'abburi stritti li facia allaggari.
È li galluni parianu un kianu
Cà nenti ‘ndi paria mattirrenu:
Cosza c’a Bronti s'avi a priricari.

Ndì lu chianu si mìszinu a stagghiari
Undi vossi la sò cappella situvata
Ravanti Mumgibellu naturari.

LIà non ci funu non parori, né punturati
Llà undi vossi èssiri puttata.

“Spajiàmmuri, ca stanchi su pòviri ammari!
Àmmucci ebba, àmmucci ristoru!”

Appena li spajianu
Nullu ci potti jiri ravanti
Caminandu e non puszandu peri
Sina ca rrivanu llà ‘ndi li vaccara.

Scusàtimi dutturi e sapienti
Ca sti canzuni non sunu cunszuranti
Ca di li patti mia non c’indè nenti
Ca commu un tuddu vi restu ravanti.

Ecco altri versi della tradizione popolare sul viaggio della statua della Madonna in Bronte; questa volta vengono però espressi in forme di preghiera e dove si intravede un grande senso del reale:

Maria ti pattisti
È ti pattisti tantu luntanu
E ti pattisti cu na vera tramuntana.

Vìggini santa e vìggini suvrana
Criata ra putenza divina
L'àngiru vi saruta e s’inginòcchia
È pò s’inchina.

È vu ri Bronti siti na riggina
a ogni bruntiszi na savviriggina.

Bella matri ra Nunziata
chi siti nostra avvocata.

Quantu tìtuli aviti
Tanti grazi cunciriti.

Cuncirìtindi unitta a mia
Chi vi ricu levi maria.

La fiducia nella Madonna cresce di più quando l’Etna diventa il flagello più duro verso i brontesi. contro l'Etna nulla si può fare. I terremoti talvolta diventano assordanti, le colate laviche continue tali de seppellire anni ed anni di lavoro duro ed ingrato. Così i brontesi come ultima speranza si rivolgono alla Madonna e, in segno di ringraziamento, si recita una preghiera alla Vergine:

Bronti è ‘ndi na càmmira ‘nchiurutu,
Sutta lu mantu ri Maria Annunziata,
Tinìmmici firi ch'illa ‘ndi ajiuta:
L'ammuzza ‘ndi la teni cunszavvata;
Chista est la bella matri Annunziata.


L’Annunziata di Bronte

Poesia di Filippo Isola (del 6-7 Dicembre 1894,  dedicata alla madre Illuminata Carastro)

Ei vi fu nella Grecia un gran maestro,
che, o per desio di popolo devoto,
o per provvido impulso di sant’estro,
o per altro motivo a lui sol noto,
volle scolpir la Vergine beata
nell’atto ch’è dall’Angelo annunziata.

Seco studiava un giovine avvenente,
un discepolo fiore d’intelletto,
che, nell’idee leggendo immantinente,
al maestro rubato avea il concetto;
ei dell’Angelo il viso e il vestimento
immagina e disegna in un momento.

Non ha un masso di marmo, onde connette
i pezzi che il maestro butta via;
tacito e occulto all’opera si mette,
pregando il Cielo che favor gli dia;
ed è nel lavor suo molto inoltrato quando
quando quell’altro è bell’e terminato!

Ora il maestro aveva stabilito
di dar principio a l’Angelo il dì dopo;
ma, avuto dal discepolo un invito,
a casa va di lui, dove lo scopo
d’un tal invito manifesto trova,
e del giovine l’opra ammira e approva.

Ma tosto ammutolisce e atteggia il ciglio
sì che rivela il cor d’invidia pieno;
indi ratto a un martello dà di piglio
e il bel giovine fredda in un baleno! ...
In quel dì stesso l’invido omicida
è giustiziato tra plaudenti grida.

Incompleto così l’Angelo resta
sol con un’ala, come ancor si vede.
Improvvisa quel popolo una festa
e, con fervido brio di viva fede,
porta que’ simulacri in un gran tempio
parato sì che pria non ebbe esempio.

Nell’impero oriental dop’anni ed anni
del fatto esposto, un ordine apparisce,
che, seminando orror lacrime affanni,
il culto delle immagini abolisce.
Celatamente studiansi i Cristiani
che i simulacri lor rimangan sani.

