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Il Pane

Tradizioni - Pennellate di memoria di Nicola Lupo


Pane, ti spezzan gli umili ogni giorno
lieti se tu non manchi alla lor mensa;
per lor quale più cara ricompensa
di te, che giungi fervido dal forno?

Panzacchi

In una antologia del ginnasio inferiore dei miei tempi c’era questa bella poesia di cui ricordo poco, sia del testo esatto e completo che dell’autore, ma ricordo bene sia il concetto della sacralità del pane, come cibo del corpo che dell’anima; infatti l’Eucaristia è simboleggiata proprio dal pane.

Sulla sacralità del pane come cibo diremo man mano che parleremo di esso e della sua confezione. Credo che molti ragazzi di oggi sappiano poco o nulla del pane, anche perché esso è poco consumato in quanto è stato in parte sostituito da tante “merendine” ed altri surrogati, come patatine “et similia”.

Una volta in quasi tutte le famiglie, specialmente nei paesi ad economia agricola, all’epoca della mietitura e della trebbiatura[1], si comprava il grano sufficiente per un anno; esso poi, un poco alla volta, si mandava al molino (ce n’era uno ad acqua sul Simeto vicino a Maniace e al Castello Nelson) meccanico, dove veniva macinato e diventava farina.

Questa, allo stato naturale era chiamata integrale e veniva usata dalla gente più povera che non voleva perdere nulla; setacciata con diversi tipi di crivelli, invece, dava o la farina 0, o quella 00, oppure la semola; da queste operazioni si ottenevano degli scarti che erano la crusca[2] e il cruschello, che servivano per alimentare gli animali, galline e maiali, mentre oggi sono usati anche per curare certi disturbi causati dalla vita sedentaria o dallo stress, e sono venduti a caro prezzo in farmacia o in erboristeria.

Tradizionali attrezzi per fare il pane (Masseria Lombardo)La farina così ottenuta e setacciata veniva usata in casa o per il pane, o per la pasta o per i dolci.

Il pane veniva fatto in casa, e andare a comprare il pane al panificio era considerato una anomalia che deponeva male nella considerazione della famiglia.

In casa si faceva il pane ogni settimana e gli arnesi per la sua confezione erano, oltre “u crivu”, già nominato come crivello, “a mailla”, la madia, dove la farina veniva impastata con acqua tiepida, sale e lievito naturale[3].

Lavorato bene questo impasto con le mani e con i pugni per circa mezz’ora, si passava a fare le forme di circa un chilo ciascuna e si mettevano su un tavolo di legno coperto da una tovaglia bianca; quando si era esaurita questa operazione, con i rimasugli di pasta che si ottenevano raschiando bene “‘a mailla“, si faceva “‘a minnitta”, un panino che, dal modo di rigirarlo con la mano, assumeva la forma di un piccolo seno, donde il nome in dialetto.

Finita quest’ultima operazione con una certa sveltezza, per non fare raffreddare i pani, si coprivano prima con un’altra tovaglia bianca e poi con una “butana “, una di quelle coperte di lana, tessute in casa con i cascami di vecchie lane di diversi colori.

Il calore, in circa un’ora, a seconda della temperatura esterna dovuta alle stagioni, faceva lievitare il pane.

Nel frattempo la massaia aveva acceso il forno di casa che generalmente si trovava in un angolo della grande cucina, bruciando legna o gusci di mandorle o anche sansa.

Quando il forno era caldo al punto giusto, allora non c’erano i termometri per misurare quelle temperature, e si regolava in base al colore che avevano assunto i mattoni che costituivano la bocca del forno, e il pane era lievitato al punto giusto, e ciò si vedeva dal modo e da quanto esso era cresciuto, la massaia tirava fuori, con un rastrello (rrastrilluzzu) ed una paletta di ferro (parittuni), tutto il fuoco che, messo in un grande recipiente di ferro con relativo coperchio “u stutafocu”, diventava carbonella che poi si metteva nella “conca“, cioè il braciere che serviva per riscaldarci mettendoci intorno al “cunchèri”[4].

Pulito, sempre con grande sveltezza, con uno straccio inzuppato di acqua, il piano di cottura, in modo che il pane non potesse avere pezzetti di carbone, con una lunga pala di legno infornava ad uno ad uno i pani e poi, benedicendo con un segno di croce e recitando la preghiera di rito: “Santa Rosa e Santa Maggarita, russu ri crusta e chinu ri mullica!”, chiudeva, con una lamiera a misura, la bocca del forno in modo che il calore non si disperdesse.

