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Nicola Lupo

Fantasmi - Storiette paesane

422 FOTO DI BRONTE, insieme

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Don Pitrolo

Ogni buona famiglia siciliana, naturalmente numerosa, composta da almeno sei figli, tra maschi e femmine, faceva una volta la sua brava programmazione, nel senso che stabiliva che cosa avrebbero fatto i diversi figli secondo i bisogni e i desideri della famiglia stessa e senza tenere, spesso, conto delle capacità e delle attitudini degli stessi né delle loro aspirazioni.

La mia famiglia, formatasi tra il 1916 e il 1936, e composta da quattro maschi e due femmine, aveva più sperato che stabilito che uno di noi abbracciasse la carriera ecclesiastica, e quell'uno ero io che sono il cadetto. Senza alcuna pres­sione e senza alcuna istruzione preventiva particolare, verso gli otto anni, mio padre mi accompagnò dai monaci france­scani di S. Vito in Bronte, dove il padre guardiano, dopo i soliti convenevoli, mi pose una semplice ma perentoria domanda: «Perché vuoi farti monaco?».

Io che, ripeto, non ero stato debitamente preparato a rispondere ad eventuali domande, specie così precise, non risposi nulla, un po’ perché non avrei saputo dirlo, un po’, forse, perché nel mio piccolo subconscio, del quale ho sentito parlare molto più tardi, non mi sentivo vocato.

La cosa finì lì, ma alla fine delle scuole elementari e conseguita l'ammissione al Ginnasio, la questione si ripresentò, ma in altri termini: alcuni dei miei compagni, per motivi diversi, sarebbero andati all'Istituto Salesiano «S. Giu­seppe» di Pedara (CT) e allora i miei genitori mi chiesero se volevo andare anch'io in quel collegio. Io, un po’ per desiderio di novità, ma anche perché avrei avuto con me quei miei compagni, accettai e feci contenti i miei genitori i quali sperarono per tre anni che io, stando in quell'ambiente, sentissi una buona volta la sperata vocazione che, invece, non venne mai.

Ma dai Salesiani io mi trovai bene e a mio agio, e sono riconoscente al loro metodo educativo perché lì ho impa­rato a studiare e lavorare razionalmente e metodicamente, e questa abitudine ho conservato fino ad oggi.

Ricordo perfettamente tutti i miei insegnanti che praticamente vivevano sempre con noi a scuola, allo studio, ai pasti e alle ricreazioni, ma qui voglio ricordarne uno per tutti: si chiamava don Pitrolo e fu mio insegnante di lettere in seconda e terza ginnasio; era un uomo di mezza età, bonario e suadente, e aveva partecipato alla prima guerra mondiale, ma nel­le più lontane retrovie: infatti era stato sempre a Messina dove, però, aveva quasi invidiato i veri combattenti e perciò in una sua poesia che trattava l'argomento guerra, concludeva dicendo: «ma più degli obici temo le cimici».

Allora, negli anni '30-33, non erano ancora nati i grandi teorici della interdisciplinarietà, con tanti specialisti che conclu­dono ben poco, ma dai Salesiani, senza tante teorizzazioni e, più che altro, senza strombazzature, si applicava questo metodo. Ricordo che in terza preparammo una rappresentazione intitolata «La Vandea» che comprendeva, quindi, la storia della Rivoluzione francese e della Restaurazione, il francese, la musica, il canto e quant’altro; infatti imparammo la Marsigliese in lingua, la musica e il canto della stessa e poi l'arte della dram­matizzazione per alcuni, per gli altri l'organiz­zazione dello spettacolo e per tutti il piacere di partecipare in qualche modo.

Dai Salesiani si parlava in lingua: guai a chi parlava in dialetto: c'era l'accipe o anello che si passava dal primo che al mattino veniva sorpreso a dire anche una sola parola in dialetto, all'ultimo detentore dell'anello la sera il quale riceveva dall'assistente addetto una punizione che consisteva nel dovere imparare una poesia italiana, latina o francese a memo­ria, da recitare il giorno dopo allo stesso addetto, e ciò in aggiunta ai numerosi compiti gior­nalieri: due scritti e gli orali del giorno dopo.

La vita in quel collegio era ordinatissima, ma varia e non c'era mai tempo di annoiarsi: brevi pratiche religiose, studio, pasti, lezioni, ricreazioni e tante passeggiate per i boschi di castagni alle pendici dell'Etna e per i paesini vicini: cose che allora si potevano fare facilmente per la quasi assoluta assenza di pericoli derivanti dalla circo­la­zione delle auto, che era un avvenimento incontrare.
Ricordo che in quegli anni seguimmo passo passo la costruzione dell'autostrada (così fu chiamata allora la strada carroz­zabile) che da Nicolosi porta al Rifugio Sapienza a quota 1881.

