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“Quando Berta Filava…”

Noterelle di tradizioni popolari

o ...pennellate di memoria!(1)

di Nicola Lupo

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Nicola LupoIl gentile amico Nino Liuzzo di Bronte Insieme, fidando in quella che egli definisce “la sua (mia) incredibile memoria storica ed il suo (mio) stile scorrevole e piace­vole", mi chiede di scrivere qual­cosa sulle tradizioni popolari di Bronte ed io, per non deludere la Sua fiducia, pur non essendo un esperto della materia, ma ricordando le mie vecchie letture del Pitrè (2), ho promesso di pensarci e di fare un piano di lavoro.

La mia prima riflessione si è appuntata su come intito­lare la rubrica, che potrebbe svolgersi a puntate, è si è soffermata su quella che compare in alto, introdot­ta da un noto incipit che alludeva ai ricordi dei nonni o alle favole, e spero che sia di vostro gradimento.

Una seconda riflessione mi ha ricordato che più di un accenno io l’ho già fatto sul mio libretto di ricordi, di personaggi e storiette brontesi intitolato Fantasmi (3) che, a mano a mano ricorderò in una nuova elabo­ra­zione adatta al nostro argomento.

(...) Il prossimo racconto riguarderà le feste di Natale e Capodanno.

A presto!
Nicola Lupo

Bari, 30 Novembre 2004

 



Novembre e la Festa dei Morti

Funerale a Bronte (l'accompagnamento, anni '30)Essendo ancora in novembre, si potrebbe incominciare, dalle tradizioni popolari sui morti, perché il loro culto era molto sentito e condizionava tutta la vita delle famiglie.

Infatti a cominciare dal lutto, esso incombeva, specialmente nella vita delle donne, le quali dovevano rispettare certe regole fisse che stabilivano i tempi e i modi del lutto stesso, a seconda che si trattasse dei genitori del marito o propri, dei figli o dei cognati, degli zii o dei compari ecc..

C’erano tanti gradi di lutto a seconda della parentela, dell’età e della circostanza in cui era avvenuto il decesso: il lutto stretto era quello che durava più a lungo e con manife­stazioni più evidenti; infatti in quei casi gli uomini dovevano indossare il vestito nero,la camicia bianca con bottoni neri, e la immancabile cravatta nera e non dovevano sbarbarsi per parecchi giorni (forse una o due settimane).

Chi risentiva di più del lutto da mostrare erano le donne, le quali dovevano vestire di nero dentro e fuori casa per parecchio tempo, tanto che spesso succedeva che le morti si accavallassero e quindi esse non smettevano di portare il lutto e per adeguare i vestiti dovevano ricorrere alla tintoria che, allora, avveniva in casa: si comprava, da Capon­netto o da altri il tubetto che conteneva il nero, si mettevano i vestiti a mollo nel “lavizzu“, (grande recipiente di rame a bocca larghissima, più del fondo), e lì avveniva la tinteggiatura che, ripetuta nel tempo diverse volte, riduceva le vesti lise e di un colore indefinibile.

Un capo di abbigliamento caratteristico delle donne era “u fazzirittuni” un grandissimo “fazzoletto” che, piegato in due a triangolo, si appoggiava o sulle spalle o sulla testa in modo da coprire tutto il corpo fino alle ginocchia; la stoffa di questo indumento era il cotone, spesso setificato, di colore nero; anch’ esso, quando era stinto, si tingeva come detto sopra, fino a quando non diventava un indistinto color melanzana.

Durante la veglia funebre (detta “u viszitu”) si piangeva a voce alta anche con grida di strazio, e cominciava la persona più colpita, per esempio la moglie in caso della morte del marito giovane, la quale ne elogiava i meriti e rimpiangeva la virtù, specie in funzione del mantenimento e dell’educazione dei figli, seguita da parenti, amiche e vicine, che ricordavano, per chi aveva studiato, le “prefiche” delle civiltà precedenti.

Dette usanze antiche venivano ricordate anche dal pranzo che seguiva il funerale: esso era preparato da parenti più lontani o da amici per la famiglia, ma vi partecipavano anche coloro che avevano pianto di più assieme ai familiari del/la defunto/a, che lo gustavano di più in quanto il loro dolere non era sentito al punto da togliere l’appetito.