La lunga e faticosa operazione era finita e a questo punto la massaia, asciugandosi il sudore causato dalla fatica e dal calore, si sedeva, (finalmente!), attendendo la cottura del pane.

Anche il tempo della cottura era misurato dall’esperienza e guardando di tanto in tanto, con una rapida apertura dello sportello, perché con esistevano le “istruzioni per l’uso”, e quando il lavoro era riuscito e il profumo del pane si spandeva per la casa e si sentiva anche fuori, la massaia era felice e innalzava una muta preghiera a Dio o alla Sua dolce Madre.

Se in casa in quel momento c’erano ragazzi o bambini, essi accorrevano, attratti da quel profumo di cui abbiamo perduto il ricordo, chiedendo a gran voce: “a minnitta, ‘a minnitta“; e la mamma, amorevolmente, tagliava orizzontalmente a metà quel dolce e profumato panino, che ricordava il seno materno, e, conditolo con olio e sale, lo divideva ai suoi bambini che ne erano ghiotti e felici.

Ancora a proposito della sacralità del pane, ricordata, del resto, nel Padre Nostro, esso veniva utilizzato fino all’ultimo “tozzo”, o per i poveri o per gli animali.

Durava in genere anche otto giorni, proprio perché era a lievitazione naturale; mentre oggi che si usa, anche per i tipi di pane più raffinati e sofisticati, il lievito di birra, il pane della mattina può risultare immangiabile la sera stessa, immaginiamo il giorno dopo.

Ora si usa metterlo nel freezer ed è mangiabile appena scongelato e riscaldato, ma subito dopo si sfalda e si pietrifica di nuovo.

Siccome spesso era scarso o mancava del tutto il companatico[5], ai bambini, per consolarli, si diceva “mangia il pane asciutto (appunto, senza null’altro), che ti vengono gli occhi più belli!”; e i contadini o anche qualche operaio, quando venivano richiesti cosa avevano mangiato, spesso, rispondevano: pani e cutellu”, per significare col termine coltello, che serviva per tagliare il pane, la mancanza di companatico.

"u cuncheri", "'a conca"," u ciccu" e "i zampitti"La colazione di mio nonno, e credo di molti artigiani, consumata in bottega verso le 10, consisteva in pane, formaggio e qualche ortaggio di stagione (acci, rapanelli, lattuchi) o altro, seguiti da un quartino di vino.

Invece l’aperitivo (ma allora non si usava questo termine, ma “u biccheri”), della sera, dopo il lavoro e prima di rincasare, definitivamente, per la cena, consisteva nell’andare a bere un bic­chiere di vino, accompagnato dai luppinio dai cacucciuricchi”, in una delle cantine delle migliori famiglie, con gli amici, generalmente dello stesso mestiere o parenti, con i quali si discorreva dei fatti del giorno e della politica, che il più delle volte riguardava l’amministrazione comunale o il lavoro.

La cena serale era dedicata a raccogliere tutta la famiglia attorno alla “conca” prima, se era inverno, e attorno alla grande tavola rotonda dove si sostava anche dopo aver finito; la tavola veniva sparecchiata, ma non si toglievano né il pane né il vino, forse per un inconsapevole ricordo dell’Ultima Cena, in cui fu istituita l’ Eucaristia, rappresentata, appunto, dal pane e dal vino[6]. Quando, poi, si mettevano via questi due alimenti, chi eseguiva l’operazione baciava il pane toccandolo con le dita che poi portava alle labbra.

Infine ci si fermava ancora un poco per ascoltare la lettura di qualche libro da parte di mia zia Ciccia, la quale amava i classici dell’ ‘800, anche stranieri, che poi provocavano accesi commenti fra i familiari.

Bari, 21 gennaio 2005
Nicola Lupo


NOTE

[1] Mietitura e trebbiatura sono due fasi della raccolta del grano: la prima consiste nella falcia­tura, cioè tagliare con la falce la pianta del grano o di altri cereali, e la seconda consiste nel sepa­rare i chicchi del grano o di altri cereali dal resto della pianta tagliata.
Queste operazioni una volta si facevano a mano, mentre oggi ci sono macchi­ne che falciano, treb­biano e imballano la paglia da un lato, mentre insaccano il grano dall’altra. Vedi Lupo Nicola, Fantasmi, Bolo, pag. 35 e segg.