In questi anni mi appassionai al canto gregoriano che ci veniva insegnato per le feste religiose più importanti: Natale e Pasqua, e ancora adesso non riesco a capire perché il desiderio delle novità a tutti i costi abbia infierito anche contro questa musica, sostituita da moderni suoni di chitarra.

Temo che stia cadendo nel patetico e nella retorica e, perciò, metto fine all'evocazione di questi lontani e cari fantasmi!


L'abbenzina

Una volta, a seguito della riforma Gentile del 1925, nella scuola c'erano esami di sbarramento in continuazione: per esem­pio, oltre l'esame di licenza elementare c'era l'esame di ammissione alle scuole medie: ginnasio inferiore e istituti inferiori delle diverse branche scientifico-professionali; poi c'era la licenza inferiore, quindi l'ammissione al Liceo che si coronava con le famigerate maturità, fra le quali primeggiava, per difficoltà, la classica.

Tuttavia, malgrado le difficoltà dei diversi esami, fra le loro maglie filtravano, per motivi diversi, (classe sociale, racco­man­dazioni ecc.) ignoranti da far paura anche adesso.

Per esempio io, tornato dalla Scuola dei Salesiani e superati facilmente gli esami di licenza media inferiore per l'accesso al ginnasio superiore, incontrai nella quarta un compagno il quale, pur non appartenendo a nessuna delle classi sociali domi­nanti e non avendo, credo, particolari e forti raccomandazioni, era riuscito ad entrare al ginnasio superiore, malgrado la sua crassa ignoranza. Infatti egli usava l'italiano dei provinciali che lo hanno studiato come una lingua straniera e quindi cercava di tradurre il siciliano in italiano senza neppure chiedere l'aiuto del professore.

Noi in paese dicevamo, per esempio, 'a benzina dove 'a sta per l'articolo «la», seguito dal nome. Lui, poiché non aveva mai visto scritta la frase siciliana e pensando che 'a benzina fosse un'unica parola, dovendola mettere per iscritto face­va: l'abbenzina, naturalmente suscitando i più sarcastici commenti del professore e le grandi e poco misericordiose risate dei compagni più saputi.

Quel compagno, che si chiamava Ciccio, non finì neppure la quarta ginnasio, perché mortificato continua­mente per la sua ignoranza e per la conseguente sua disattenzione e negligenza, commise una grave infrazione disci­plinare, gettando un calamaio d'inchiostro (chi sa oggi cos'erano il calamaio e l'inchiostro e l'asticciola con il pen­nino, alzi la mano!) su una casa di fronte alla nostra scuola che era proprio quella di un maggiorente del paese e, perciò, fu espulso dalla scuola; ma dopo alcuni anni andò volontario in Aeronautica dove trovò la sua sistema­zione. Questo compagno, che finì presto di esserlo senza diventare amico, abitava vicino all'ospedale, sempre sulla stra­da prin­cipale, ma nella parte Nord periferica, che porta a Maletto e Randazzo, e quindi io dovevo passare davanti a casa sua quando andavo a trovare il mio amico Di Bella al mattatoio. E siccome in paese, specie allora, non si passava mai inos­servati, egli mi fermava e cercava sempre di propormi qualcosa di diverso da quello che era il mio programma.

Vicino a casa sua, prima di arrivare al macello, c'era la stazione di monta, come dire una piccola fabbrica Fiat di mezzi di trasporto, cioè asini e muli. (Il mulo è un equino ibrido sterile, nato dall'incrocio di un asino e una cavalla, di corpora­tura più simile al cavallo [eccetto la testa], ma come l'asino resistente alle fatiche e di modeste esigenze alimentari).
E il mio compagno aveva la fisima di andare, e invitare gli altri, a vedere l'accoppiamento degli animali, forse per eccitarsi e poi masturbarsi; e a proposito della masturbazione diceva di conoscerne diverse tecniche anche di sua invenzione.


Vincenzo Cardaci

Le phisique dû role Vincenzo Cardaci lo aveva e aveva pure la consapevolezza del suo incarico: infatti era por­tinaio del Real Collegio «Capizzi» di Bronte e accoglieva con deferenza i professori, proteggeva con paterna bonomia le studen­tesse le quali avevano la loro saletta a sinistra subito dopo lo scalone d'ingresso, controllava con sospettosa autorità gli studenti i quali, con la scusa di andare a giustificare qualche assenza in Presidenza, cercavano qualche fugace incontro o solo qualche scambio di parole con le ragazze oggetto della loro atten­zione.