Ed una notte, a malincore poste
le statue nostre in larga navicella,
al mar le danno da rimote coste:
quand’ecco scatenarsi una procella,
che, contro ogni più lieto presagirè,
repente il caro legno fa sparire.

Verso l’alba, sul mar, che da levante
gode i sorrisi del sicano lito,
la navicella appare sfolgorante:
è lo strano fenomeno avvertito
da poveri solerti pescatori,
usi di notte ai lor magri lavori.

Guardan fermi e stupiti i paurosi;
ma quei, che sono attratti da rapina,
s’avanzano nell’acqua ardimentosi:
più lor la navicella si avvicina,
più perde a poco a poco la sua luce,
fin che, toccata, oscura si riduce.

Trovate in fondo al cavo pin distese
le vaghe statue, dolce ammirazione
e ad un tempo timor sacro li prese;
han di rizzarle poi l’ispirazione,
perchè presto si vegga da la riva
la cosa molto singolar che arriva.

Sorto non era il sol: pel puro cielo
tutta gioconda distendea l’aurora
il suo rosato risplendente velo,
come più bel non s’era visto ancora;
e in quel leggiadro sfondo luminoso
si disegnava il legno portentoso.

De’ Brontesi trovandosi in cammino,
per vendere l’albagio lor speciale,
di lì passano proprio quel mattino,
e s’arrestano ad un prodigio tale.
La navicella intanto adagio approda
e la gente affollata è in su la proda.

Scoppia prima un gridìo di gioia intensa,
indi un alterco. La case meschine
vi son prive di chiesa; onde si pensa
dove posar le statue peregrine,
e chi di possederle n’abbia il dritto.
E’ si prevede facile un conflitto!

Allor s’inoltra e parla un pio Brontese:
« Tutto l’albagio nostro offriamo a voi,
se le statue ci date; e le contese
intendiamo così troncarvi noi».
S’accoglie da ciascun quant’è proposto,
e il fortunato scambio si fa tosto.

Cercano i nostri un carro e un par di bovi,
per portar via quell’onorato peso;
ma nessun di lor v’è che li trovi;
uno però sull’imbrunire ha inteso,
che due tori fortissimi vi sono,
di cui certo il padron farebbe dono.

La mattina di poi s’alzano presto,
e a l’indicato loco se ne vanno;
vi trovan il padron da un’ora desto,
e subito da lui que’ tori s’hanno,
i quali son feroci, errano intorno,
e nessun loro ha mai toccato un corno.

Tosto ch’ebbero i nostri quel permesso,
come agnello festante e mansueto
accorre ciascun toro da se stesso,
quasi a chiedere un giogo consueto:
è questo, pel padron, celeste indizio,
e un carro novo ei pone a lor servizio.

Quando tai bestie trovansi davanti
ai sacri marmi, danno de’ muggiti
e cadono in ginocchio; onde gli astanti
rimangono a mirarle sbalorditi,
e i nostri fan la prima lor gridata:
Viva Maria santissima Annunziata!

Posti sul carro i simulacri ritti,
s’alzano i tori e, senza verun cenno,
per Bronte s’incamminano diritti,
quali viaggiator d’esperto senno;
e allor più fragorosa è la gridata:
Vita Maria santissima Annunziata!

La strada non è sempre aperta e piana,
pel bosco è duro del carro il passaggio;
ma l’un alber da l’altro s’allontana,
mentre s’infiora il suol più che di maggio,
sì che spesso risuona la gridata:
Viva Maria santissima Annunziata!

Quei tori, che non sentono comando,
giunti qua, sull’entrar del paesello
da la parte di giù, ristan guardando
il torbido e fumante Mongibello;
smuover niun li può, s’alza un vociare:
« Qui, la Madonna qui vuole un altare!»

Inteso ciò, gli immobili animali
si movon gravemente in certo giro,
e tanti e tanti fanno giri eguali,
che alfin lo scopo tutti ben capiro:
passando è ripassando restò un segno,
che d’un tempio era artistico disegno.

S’erige il tempio che da noi s’ammira;
ogni lustro decretasi un festino
nel caldo mese, quando un po’ respira
da l’improbe fatiche il contadino;
l’Annunziata s’intitola Patrona,
e d’oro le si fa manto e corona.