[2] Questo nome, crusca, è stato scelto nel 1583 per una Accademia, detta appunto della Crusca, che aveva il compito di salvaguardare la purezza della lingua italiana; e pertanto ha com­pilato a tale scopo un Vocabolario dello stesso nome.

[3] A proposito del lievito naturale devo rac­contare come si faceva per trovarlo: era semplice e tradizionale e rappresentava uno dei segni della solidarietà che legava le famiglie del vicinato: chi doveva fare il pane dava voce alle vicine in cerca del lievito, chi lo aveva lo dava senz’altro; esso era costi­tuito da un certo quantitativo di impasto messo da parte in un pentolino di coccio, a dispo­sizione di chi ne avesse bisogno e lo chiedesse.
Colei che aveva avuto il lievito a sua volta mette­va da parte, nello stesso pentolino che aveva ricevuto, un po’ del suo impasto e lo restituiva alla vicina o lo dava ad altra vicina che ne aveva bisogno: era una specie di catena di S. Antonio, di solidarietà.

[4] La “conca” era un recipiente di lamiera di ferro o di rame con manici di ottone in cui si met­teva il fuoco per riscaldare gli ambienti, messo sul “trispitu”, o le persone che, in quel caso, si met­tevano intorno al “cuncheri”, che, come dice la parola, era una pedana di legno circolare a forma di ciambella, che nel buco centrale ospitava “‘a conca” e, solle­vata da terra da piccoli soste­gni, serviva per poggiarvi i piedi in modo da riscaldarli. Le donne, se stavano troppo vicino alla “conca”, si procuravano i “ròrruri” che erano delle piccole scottature a forma circolare, dolorose ed an­tieste­tiche, alle gambe o anche più su.
Per evitare i dannosi effetti dell’ anidride carbo­nica, che si sviluppava con la com­bu­stione del carbone o della carbonella, si doveva fare accen­dere bene il carbone fuori all’aria, e per profu­mare l’ambiente si faceva bruciare sul braciere qualche buccia di arancia.

[5] Companatico, tutto ciò che si mangia assie­me al pane, secondo la definizione, è, forse, un termine poco conosciuto e poco usato, perché esso è diventato o il secondo o addirittura il pri­mo, mentre il pane qualche volta, ne assume la funzione.

[6] A proposito del pane e del vino e del loro significato religioso, ancorché inconscio, ricordo il seguente detto brontese che dice: Pane e vinu s’ invita u parrinu“.
Esso, oltre alla essenzialità dei due alimenti, che sono sufficienti per invitare il prete, uno dei massimi esponenti dell’autorità locale, oltre al sindaco o podestà, a seconda dei periodi politici, e al maresciallo dei Carabi­nieri, rappresenta proprio i componenti del sacrificio dell’ Eucari­stia, e quin­di, unifica nell’ immaginario collettivo del popolo ignorante, ma devoto, il cibo del corpo con quello dell’ anima, che danno la serenità fisica unita­mente a quella spirituale.
Ma penso anche che la “religiosità”, al di là di qualunque sovrastruttura chiesastica, che legava la gente a Dio attraverso la richiesta del “pane quotidiano“ , contenuta nel Padre Nostro, sia diminuita o quasi scomparsa, a causa del benes­sere, raggiunto o agognato, che ci sommerge di beni vari e spesso superflui, ma chiamati “esi­genze”, e ci fa dimenticare l’ essenziale sia sul piano fisico che spirituale.

  Piccolo vocabolario brontese di N. Lupo

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Tradizioni brontesi

 

La "Ruga"

di Lillo Meli

Calogero (Lillo) MeliIl termine «ruga» molto probabilmente derivato dalla corruzione del francese «rue», residuo quindi della dominazione angioina in Sicilia, si adopera in Bronte per denominare pressapoco quegli aggregati di case che e si affacciano sulla stessa via con annessi «cuttigghi», piazzette e ballatoi e costituiscono tanti centri di vita dentro quello maggiore del paese tutto, aventi proprie tradizioni, caratteristiche proprie e persino, nelle «rughe» della periferia, un dialetto che nella pronuncia è a volte nell'uso di vocaboli si diversifica da quello delle altre.