Egli era alto e prestante, ma di una ignoranza troppo sproporzionata con il Liceo-Ginnasio Pareggiato annesso al sud­detto Collegio che accoglieva, educava e istruiva le future speranze delle professioni locali e forestiere e ospitava docenti illustri, come Luigi Pareti dell'Università di Catania e proveniente da quella di Firenze, o i migliori giovani laureati della Cattolica. Perciò un giorno don Vincenzo decise di procurarsi un vocabolario italiano anche per potere esprimere le sue presunte facoltà poetiche e, con l'aiuto di qualche professore compiacente e di qualche studente a lui più vicino per ambiente di provenienza, intraprese ad acculturarsi al punto di diventare un maniaco di termini a lui inusuali e altisonanti.

Un giorno proprio il prof. Pareti lo apostrofò salutandolo poeta e-mulo, e lui, controllato sul suo inseparabile vocabo­lario il termine emulo, ne fu felice e orgoglioso tanto da fregiarsene come di una onorificenza ricevuta sul campo della scuola e della cultura da un insigne, chiarissimo docente di fama nazionale.

Un'altra volta il simpatico prof. Barbaro, di matematica e fisica, lo definì di mente ottusa e lui, controllato il signi­ficato del termine nella sua accezione geometrica ne dedusse che era stato riconosciuto di mente aperta.

Se il povero Vincenzo Cardaci era diventato lo zimbello di professori e studenti sul piano culturale nell'ambito della scuola, era addirittura vittima della giovanile cattiveria degli studenti fuori della scuola. Egli era il fortunato posses­sore di una fiammante bicicletta Bianchi da passeggio (un'altra simile l'aveva il prof. Luigi Margaglio, solitario uomo di cultura di cui si diceva che, conseguita la maturità classica, al padre che gli chiedeva che cosa volesse fare rispon­deva il re e come tale noi studenti liceali degli anni '35-38 lo abbiamo indicato senza minimamente preoccu­parci di saperne di più su una persona perbene la quale, se aveva un difetto e se questa fosse un difetto, era la riservatezza).

Vincenzo Cardaci, invidiato possessore di quella Bianchi, nei pomeriggi di bel tempo e nelle ore libere dal lavoro, la infor­cava e si recava in un suo piccolo podere sulla strada per Adrano, a circa tre kilometri, dopo il Cimitero.
Quel tratto di strada ed oltre era l'abituale passeggiata nostra e di tanta altra gente fra cui le fanciulle dei nostri primi sospiri d'amore.

Nella primavera avanzata il nostro eroe andava tutti i giorni in quel podere per controllare se erano mature al punto giusto le sue fave, ma quando lo erano noi studenti lo precedevamo nella raccolta. Raccoglievamo fino al­l'ultimo baccello tutte le fave, cercando di non fare altri danni e di non lasciare tracce troppo visibili o che potes­sero portare al riconoscimento di qualcuno di noi; poi proseguivamo lungo la strada verso Adrano e, trovato un pianoro appartato e fuori dalla vista di qualche contadino che potesse subodorare il furto, mangiavamo quelle primizie che avevano il particolare gusto delle cose altrui, ottenute con mezzi non proprio onesti.

Ultimata la scorpacciata, ritornavamo indietro verso il paese, ripassando davanti al podere del Cardaci per goderci con giovanile sadismo le reazioni del malcapitato. Allora partecipavamo, falsamente compunti, alla sua disperazione per aver perduto sul filo di lana e ad opera di ignoti farabutti il suo prezioso e succulento raccolto, tirato su con tante premurose cure per tutto un anno.

Don Vincenzo, dopo tanti anni e a nome degli scomparsi e dei dimentichi, ti chiedo scusa di quella nostra spensierata e gratuita cattiveria!


Mariano Gatto

Negli anni Trenta-Quaranta nel Liceo-Ginnasio Pareggiato del Real Collegio «Capizzi» di Bronte insegnava Religione e Storia dell'Arte il rev. sac. prof. Mariano Gatto, bell'uomo in primo luogo, un bel gattone soriano, persona colta e ottimo oratore, perfettamente consapevole delle sue qualità che sapeva sfruttare sapientemente: come quella estate particolarmente siccitosa in cui si ricorse ad una processione con la statua della Madonna e, per implorare la pioggia, predicò proprio lui, Mariano Gatto, il quale pregando pianse e commosse tutto l'uditorio presente.