Ma un dì l’Etna si sveglia: il suol si move
con tremendi sussulti, il ciel s’oscura,
e bruna rena chetamente piove;
d’un subito s’accresce la paura,
la tenebrìa s’arrossa e si distende
e verso Bronte accesa lava scende.

La gente nostra credesi perduta,
chè a tal periglio non può nulla opporre;
a le sue colpe il gran flagello imputa,
e, con vivida fede, al tempio accorre:
indi la statua di Maria in un loco
porta, che guardi l’invadente foco.

Pregano tutti e non v’è asciutto un occhio;
la scena è spaventevole e pietosa;
quando quell’alma statua, ch’è in ginocchio,
in pìè tosto si leva e imperiosa
comanda all’ìgneo fiume mutar corso:
apparve pronto il sovruman soccorso!

La Vergine, com’è, rimase ritta,
sì che non pare nel solenne istante,
che il fiat cede a l’ansia terra afflitta;
ma il fedel, che s’inchina a lei dinante,
più sensibile vede la divina
maestà della sua Madre e Regina.



 

Leggi pure

- Il gruppo marmoreo del Gagini
 - L'Annunziata, Patrona di Bronte
La Festa
- Bronte e la devozione alla Annunziata

- Sulla religiosità popolare dei brontesi




Tradizioni brontesi


Un importate luogo di formazione e di aggregazione

Le Confraternite

Tradizioni - Pennellate di memoria di Nicola Lupo

Le confraternite per definizione sono associazioni di fedeli ufficialmente riconosciute dall’auto­rità ecclesiastica, i cui membri, che non sono tenuti a pronunciare voti o a sottomettersi a una regola, si dedicano a opere di carità. Hanno un posto di rilievo nell’ordinamento religioso ed un tempo costituivano un importate luogo di formazione e di aggregazione.

I soci si riunivano di frequente per essere istruiti e per celebrare il culto; inoltre prestavano il mutuo soccorso secondo le modalità previste dagli statuti.

In Bronte, secondo anche quanto riferisce Benedetto Radice nelle sue Memorie storiche di Bronte[1], ci sono cinque confraternite:

  Nella chiesa Madre quella del SS. Sacramento (con sede nella vicina chiesa di S. Sebastiano).

In questa chiesa prima aveva avuto sede la confraternita dei nigri o di Maria SS. della Misericordia, passata poi alla chiesa di S. Giovanni, poi, nel 1685, a S. Blandano, quindi,  dopo la venuta dei Basiliani, a S. Rocco (chiesa che si trovava dove ora sorge la chiesa del Sacro Cuore), e infine dal 1927, a S. Silvestro presso il monastero di Santa Scolastica;

  all’Annunziata, ma precisamente nell’adiacente oratorio, quella di Gesù e Maria (sec. XVI)

  ai Cappuccini quella del III Ordine di S. Francesco (voluta e fondata dal frate cappuccino padre Gesualdo De Luca ed istituita  nel 1863 col nome di "Pia Associazione del Terzo Ordine di S. Francesco D'Assisi");

  nella chiesa di S. Blandano quella dello Scapolare della Beata Vergine Addolorata (1749).

  ed infine nell'Oratorio di S. Carlo Borromeo attiguo alla Chiesa della Catena la Confraternita di Maria SS. della Mercede e di S. Carlo Borromeo fondata nel 1830.

La più importante sembra che fosse proprio quella di Maria SS. della Misericordia, detta prima Compagnia dell’Ora­zione e Morte, sotto il titolo dei Nigri, fondata nel 1616 a somiglianza di quella di Monreale.
Scopo principale della confraternita era il suffragio e la sepoltura dei trapassati ed aveva avuto come sede iniziale la chiesa di Santa Maria dell’Astinenza (il Rosario).

Ebbe fra i suoi Procuratori anche il Sac. D. Ignazio Capizzi che, il 26 Agosto del 1776, chiese ed ottenne in enfi­teusi dal­l’Ospe­dale Grande e Nuovo di Paler­mo, all'epoca padrone e dominus della città, “un pezzo di terra incolta sciarosa vicino Bronte, nella quantità di tum. 6 sotto il titolo di seppellire i cadaveri de defunti poveri dell’Uni­versità di Bronte”.
Era stata fondata dal p. Luigi vissuto nella prima metà del Seicento, conosciuto in tutta la Sicilia come pro­motore delle missioni popolari. In quei tempi anche a Bronte si tenevano con regolarità le missioni popolari, una pratica che durava anche settimane e coinvolgeva tutta la popolazione del paese.

