Ma se u criscenti fosse
andato a male per una panificazione posticipata lo
chiedeva in prestito alla vicina di casa.
Scanava, impastava, il composto a forza di pugni
e u gnutticava, ripiegava, più volte
finché prendeva la giusta consistenza e diventava liscio
e soffice.
Posava sulla madia u scanaturi,
spianatoio utilizzato per la lavorazione ri
tagghiarini, tagliatelle, ri maccarruni cu
iuncu, bucatini realizzati con lo Juncus acutu
(foto 2) essiccato, erba petaliforme che
cresce lungo il Simeto; si realizzava anche a
pasta firata, filata, spaghettini sottili
all’uovo che si avvolgevano a matassina e messi
ad asciugare: bolliti e conditi col sugo era una
raffinatezza!
Poi la massaia staccava dall’impasto la giusta
quantità, circa un chilogrammo, la ruotava col palmo di
una mano su se stessa finché prendeva la forma ri
guastella, pagnotta, e con un gesto veloce di
destrezza la girava e con entrambe le mani, quasi ad
accarezzarla, a cumminava, sistemava, accostando
i lembi per darle una forma tonda, perfetta e
delicatamente la poneva sul tavolo coperto da un
lenzuolo bianco insieme alle altre pagnotte messe tutte
in fila e distanti fra loro.
Quasi alla fine, pi
buffiniari, prendere in giro e creare
nei bambini l’attesa, faceva per loro a
minnitta, piccola guastella simile ad una
mammella; poi raccoglieva dal fondo della madia i
ristatigghi, i resti, ca rrascamailla,
radimadia (foto 3),
li mischiava alla crusca e
faceva 'u pupilluni, pagnotta per il cirneco di
casa, il cane Fido,
dal nome classico e sempre presente in quasi tutte le
famiglie per la guardia al cortile di galline e conigli
ma anche per la caccia (foto 4).
Ogni contadino amava la caccia, era il suo unico svago
dal duro lavoro dei campi; possedeva a scupetta,
fucile, chiamato anche frisciò (termine che potrebbe
avere origini francesi, fichant, fuoco rientrante,
oppure onomatopeico, fischio) che la domenica
ripuliva dalla polvere da sparo e lubrificava; pesava e
mischiava le polverine da sparo che pressava in ogni
cartuccia, aggiungendovi alla fine i pallini di piombo, il cui effetto avrebbe assicurato alla
famiglia il pasto proteico della domenica: u
cunigghiu savvaggiu cu sucu e i maccarruni.
Intanto la massaia su ogni pagnotta faceva col coltello un
taglio a croce perché nel gonfiarsi non si
sbuddissi, sformasse, copriva cu linzoru 'i lana,
lenzuolo di lana grezza e coperte.
La lievitazione del pane era lenta, circa due o tre ore,
secondo della stagione e nei mesi invernali per accelerarla
si poneva sotto il tavolo, a conca, il braciere, e
per controllare a che punto fosse sollevava delicatamente le
coperte, quasi a non disturbare, e quando il pane si
presentava (foto 5) ca cammisza strazzata,
superficie appena fessurata, era il momento chi si
llumava u funnu, si accendeva il forno di pietra,
costruito da esperti mastri, muratori, i quali
conoscevano bene le tecniche di tiraggio e la tenuta del
calore.
La massaia metteva ad ardere i fraschi,
fascine secche e spezzoni di tronchi che il capo famiglia
aveva tagliato ca ccetta, con l’accetta. I legni li
girava e rigirava cu spitu, lungo ferro appuntito per
distribuirli in tutte le parti mentre i bambini, tenuti
distanti dal forno, guardavano con occhi sbarrati e
intimoriti lo scoppiettare della legna accesa.
Il momento
più importante era sapere quando il forno avrebbe raggiunto
la giusta temperatura; entrava in scena l’esperienza che
osservava la cupola interna del forno, i laterali e il
pavimento finché non fossero diventati bianchi.
La massaia
raccoglieva la carbonella cu rrastrellu,
rastrello, e u parittuni, paletta grande, e la
chiudeva per spegnerla ndo stuta focu, contenitore di
ferro col coperchio (Foto 6).