Tali differenziazioni che cogli anni tendono via via a scomparire, hanno le loro tradizioni storiche sia pure modeste e devono riportarsi all'origine del paese stesso, quando le famiglie divise in gruppi alla cui base stavano legami di parentela e di interessi, scelsero nella zona stabilita dalla collettività per piantarvi il paese, il posto dove costruire il loro focolare, accomodandosi alla meglio, del tutto ignare delle regole di costruzioni urbanistiche e più che altro desiderose di soddisfare ai loro immediati bisogni, per nulla preoccupate del poco decoroso aspetto che offrivano le loro case ammucchiate le une sulle altre.

Fatta questa sommaria premessa, diamo un'occhiata alla vita che si svolge nelle «rughe», che ha un tono particolare, a seconda che ci spostiamo nell'ambito del paese e che mette in luce caratteristiche peculiari della nostra gente e particolarmente quella di considerare la strada non solo mezzo di transito, ma una continuazione della casa, come un'altra ampia stanza che è di tutti quelli, che vi passano, perchè non ha porte, ma in special modo di coloro che in essa abitano.

Perciò essa, di volta in volta, si trasforma in luogo di lavoro, in sede di convegno e di chiacchierio delle donne che tra una faccenda e l'altra, non si lasciano sfuggire l'occasione per scambiare qualche parola colle vicine.

E le occasioni non mancano: un viso nuovo che passi la prima volta per la strada, suscita curiosità e commenti, l’abito vistoso della conoscente di una «ruga» vicina è motivo di maliziose insinuazioni, il venditore ambulante che porta il suo carico di stoviglie in ampi panieri, o il «panneri» che decanta la finezza e la durata dei suoi tessuti che porta in bella mostra sulle spalle e sulle braccia distese, fanno risuonare la «ruga» di un cicaleccio insistente e indaffarato.

Le contrattazioni non finiscono mai, la merce gira di mano in mano, sale dalla via ai ballatoi e ai terrazzi per discendervi ancora: è tutto un intrecciarsi di giudizi e di consigli tra le comari, ma quasi sempre l'affare viene concluso con soddisfazione di chi lo fa e di quante lo hanno patrocinato.

Non mancano nella «ruga» i litigi, ma essi sono come temporali estivi che scompaiono improvvisi come improvvisi sorgono e vengono a turbare di tanto in tanto la serena brigata delle buone comari, senza lasciare tracce sensibili; non può sussistere profonda frattura tra chi conduce buona parte della giornata insieme: necessariamente la vita comune, i radicali affetti, la rete di piccoli segreti e di confidenze che lega una famiglia all'altra, formandone una più grande, eliminano gli screzi.

Così si può vedere che le due vicine, divenute per un istante nemiche, dopo che tra di esse son volate parole grosse, sol perchè la scopa messa a sgocciolare ha insudiciato il lenzuolo adorante di bucato, steso ad asciugare in mezzo alla via, o perchè la gallina razzolando ha fatto rove­sciare il piatto di pomodoro spremuto messo al sole, insensibilmente ritornano amiche. Quasi bronci e contrasti di bimbi ai quali basta un nulla per corrersi incontro minacciosi e altrettanto poco per rappacificarsi e di quelli perciò conservano la stessa sorridente levità.

Nei giorni di festa la «ruga » si adorna come meglio può in una gara accesa con le altre e perchè vuole fare bella figura, le sue bombe debbono tonare meglio e il suo altarino deve essere simbolo di insuperabilità ornamentale.

Attorno a questi centri di culto improvvisati si svolge ancora più intensa la vita della «ruga» che come un ampio ed appassionato coro, accom­pagna vicende tristi e liete di tutti quelli che la compongono. Da ciò deriva che quando noi ci riportiamo col pensiero; agli anni della nostra infanzia o al nostro passato in genere, non riusciamo a separare il ricordo delle persone che ci furono più care, da quello di tutti coloro che ci vissero vicino e la «signa' Ntunina» e la «signa Grazzitta» continuano ad occupare un posto notevole nel nostro mondo affettivo.