Tutte le Confraternite avevano un regolamento e dei dirigenti, (il Governatore, il Segretario e il Cassiere) eletti dai “fratelli” che pagavano un contributo annuo; inoltre avevano un assistente ecclesiastico, nominato dalla Curia Arcivescovile.

I compiti dei “fratelli” erano quelli di partecipare alle processioni religiose e ai funerali dei “fratelli” o dei loro familiari defunti.

Per partecipare alle processioni dovevano indossare la “cappa”, abito speciale che consisteva in una lunga tunica di diverso colore a seconda della Confraternita, legata in vita da un cordone, e fornita di un cappuccio che copriva tutta la testa e che aveva due buchi all’altezza degli occhi. Col tempo detto cappuccio venne indossato ma lasciando libero il viso.

Il vantaggio che, oltre alla religiosità dei singoli iscritti, faceva aderire le persone alle confraternite, era quello che assicurava la gratuità di tutte le spese dei funerali per sé e per i familiari conviventi, nonché la sepoltura nelle cappelle che ogni confraternita aveva al Cimitero; perciò esse erano non solo a scopo caritativo, ma a fine di mutuo soccorso.

Per la celebrazione dei funerali nelle chiese di appartenenza, le confraternite disponevano di un catafalco o talamo; famoso era proprio quello della Misericordia, costruito da mio nonno e scolpito dal maestro Ronsisvalle di Adrano[2].

La tunica della Confraternita della Misericordia, chiamata anche di S. Rocco e di S. Silvestro, alla quale erano iscritti quasi tutti i Lupo di Bronte e, quindi, anche mio nonno, mio zio e mio padre, era di colore azzurro con cordone bianco.

Mio padre fu segretario della confraternita e in quel periodo fu costruito non solo il talamo ma anche la nuova cappella al Cimitero, dove ora riposa in pace con tutti gli altri miei familiari morti a Bronte.

Oggi le confraternite a Bronte sono sempre cinque: quella di Maria SS. della Misericordia, della chiesa di S. Silvestro; quella del III° Ordine di S. Francesco della chiesa dei Cappuccini; quella di Gesù e Maria dell’Orato­rio annesso alla chiesa dell’Annunziata; mentre quella del SS. Sacramento è passata dalla chiesa di S. Seba­stiano alla chiesa Madre o Matrice; e quella di S. Blandano è scomparsa ed è stata sostituita da quella di S. Carlo Borromeo della chiesa della Madonna della Catena.

I compiti odierni dei “fratelli” sono sostanzialmente due: accompagnare i confratelli defunti in proces­sione fino all’uscita del paese, e partecipare alle solenni processioni del Venerdì Santo, del Santo Patrono (S. Biagio), del Corpus Domini e della Madonna Maria SS. Annunziata, (seconda protettrice del paese).

I “fratelli“ non indossano più la “cappa”, ma portano al collo solamente un medaglione che riproduce lo stemma della confraternita. Uno di loro, però, porta sempre lo stendardo di appartenenza che precede la processione[3].

Nelle processioni serali ai confratelli veniva consegnata una grossa e lunga torcia, con relativo “coppu“ paravento, che alla fine doveva essere riconsegnata in chiesa ad un delegato che diceva: - “a man ‘a manu ‘a toccia a Santu Roccu!” controllando che qualcuno, distratto, non se la portasse a casa.

Marzo 2005
Nicola Lupo

Note

[1] Vedi in questo sito il mio libro, cap. 9.
[2] Vedi Lupo Nicola, Fantasmi-"U tàramu", pag. 101
[3] Queste ultime notizie mi sono state gentilmente fornite da mio cugino Vito Lupo fu Tommaso, al quale sono grato e che ringrazio anche pubblicamente.

Confraternita SS. Sacramento
Confraternita Gesù e Maria
Confraternita S. Carlo Borromeo

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