La carbonella in seguito veniva riutilizzava per scaldarsi,
si riaccendeva nda conca, (foto 7) braciere, dopo
avere eliminato i tizzuni, pezzi di legno non
carbonizzati che emettevano fumo irrespirabile.
Scopava
dalla cenere il pavimento del forno con la scopa di stramma
o ‘disa (foto 8) nome scientifico Ampelodesmos tenax
(foto 9), pianta molto comune nell’area mediterranea e sub-montagna che cresce anche a Bronte ma non abbiamo notizie se qualcuno
intrecciava le foglie dando la forma di scopa né chi le
vendeva o se le ritirava da qualche paese.
Per controllare la giusta temperatura spargeva un pugno di
farina sul pavimento del forno e quando carbonizzava
dimostrava che la temperatura era alta e ripassava la scopa
bagnata per abbassarla.
Era giunto il momento che la madre-maestra quasi intimava
alla figlia-allieva di stare molto attenta: u funnu
consza e sconsza, il forno combina e scombina e nelle
sue mani era il destino della famiglia.
Poi trasferiva le pagnotte una ad una sulla pala infarinata,
le posizionava in forma circolare l’una distante dall’altra,
chiudeva a bucca ro funnu, bocca del forno, ca
ciappa, coperchio di ferro, sigillava con sacchi di
lona, canapa, bagnati, perché il calore non
fuoriuscisse.
Iniziava la recita della preghiera propiziatoria tramandata
da madre in figlia e ne proponiamo due:
“Santa Rosa e Santa Margherita, russu
ri crusta e riccu ri mullica (crosta
croccante e morbida mollica)” “Trazsi pani ndo funnu (entra pane nel forno)
Gesù Bambinu veni o munnu (vieni al mondo)
Né liszu né passatu Gesù mio sacramentatu (che non
sia poco lievitato né troppo)
San Braszuzzu crisciti u pani e laggàti u funnu (San
Biagio allargate il forno se il pane non vi entra)
Santa Rosalia biancu e russu commu a ttia (sia
colorito come il tuo viso)
Sant’Aita s’è stortu vui u cunzati (San Agata se le
forme non sono perfette aggiustatele voi)
San Giuseppi e San Giuvanni priàtici vui p’amuri divinu
(intercedete per noi vi prego)
Cori 'i Gesù ammu fattu nui e ora faciti vui
(Cuore di Gesù noi abbiamo fatto il possibile, ora
pensateci voi)”. Per calcolare il tempo, se qualche massaia non possedeva
l’orologio, seguiva i tocchi di quello della chiesa vicina o
recitava il Rosario e, trascorsa la prima ora, controllava
le pagnotte, le girava col rastrello per farle colorire da
tutti i lati e quando era sicura che fossero cotte al punto
giusto (foto 10), i sfunnava, le sfornava.
Spolverava la base di ogni pagnotta da eventuale cenere, la
poneva sul tavolo insieme alle altre e le copriva con
coperte perché si raffreddassero lentamente prima di riporle
nda cascia, cassapanca, o ndo stipu,
armadio dove si conservava anche u tumazzu cu i spezzi,
pecorino col pepe che le aspettava per invaderle ri
ciauru, del suo aroma.
I bambini assistevano al
“miracolo” che era avvenuto sotto i loro occhietti ansiosi e
reclamavano i loro diritti: a minnita e u pani
cunsatu, pane condito con olio, origano e ca
saruti, augurio di buona salute e buon appetito!
Il profumo del pane chiamava a raccolta il vicinato; c’era
competizione fra chi lo faceva meglio e qualche massaia di
fronte a pagnotte non perfette nella forma, poco o troppo
cotte, esprimeva la sua disapprovazione, non verbale, ma
smussiava, torceva il muso, affermando la sua
superiorità.
L’improvvisazione e la fantasia non trovavano spazio, nel
rispetto delle diverse tradizioni di famiglia.
È mia opinione che nel “fare” il pane le donne erano
protagoniste assolute di gesti solidali e responsabili per
una famiglia formatasi spesso con la rinuncia ad una storia
d’amore per un matrimonio combinato.
Marzo 2017
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