Tradizioni brontesi

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Il mese Mariano

GLI ALTARINI

Tradizioni, Pennellate di memoria di Nicola Lupo

Ombra, non più che un’ ombra è la mia vita
per le strade che ingombra il mio ricordo impassibile.
Mario Luzi

Il mese di Maggio, dedicato alla Madonna, Maria Ausiliatrice, è particolarmente vivido alla mia mente, anche per gli anni del ginnasio inferiore, frequentato presso il Collegio S. Giuseppe di Pedara (CT) gestito dai Padri Salesiani.

A Bronte mi ricordo in particolare i cunnicelli”, altarini o edicole, che, costruiti in muratura, si trovavano in luoghi particolari a ricordo di qualche avvenimento o per venerare una Madonna o qualche Santo, o improvvisati si allestivano ai crocicchi delle strade specialmente nel mese di Maggio in onore della Madonna.

Di quelli in muratura ricordo quelli che si trovavano (e spero si trovino ancora) all’ingresso del paese, provenendo da Catania, e all’uscita, verso Maletto; e precisamente il primo allo Scialandro accanto alla Santa Croce (in ferro), e il secondo vicino al vecchio macello che si trovava quasi all’imbocco di quella strada che, scendendo, portava alla chiesa della Madonna del Riparo, e che oggi costituisce la circonvallazione meridionale, accanto ad un’altra croce in ferro come l’altra.

In queste edicole, se non ricordo male, si veneravano due Madonne, che erano sempre illuminate da una lampada votiva ad olio, e ornate di fiori di campo a cura delle donne delle case vicine.

Quelli improvvisati erano, invece, quelli che si allestivano nel mese di Maggio in quasi tutte le vie secondarie del paese a cura di grandi, ma anche per iniziativa di ragazzine.

Quelli allestiti da grandi e, quindi, di una certa importanza, erano costruiti in legno e coperti da teli di vari colori, predominanti il bianco e l’ azzurro, drappeggiati in modo da sembrare degli altarini, nel cui centro campeggiava un quadro di Madonna, preso in prestito da qualche famiglia vicina.

Completavano il tutto vasetti di fiori, per lo più campestri, o vasi prestati da altre famiglie vicine, e candele e “lumere” ad olio che la sera venivano accese fino a tardi, poggiate sul piano coperto con la migliore coltre di seta di una sposa della “ruga”, pezzo forte del suo corredo che veniva esibito o ai parti o alle feste religiose.

All’ imbrunire, che il popolino indicava con la frase “all’Ave, Maria!”, e in termine chiesastico corrispondeva “al Vespro”, quando in Chiesa si recitava il Rosario e i Preti leggevano la parte del Breviario chiamata proprio Vespro, conclusi con la benedizione del SS. Sacramento, preceduto dal canto del “Tantum ergo”, molte donne del vicinato, vecchie, giovani e bambine e bambini, le prime portandosi le sedie da casa, si radunavano davanti all’altarino e recitavano tutte le preghiere rivolte alla Madonna e concludevano col classico canto, il cui inizio diceva:

Guida il tuo popolo, bella Signora,
che pien di giubilo oggi t’ onora!

Ma oltre a questi altarini ce n’erano altri il cui ricordo mi commuove ancora a distanza di tanti anni, perché erano realizzati da bambine e consistevano in una sedia di casa, coperta da un panno bianco al quale, all’altezza della spalliera, veniva appuntata una figurina di Madonna ottenuta da qualche sacerdote, mentre sul sedile veniva appoggiato qualche bicchiere contenente uno striminzito mazzetto di fiori di campo, e una “lumera” ad olio, da accendere all’imbrunire.

Ma la cosa più ingombrante era un “tabbarè” vassoio preso da casa, che avrebbe dovuto accogliere “i soddi” che le ragazzine chiedevano ai passanti “pa’ Maronna!”.

Infine, ma prima che iniziasse la cerimonia davanti all’altarino importante della zona, anche quelle bimbe pregavano e cantavano a squarciagola la canzone succitata.

Di queste “cunnicelle“ se ne vedevano molte, sparse per le “vanelle” della periferia, e costituivano una pennellata di colore e di speranzosa allegria.

Tornando indietro, a questo proposito, ci sono i ricordi del Collegio S. Giuseppe di Pedara (anni 1930/33): nel mese di Maggio, dopo la lunga ricreazione o dopo la passeggiata per i boschi o per i paesi vicini, e prima dello studio più lungo della sera, in cui si facevano i compiti scritti e si preparavano le lezioni del giorno dopo, nel cortile, davanti alla statua di Maria Ausiliatrice, la Madonna prediletta da don Bosco, tutti in fila per classi, si recitavano le preghiere di rito che si chiudevano col canto citato sopra.