Passando al ricordo dei parenti defunti esso era strettamente legato a loro; perciò ai figli si parlava spesso di loro, sia che li avessero conosciuti, sia che fossero morti prima; e, quindi, anche i regali si facevano come mandati dalla nonna o dal nonno morto, e in genere, venivano effettuati facendoli trovare, dentro le scarpe, il 2 novembre, commemorativo dei defunti, o quando ricorreva la data della loro scomparsa.

Il 2 novembre sostituiva, infatti, sia Babbo Natale che la Befana e non si conosceva la nuova festa tutta americana Halloween, regalo della globalizzazione.

"i crozzi ‘i mottu"I doni che si facevano trovare ai bambini in occasione della memoria dei defunti erano specialmente i dolciumi e a Bronte i preferiti erano “i crozzi ‘i mottu“, dolcetti  durissimi che riproducevano in miniatura teschi e ossa lunghe, che dovevamo ricordare i parenti defunti, ma che i ragazzi mangiavano o per desiderio di dolce, o ricusavano perché mettevano a repentaglio i loro giovani denti.

Il negozio specializzato nella vendita dei suddetti dolci speciali per quella ricorrenza, era la drogheria di don Angelo Caponnetto, che era situata in Corso Umberto I, angolo via Pietro Calanna, cioè vicino alla Chiesa di S. Giovanni e quasi davanti a quella del Rosario.

Il negozio Caponnetto era quasi un bazar, perché vendeva un po’ di tutto e il suo proprietario era un personaggio (4) caratteristico per la sua simpatia e l’aria soddisfatta che aveva acquisito con il raggiunto benessere: infatti col suo negozio aveva sistemato i suoi sei figli, tre maschi e tre femmine: la più grande l’aveva sposata a Maruzzella (5), negoziante di tessuti, le altre due gestivano la casa e il magazzino; i tre maschi andarono via da Bronte e approdarono a Roma dove i primi due ebbero rinomati negozi di abbigliamento in zone prestigiose, come il viale Regina Margherita, mentre il più piccolo, Vittorio (6), mio compagno di scuola anche dai Salesiani di Pedara, diventò maestro elementare e insegnò anche a Roma dove visse e morì.

La visita ai defunti nella prima settimana di novembre allora era un mesto pellegrinaggio, mentre adesso, mi dicono, sia diventato un grande ingorgo di automobili, e ai tradizionali fiori freschi, si sono aggiunte le opere di bene fatte tramite le pie Dame di S. Vincenzo con il cosiddetto “fiore che non marcisce”: cartellino bordato a lutto, a riprova dell’offerta, che si depone o appende sulla tomba del caro estinto con una frase di ricordo e l’indicazione del parente offerente.

La visita ai defuntiUna volta si andava al cimitero il 2 novembre non solo per visitare i propri parenti defunti, ma anche per “vedere” le cappelle e le tombe più caratteristiche.

Noi andavamo a visitare la tomba di Maria Brunetti, una giovanissima maestra randazzese che era ospite dei nostri genitori e morì in casa loro vittima della famigerata spagnola, l’influenza che fece molte vittime nel 1916.

Ma curiosavamo fra le altre tombe a caccia di epitaffi curiosi: un noto delinquente ricordato come una persona perbene; un vecchio rimpianto dai genitori, ed altre amenità che suscitavano il riso anche in quel luogo di serena tristezza.

Allora c’erano le cripte nelle chiese, dove venivano sepolti i preti, consuetudine che fu interrotta dalla legge napoleonica che istituì i cimiteri e che ispirò i Sepolcri di Ugo Foscolo.

Celebre e visitata quella della Matrice, dove in un coro come quello che c’era dietro l’altare maggiore, erano sistemati gli scheletri dei preti, vestiti dei paramenti sacri e con un cartiglio appuntato ad una manica, con tutti i dati di riconoscimento.