In paese le malelingue che venivano chiamate le forbici, perché tagliavano i panni addosso a chiunque (a ragio­ne, ma spesso anche a torto), raccontavano di questo facondo (ma per loro fecondo) prete parecchie avventure di carattere amoroso.

Una volta a Caltagirone, dove era stato mandato assieme a un altro giovane prete brontese, per svolgere il suo primo servizio pastorale, secondo le male lingue, si contese, riuscendo vittorioso, la giovane, avvenente ed ereditiera nipote delle due devote vecchiette le quali, ignare, avevano offerto ospitalità ai due giovani sacerdoti.

La cosa, però, arrivò alle orecchie del Vescovo protempore di Catania il quale convocò il giovane prete scapestrato per redarguirlo, ma lui, il Gatto, si presentò, sempre secondo i maldicenti, con la veste talare sotto il braccio e, alle prime rampogne del suo superiore, minacciando di divulgare le malefatte dello stesso Vescovo, gli mise a dispo­sizione il suo mandato. Al che il Cardinale, pro bono pacis o forse per non fare scoprire i suoi altarini, mandò il Gatto a godersi la sua vittoria non senza, però, raccomandargli la cattolica discrezione.

Questo ed altri fatti consimili, avvenuti dentro e fuori il natio borgo selvaggio, sarebbero rimasti nel novero delle malevole dicerie di paese se non avessero avuto un autorevole e inaspettato riscontro: un giorno il dottor Luigi Lupo, Direttore Generale della Banca Sudameris di Parigi, a un ricevimento ufficiale incontrò un altro più auto­revole rappresentante italiano, monsignor Angelo Roncalli, Nunzio apostolico presso il governo francese, e richiesto del suo paese di origine, il Roncalli (futuro papa Giovanni XXIII) sentendo il nome di Bronte, chiese al suo interlocutore notizie di un suo vecchio compagno al Pontificio Seminario Romano di nome Mariano Gatto, aggiunse subito testualmente:
«Speriamo che non si sia perso dietro qualche gonnella!». Il che non solo convalidò le dicerie delle malelingue brontesi, ma dimostrò che a Roma il nostro eroe aveva dato prova delle sue propensioni e del suo carattere di don Giovanni religioso.(1)

A scuola ammaliava con la sua dottrina in campo religioso e con la descrizione delle opere d'arte, viste e studiate specialmente a Roma, che esponeva con la sua suadente facondia che spesso, però, conciliava il sonno dei meno sensibili agli argomenti trattati. Ciò non lo indispettiva tanto come invece riusciva a fare l'impertinenza di qualcuno che, quando lui parlava, per esempio, della purezza e della castità, gli faceva rilevare con una battuta: «Ma proprio vossia parla di castità?»

Al che lui, il Gatto, perdendo la cristiana pazienza, che oggi si direbbe self control, e balzando felinamente con tutta la sua maestosa persona, rispondeva per le rime e senza peli sulla lingua «Nino della malora, se non stai zitto, con due cazzotti ti stritolo!» Proprio così si esprimeva il Mariano Gatto contro chi osava rinfacciargli, più o meno direttamente, il suo debole per l'amore: non quello di Dio e dei Santi, ma quello delle verginelle, ed anche quello delle giovani spose le quali andavano a confidare, proprio a lui, qualche debolezza o manchevolezza dei mariti; e ad essi egli si prestava, cristianamente, di supplire!

 




Vincenzo Cardaci, il poeta portinaio
Vincenzo Cardaci (Don Vincenzo il portinaio)
Il Ciclope (N. 1 del 1 Gennaio 1948) lo ricorda come "il poeta portinaio".

 



Il Real Collegio Capizzi


Nota (1) :
 La prima fonte di que­sta notizia è stato mio fratello Nino che mi riferì il racconto di Luigi Lupo: fattogli alla Banca Suda­meris di Parigi alla pre­senza del Presidente della Renault. Io, conoscendo la fantasia di quel mio fr­tello, mi preoccupai di sapere se il Sac. Mariano Gatto fosse stato vera­mente compagno di Seminario a Roma di Angelo Roncalli, Nunzio Apostolico a Parigi e, poi, Papa Giovanni XXIII. Avutane conferma dall’Ar­chivista del Seminario di Roma ho dato fiducia, una volta tanto, a mio fratello il quale godeva fama di ballista.

Egli è scomparso il 18 Gen­naio del 1995 e non ha potuto leggere il mio rac­conto sul nostro Marianno Gatto, e adesso, con dolo­roso nostalgico rimpianto, rendo omaggio alla sua geniale fantasia che era superiore ad ogni mia certezza storica.


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Nicola Lupo: "Fantasmi"