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E il profumo del pane chiamava a raccolta il vicinato

Il pane e… altro nella tradizione

di Laura Castiglione

E’ trascorso appena un secolo e il pane ha perduto la sua identità. I suoi ingredienti nominalmente sono uguali ma non si è pervasi dallo stesso aroma, non ha lo stesso sapore pani e tumazzu e neppure il formaggio che l’accompagna; non s’identifica con la sopravvivenza, non si va a lavorare per guadagnarsi il pane, né si toglie il pane di bocca per darlo ai propri figli.

Menti u pani e renti ca fammi si senti, non è più l’unico antipasto. U pani schittu, senza companatico, rendeva felici. Il poeta romano Giovenale scrisse: ”populus duas tantum res anxius optat panem et circenses” il popolo due sole cose ansiosamente desidera, pane e giochi circensi.

Oggi si vuole, si cerca, si pretende ben altro! L’atmosfera che creava attorno a sé non è cambiata, semplicemente non esiste più.

A causa di una lievitazione forzata e di farine industrializzate, non si conserva a lungo e quello panificato la mattina non sa di pane la sera e, diventato duro, non è usato per la zuppa col latte. Una volta durava di ottimo gusto tutta una settimana.

La sua preparazione avveniva di sabato, perché il lunedì l’ommu ‘i campagna, il contadino, andava o travàgghiu, al lavoro, lo poneva nde bètturi, bisaccia, e gli bastava fino a sabato, giorno del suo rientro a casa.

“Fare” il pane era una cerimonia a cui partecipava ogni membro della famiglia, con un rituale rigido e per alcuni aspetti religioso. Si faceva solo in casa, quasi fosse un affare privato; qualcuno che non possedeva il forno andava a comprarlo e veniva definito scilli squarati, ascelle scottate, perché metteva sotto il braccio il pane appena sfornato e se lo portava a casa.

Le anziane, tutte esperte maestre, insegnavano alle giovani ogni passaggio: era indispen­sabile e addirittura vitale non commet­tere errori.

Di prima mattina la massaia poneva a maìlla, maida, sopra i trìspiti (foto 1), trespoli, misu­rava a rrobba fotti, farina di grano duro, cu dumundella, unità di misura, e cu crivellu, setaccio a maglia fine, la separava dalla crusca; faceva il fonte nella farina e dentro mischia­va l’acqua tiepida, il sale e u criscenti, lievito madre, dopo che quest’ultimo era stato rigenerato cu ripigghiaturi, pagnotta conservata dalla precedente panificazione e lasciata a lievitare. Ma se u criscenti fosse andato a male per una panificazione posticipata lo chiedeva in prestito alla vicina di casa.

Scanàva, impastava, il composto a forza di pugni e u gnutticàva, ripiegava, più volte finché prendeva la giusta consistenza e diventava liscio e soffice. Posava sulla madia u scanatùri, spianatoio utilizzato per la lavorazione ri tagghiarìni, tagliatelle, ri maccarrùni cu iùncu, bucatini realizzati con lo Juncus acutu (foto 2) essiccato, erba petaliforme che cresce lungo il Simeto; si realizzava anche a pasta firata, filata, spaghettini sottili all’uovo che si avvolgevano a matassina e messi ad asciugare: bolliti e conditi col sugo era una raffinatezza!

Poi la massaia staccava dall’impasto la giusta quantità, circa un chilogrammo, la ruotava col palmo di una mano su se stessa finché prendeva la forma ri guastella, pagnotta, e con un gesto veloce di destrezza la girava e con entrambe le mani, quasi ad accarezzarla, a cumminàva, sistemava, accostando i lembi per darle una forma tonda, perfetta e delicata­mente la poneva sul tavolo coperto da un lenzuolo bianco insieme alle altre pagnotte messe tutte in fila e distanti fra loro.