Lillo Meli

(tratto dal quindicinale “Il Ciclope”, Bronte allo specchio – Anno IV n. 17 del 4 Settembre 1949, pag. 3)

1946/1950 GLI ANNI DEL CICLOPE



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“Il terzo fuochista”

U su Savvaturi, 'u bumbaràru

di Nicola Lupo

La canzone dell’ultimo Sanremo che porta questo titolo e che a me è piaciuta immensamente perché rappresenta la versione in musica dei giochi pirotecnici, mi ha riportato ai “jocufocu” di Bronte di tanti anni fa e al suo terzo fuochista che si chiamava “u su Savvaturi”, soprannominato “u bumbaràru”, perché fabbricava e gestiva i fuochi pirotecnici alle feste religiose. Questi era un uomo di mezza età alto, robusto e dinoccolato, che non si poteva immaginare come facesse a piegarsi per accendere le micce dei mortai che erano alti non più di 50 centimetri. Il suo colorito era scuro come se avesse preso il colore della polvere da sparo e i suoi vestiti erano impregnati del suo caratteristico odore acre e pungente. Ma se egli era il terzo fuochista chi erano i suoi aiutanti?
A quei tempi le imprese erano quasi sempre a carattere famigliare, quindi i suoi dipendenti e collaboratori erano i suoi figli e spesso anche la moglie. Essi avevano tutti una mansione particolare che si svolgeva sotto la diretta direzione del capo famiglia che era padre e datore di lavoro nello stesso tempo, e tutti lavoravano per la riuscita dei fuochi e per il buon nome del “bumbaràru”, denominazione che indicava solo lui, senza altre indicazioni.
La sua piazza di lavoro era limitata a Bronte e Maletto e quindi non era l’unica fonte di guadagno sufficiente a sfamare una famiglia, allora sempre numerosa, sia per “scrupoli di coscienza” che per ignoranza di mezzi contraccettivi. Quindi il lavoro dei fuochi era con­centrato nel periodo delle feste religiose, quasi sempre nelle stagioni di raccolta, mentre il resto dell’anno si andava in campagna o “al mastro” per i più giovani, cioè da qualche artigiano per imparare un altro mestiere.

I fuochi più memorabili erano quelli per la festa dell’Annunziata, protettrice del nostro paese, che si svolgevano allo Scialando dove, allora, la collina che ora è percorsa dalla circonvallazione nord e in parte è edificata, rappresentava la grande tribuna naturale del “jocufocu” che si effettuava a valle, dietro «’a Santa Cruci», poi destinata a villa comunale. Si svolgevano la sera tardi, dopo la proces­sione e la cena, la cui frutta, generalmente anguria, si consumava davanti i fuochi: e si vedeva un pellegrinaggio di giovani con i “miruni” sottobraccio e vocianti per l’allegria che provocava l’attesa del più bello spettacolo all’aperto dell’anno.
Peccato che allora non c’erano le cineprese di oggi, per immortalare quella gioventù variopinta e spensierata dell’epoca che mangiando meloni esclamava “oooh! oooh! oooh!” ad ogni sparo, ad ogni “rota” aspettando quella “pazza” che chiudeva la serata assieme agli ultimi “botti” che rimbombavano nel petto e lasciavano una specie di rimpianto per la festa finita.

Ma lasciamo spazio a parte della descrizione che fa dei fuochi il Nostro Don Benedetto Radice in un articolo, intitolato proprio “Ai Fuochi”, (il brano è tratto da "Il Radice sconosciuto", racconti, novelle, commemorazioni, epigrafi, scritti vari, pubblicati da Benedetto Radice su vari giornali dal 1881 al 1924 - a cura di N. Lupo e F. Cimbali - Collana Editori in proprio, Tipolitografia F.lli Chiesa, Nicolosi, Agosto 2008)
 

«[…] Tutt'un tratto si sente lo sparo d'un mortaio che lancia all'aria una granata, poi lo schianto e il fruscìo di molti razzi, che, come saette, van su serpeggiando pel cielo, lasciandosi dietro una lunga coda di faville. E’ il segnale de' fuochi.

Un «oh bello! oh bravo! viva il razzaio!» scoppia da mille bocche unito a gran batter di mani, mille teste ondeggiano in varii sensi, mille facce si volgono in su a guardare i razzi che generandosi in altri, rincorrendosi e incrociandosi, strisciano per l'aria come serpentelli fiammanti, e riven­gon giù scoppiettando e spruzzando una pioggia di scintille rosse, verdi, violette, argentee, che via via si spengono in mezzo al vasto mormo­rio che sale dalla piazza. Finalmente ci siamo. I canti cessano. Tutti gli occhi son volti alle girandole.