In noi ragazzi aveva fatto impressione un nome: Cicirello; e quindi il 2 novembre era un susseguirsi di appuntamenti: “oggi andiamo a vedere padre Cicirello!” ed era come volere esorcizzare la paura che incuteva quel lugubre sotterraneo con quella schiera di scheletri che ci terrorizzavano, ma su cui cercavamo di scherzare.

Nicola Lupo

30 Novembre 2004


Note

(1) La tradizione è per definizione la trasmissione orale attraverso le generazioni di elementi culturali (idee, valori, costumi ecc.) e l’aggettivo popolare specifica la classe sociale in cui essa si è realizzata e diffusa.

(2) Pitrè, Giuseppe nato a Palermo il 21 dicembre 1841, morto ivi il 1° aprile 1916, è stato, in Italia, il fondatore di una disciplina, la storia delle tradizioni popolari, la quale in Europa acquistò una piena consapevolezza critica dopo il Romanticismo. Figlio di pescatori esercitò durante tutta la sua vita la professione di medico. Il che gli diede la possibilità di cominciare a raccogliere le tradizioni del suo popolo: indagine questa che poi, con una prodigiosa organizzazione, estese a tutta la Sicilia.
Fin da quando era studente in medicina ebbe interessi letterari. Lo studio delle tradizioni popolari ebbe, però, il sopravvento su quegli interessi. E il suo merito non è stato soltanto quello di raccogliere le tradizioni orali e oggettive del suo popolo, ma di averle inquadrate nella storia degli studi che, allora, dominavano la cultura europea.
La sua Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane (1871- 1913), la quale comprende venticinque grossi volumi, è un corpus di documenti che incidono sulla storia civile del suo paese, di cui rivelano gli atteggiamenti poetici.
Di notevole rilievo sono le ampie monografie che precedono alcuni volumi della Biblioteca (ad es. i Canti, le Novelle, i Proverbi, gli Indovinelli, i Giuochi fanciulleschi), che si possono considerare come tanti capitoli di un trattato, dove, per la prima volta, sono determinati la natura e i confini della scienza del folclore. Come raccoglitore il Pitrè si può mettere alla pari del Grimm, di un Afanasiew, di un Sébillot: ma egli è lo studioso che volge lo sguardo dalle tradizioni della sua isola a quelle dell’Italia e dell’Europa; il critico di teorie riguardanti una disciplina che, in Italia, aveva sì illustri cultori, ma alla quale era mancata una mente organizzativa, capace di valutarla in tutti i suoi aspetti, o meglio nel suo aspetto unitario.
E questa è la ragione per cui la sua opera non è limitata ai luoghi cui è dedicata, ma incide sul generale orientamento degli studi folcloristici europei. Per la diffusione e l’affermazione della sua disciplina il Pitrè diresse, col Di Giovanni, una Collezione di curiosità popolari italiane che comprende venti volumi.
Inoltre coll’attiva e fattiva collaborazione di Salvatore Salomone-Marino (un altro medico folclorista), diresse l’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, al quale collaborarono i più insigni studiosi stranieri e italiani, dal Muller al Croce, dal Puymagre al Di Giacomo.
Nel 1894 pubblicò l’imponente Bibliografia delle tradizioni popolari italiane. Né qui si ferma la sua attività, ché egli organizzò a Palermo e diresse il Museo Etnografico Siciliano (oggi riordinato nel Parco della Favorita). Dal 1912 ebbe sempre a Palermo l’incarico universitario della sua disciplina. Nel 1914 fu nominato senatore. Fu anche presidente dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo e della Società Siciliana di Storia Patria. G. Coc. (dal Dizionario degli Autori, pag. 172)

(3) Lupo Nicola, Fantasmi - storie paesane - Vito Mastrosimini Editore - Castellana-Grotte (Bari) 1995- sponsorizzato dalla gloriosa Banca Popolare di Bronte, fagocitata, purtroppo, da insensibili egoisti padani, ma che ora, per iniziativa degli amici di “Bronte Insieme”, è risorta come edizione telematica.

(4) Ibidem, op. cit. pagg. 133/34

(5) Ibidem, op. cit. pag. 128

(6) Ibidem, op. cit. pag. 50

Piccolo vocabolario brontese di N. Lupo

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