Quasi alla fine, pi buffiniàri, prendere in giro e creare nei bambini l’attesa, faceva per loro a minnitta, piccola guastella simile ad una mammella; poi raccoglieva dal fondo della madia i ristatìgghi, i resti, ca rrascamaìlla, radimadia (foto 3), li mischiava alla crusca e faceva 'u pupillùni, pagnotta per il cirneco di casa, il cane Fido, dal nome classico e sempre presente in quasi tutte le famiglie per la guardia al cortile di galline e conigli ma anche per la caccia (foto 4).

Ogni contadino amava la caccia, era il suo unico svago dal duro lavoro dei campi; possedeva a scupètta, fucile, chiamato anche frisciò (termine che potrebbe avere origini francesi, fichant, fuoco rientrante, oppure onomatopeico, fischio) che la domenica ripuliva dalla polvere da sparo e lubrificava; pesava e mischiava le polverine da sparo che pressava in ogni cartuccia, aggiungendovi alla fine i pallini di piombo, il cui effetto avrebbe assicurato alla famiglia il pasto proteico della domenica: u cunìgghiu savvàggiu cu sucu e i maccarrùni.

Intanto la massaia su ogni pagnotta faceva col coltello un taglio a croce perché nel gonfiarsi non si sbuddissi, sformasse, copriva cu linzoru 'i lana, lenzuolo di lana grezza e coperte.

La lievitazione del pane era lenta, circa due o tre ore, secondo della stagione e nei mesi invernali per accelerarla si poneva sotto il tavolo, a conca, il braciere, e per controllare a che punto fosse sollevava delicatamente le coperte, quasi a non disturbare, e quando il pane si presentava (foto 5) ca cammìsza strazzata, superficie appena fessurata, era il momento chi si llumàva u funnu, si accendeva il forno di pietra, costruito da esperti mastri, muratori, i quali conoscevano bene le tecniche di tiraggio e la tenuta del calore.

La massaia metteva ad ardere i fraschi, fascine secche e spezzoni di tronchi che il capo famiglia aveva tagliato ca ccetta, con l’accetta. I legni li girava e rigirava cu spitu, lungo ferro appuntito per distribuirli in tutte le parti mentre i bambini, tenuti distanti dal forno, guardavano con occhi sbarrati e intimoriti lo scoppiettare della legna accesa.

Il momento più importante era sapere quando il forno avrebbe raggiunto la giusta tempe­ratura; entrava in scena l’esperienza che osservava la cupola interna del forno, i laterali e il pavimento finché non fossero diventati bianchi.

La massaia raccoglieva la carbonella cu rrastrellu, rastrello, e u parittuni, paletta grande, e la chiudeva per spegnerla ndo stutafòcu, contenitore di ferro col coperchio (Foto 6).

La carbonella in seguito veniva riutilizzava per scaldarsi, si riaccendeva nda conca, (foto 7) braciere, dopo avere eliminato i tizzuni, pezzi di legno non carbonizzati che emettevano fumo irrespirabile.

Scopava dalla cenere il pavimento del forno con la scopa di stramma o ‘disa (foto 8) nome scientifico Ampelodesmos tenax (foto 9), pianta molto comune nell’area mediterranea e sub-montagna che cresce anche a Bronte ma non abbiamo notizie se qualcuno intrecciava le foglie dando la forma di scopa né chi le vendeva o se le ritirava da qualche paese.

Per controllare la giusta temperatura spargeva un pugno di farina sul pavimento del forno e quando carbonizzava dimostrava che la temperatura era alta e ripassava la scopa bagnata per abbassarla.

Era giunto il momento che la madre-maestra quasi intimava alla figlia-allieva di stare molto attenta: u funnu consza e sconsza, il forno combina e scombina e nelle sue mani era il destino della famiglia.