La colombina con uno stoppino al becco, correndo su d'un fil di ferro, s'accosta per bruciare la prima, che, nell'intenzione dell'artista pirotecni­co vorrebbe dire una corona, la quale appena accesa, si sfascia, sprizzando da un lato un rocchio sfrusciantedi scintille, e s'avvia lentamente a girare, poi aprendosi come una melagrana matura sfiamma, sfavilla, e, al diradarsi della piccola nube che l'avvolge, rotando con rapidità ver­tiginosa, appare tutta sfolgorante, fischiettando, strepitando, sputando fiori a josa che le fanno intorno un ampio cerchio stellato.

È una pompa, una festa, una ridda di colori accesi, che nella rapidità del giro, si mescolano, si confondono in un solo splendore, è una dovizia di gioie d'un bazar orientale: zaffiri, topazi, smeraldi, birilli, ametiste, che danno sbarbagli incantevoli.

Le fiaccole impallidiscono, i visi degli spettatori si fanno del color della luce della girandola; e, a quel riflesso, ad ogni mutar di colore, ora ap­paiono rossi come lame infocate, ora verdi come ramarri, ora gialli come cadaveri; onde quell'immensa moltitudine penetrata, trasfigurata, da quella luce, ti dà l'illusione d'un gran brulichìo di baccanti, di spettri, sbucati lì per lì da un cimitero, come per andare al Giudizio prima del tem­po, che ridono e si sbeffeggiano, scorgendo ognuno il cambiato aspetto nella faccia spettrale del vicino:

«Oh, tu come se' giallo, mi sembri la morte, mi sembri!» Voci, urli, smanacciate, risuonano per l'aria piena dell'odore acre del salnitro. La girandola, finalmente, spossata da quel prillo furibondo, allenta il suo giro, manda oscillando gli ultimi bagliori e si spegne fra le matte risate e il gridìo della folla.

Intanto mentre una margheritina va su frullando e fischiando pel cielo se ne brucia un’altra, ma questa gli è più grande, e rappresenta un fon­tanone da cui fragorosamente sale alla luna un bellissimo zampillo di diamanti che dividendosi in tanti zampillini, e dolcemente curvandosi a ombrello, con certo quale chioccolìo come d’una gran cascata, si riversa in una splendida tazza di malachite.

Poi spari di mortaretti, batterie di castagnole, organi giranti che fischiano, girelline a serpina che cascando in Arno, parevano nell’acqua un branco di pesciolini, girelline a sfascio, che, non bruciando perchè male stoppinate nelle guide da passo, o per avere marcio lo stoppino, su­scitavano nella folla becera e festosa urli e fischi da sbalordire.

Povero fochista!

Si brucia finalmente l'ultima.

La fantasia del fochista qui volle raffigurato il sistema planetario e ci mise tutto il suo ingegno pirotecnico, tutta la tavolozza magica de' colori, dall'oro all'ambra, alla porpora, all'azzurro, all'amaranto e via dicendo. Una spera di sole sta immobile raggiante nel mezzo, lampeggiante come un enorme rubino, tal quale appare la mattina al levarsi, mentre in­torno a lui rapidamente danzano in giro gli altri mondi minori, che con fragoroso sfrigolìo piovono a cerchi, onde di luce d'oro e d'argento.

I vetri delle finestre percorse da' raggi vermigli del disco solare s'incendiano e scintillano come in un tramonto estivo, e le signore nelle loro fantastiche acconciature, lumeggiate variamente, secondo gli sbattimenti della luce, paiono fate in sogno che spiccano il volo per regioni inesplorate del cielo.

Una luminosità d'aurora boreale si spande per l'aria, e dalla folla salgono alle stelle voci d'allegrezza, risa di donne, grida di bambini. È una magnifica scena fiamminga degna del pennello di Rembrandt. In mezzo agli echeggianti scoppi d'evviva, nel luccichìo delle collane, degli orecchini, degli anelli di che sono adorne le ragazze, gli occhi estatici brillano di compiacenza; le cose, le persone circonfuse da quell'atmo­sfera di luce, appaiono spiritualizzate, glorificate. [...]»


Questa descrizione del Radice, più che le mie povere parole, rendono l’idea di come la canzone di cui sopra con la sua musica di organetti, spiritosa ed allegra,e col canto di Tosca, precipitoso e travolgente, traduce i fuochi in gioiosa armonia che elettrizza ed incanta.

Nicola Lupo
Bari, 14 marzo 2007
 

 

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