Poi trasferiva le pagnotte una ad una sulla pala infarinata, le posizionava in forma circolare l’una distante dall’altra, chiudeva a bucca ro funnu, bocca del forno, ca ciappa, coperchio di ferro, sigillava con sacchi di lona, canapa, bagnati, perché il calore non fuoriuscisse. Iniziava la recita della preghiera propiziatoria tramandata da madre in figlia e ne proponiamo due:

Santa Rosa e Santa Margherita, russu ri crusta e riccu ri mullica (crosta croccante e morbida mollica)”

“Trazsi pani ndo funnu (entra pane nel forno)
Gesù Bambinu veni o munnu (vieni al mondo)
Né liszu né passatu Gesù mio sacramentatu (che non sia poco lievitato né troppo)
San Braszùzzu criscìti u pani e laggàti u funnu (San Biagio allargate il forno se il pane non vi entra)
Santa Rosalia biancu e russu commu a ttia (sia colorito come il tuo viso)
Sant’Ághita s’è stortu vui u cunzati (San Agata se le forme non sono perfette aggiustatele voi)
San Giuseppi e San Giuvanni priàtici vui p’amuri divinu (intercedete per noi vi prego)
Cori 'i Gesù ammu fattu nui e ora faciti vui (Cuore di Gesù noi abbiamo fatto il possibile, ora pensateci voi)”.

Per calcolare il tempo, se qualche massaia non possedeva l’orologio, seguiva i tocchi di quello della chiesa vicina o recitava il Rosario e, trascorsa la prima ora, controllava le pagnotte, le girava col rastrello per farle colorire da tutti i lati e quando era sicura che fossero cotte al punto giusto (foto 10), i sfunnava, le sfornava.

Spolverava la base di ogni pagnotta da eventuale cenere, la poneva sul tavolo insieme alle altre e le copriva con coperte perché si raffreddassero lentamente prima di riporle nda càscia, cassapanca, o ndo stipu, armadio dove si conservava anche u tumazzu cu i spezi, pecorino col pepe che le aspettava per invaderle ri ciàuru, del suo aroma.

I bambini assistevano al “miracolo” che era avvenuto sotto i loro occhietti ansiosi e recla­mavano i loro diritti: a minnita e u pani cunsatu, pane condito con olio, origano e ca saruti, augurio di buona salute e buon appetito!

Il profumo del pane chiamava a raccolta il vicinato; c’era competizione fra chi lo faceva meglio e qualche massaia di fronte a pagnotte non perfette nella forma, poco o troppo cotte, esprimeva la sua disapprovazione, non verbale, ma smussiava, torceva il muso, affermando la sua superiorità. L’improvvisazione e la fantasia non trovavano spazio, nel rispetto delle diverse tradizioni di famiglia.

È mia opinione che nel “fare” il pane le donne erano protagoniste assolute di gesti solidali e responsabili per una famiglia formatasi spesso con la rinuncia ad una storia d’amore per un matrimonio combinato.

Marzo 2017


  

Foto 1 - 'A mailla supra i trìspiti e, sutta, 'a para po fun­nu, u saccu cu a rrobba fotti, i crivelli, u scanatùri e u dumundella.

Foto 2 (a manu manca) - 'U juncu pi ffari i mac­car­ru­ni, ancora viddi ma prontu ppi ssiccàriru.

Foto 3 (a manu dritta) - 'A rasca­mailla pi grattari e puriziari bona a mailla.


Foto 4 - Tutti i coszi ppi fari i cattucci: supra, a cat­tuc­cera, tri scàturi ri pùvviri e a baranzella pi piszà­rira. Sutta: ddu coszi pi mèttiri i tappi nde cat­tuc­ci e fàrici l'orlu, un pez­zu i lignu cu grup­pu e u femmu pi mmac­cari a pùvviri, a burraccia i pannu undi si tènu­nu i pallini e u miszu­rinu ra pùvviri.

Foto 5 e 6 - Supra, 'u pani già lèvitu prontu pi nfun­nari e (a ma­nu dritta) u parittuni, u rrastrel­lu e u stutafocu.

Foro 7, 8 e 9 - 'A conca ggià llumata e (a mani drit­ta)  'a scupa ri ligara e (sutta) 'a ligammi.

 

'U pani è cottu! Si po nèsciri!



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