Ma nel 1992, quando volli fare quello che chiamai “il pellegrinaggio della nostalgia”, visitai anche quel collegio e, accompagnato dal Direttore dell’epoca come ex-alunno, notai con gioia che nel cortile era stata messa una grande statua di don Bosco, da poco elevato agli altari, ma nel contempo ebbi la delusione di non vedere più il grande albero di pepe che c’era prima (forse essiccatosi) e neppure la piccola statua di Maria Ausiliatrice; avrei voluto esternare il mio disappunto al Direttore, ma poi, per discrezione, mi trattenni pensando che avranno avuto le loro buone ragioni, che, però, io non riuscii ad ipotizzare!

La mia pena è durare oltre quest’attimo (Mario Luzi)

Bari, 11 marzo 2005
Nicola Lupo 


Piazza Carcerebue


Cortile Maroncelli

Viale Regina Margherita


Piazza Croce


Via Cornelia


Via De Amicis


Via Francesco Cilea


Via D. Manin


Via Santi

Condominio Domus Aurea



Il Corpus Domini

Tradizioni, Pennellate di memoria di Nicola Lupo

La festa più importante, dal punto di vista strettamente religioso, è quella del “Corpus Domini”, in quanto in essa non si porta in processione solenne una statua, ma addirittura il “Corpo di Cristo” contenuto, secondo il nostro credo, nell’Ostia che il sacerdote consacra durante la S. Messa.

La processione è particolarmente solenne perché, oltre le solite Confraternite, partecipano le diverse associazioni femminili, in cui le giovani sfilano vestite di bianco e con corone di fiori.

Il clero al gran completo precede il lussuoso baldacchino, sostenuto da sei “fratelli” della Confraternita del SS. Sacramento, sotto il quale l’Arciprete, con paramenti e “piviale”[1] ricamati in oro, sostiene “l’ostensorio“[2] in cui, protetta da una scatola di vetro, è esposta in posizione verticale l’Ostia consacrata.

Dietro tutte le autorità civili e militari, seguite dalla banda, che esegue musiche sacre, e dalla folla dei fedeli di ambo i sessi.

Il corteo, parte dalla chiesa Matrice e percorre tutte le vie principali del paese i cui balconi sono addobbati da vasi di fiori e dalle più lussuose coperte delle spose, seguito da una moltitudine di persone.

Il mio ricordo risale all’Arcipretura di P. Giuseppe Ardizzone, junior, perché nipote dell’omonimo zio, e perciò detto l’“Arcipretino“, il quale era una bella figura e un buon predicatore che si contendeva, col suo ascetismo, il primato col coetaneo P. Mariano Gatto, il quale era più imponente e più roboante.

L’ultimo mio incontro con P. Ardizzone avvenne nell’ autunno del 1940 quando, volendo andare a continuare il corso universitario alla Cattolica di Milano, andai a trovarlo a casa, in Piazza E. Cimbali, angolo Corso Umberto, per avere l’allora richiesta dichiarazione dell’autorità religiosa di provenienza per l’ammissione a quella Università; ora, invece, vi si accettano anche i laici.

Mi accolse calorosamente complimentandosi per la mia decisione e, augurandomi un buon proseguimento dei miei studi, mi rilasciò il richiesto certificato in cui metteva in risalto la religiosità di tutta la mia famiglia e mia personale.

A proposito del SS. Sacramento ricordo che allora si usava portare la Comunione o l’Estrema Unzione ai malati o ai moribondi, in pompa magna in quanto il prete in cotta e stola[3] e accompagnato dal sagrestano che lo proteggeva con l’ombrellino[4], portava l’Ostia consacrata nella pisside[5], coperta dal velo omerale[6].

Lungo la strada il sagrestano suonava continuamente il campanello per informare i passanti che si segnavano o si inginocchiavano al passaggio della piccola processione.

Se ciò avveniva di sera o di notte, al suono della campanella, le donne aprivano una imposta e si affacciavano con un lume in mano recitando qualche preghiera.

Oggi, invece, si porta la Comunione agli ammalati in forma anonima e anche da un laico, uomo o donna, debitamente autorizzato. Forse è una necessità dovuta alla scarsità di sacerdoti o alle esigenze moderne, ma è certamente poco esemplare e poco educativa.

E a questo proposito devo dire che anche il modo di distribuire la Comunione negli ospedali o nelle cliniche è poco religioso e poco consono, tanto che un giorno, vedendo un prete che distribuiva l’Ostia nel corridoio di un ospedale come se distribuisse le caramelle o le figurine sacre, mi venne di pensare che un giorno o l’altro potremmo trovarLa nei distributori automatici di caffè, bibite e merendine.

E così sarà finita qualsiasi forma di religiosità!

Anche in occasione della festa del Corpus Domini i contadini per devozione portavano qualche prodotto della terra e del loro faticoso lavoro (infatti il lavoro in molti posti si chiama proprio “fatica”) o in chiesa o nelle processioni e in questa stagione di avanzata primavera, dalle “marine“ portavano mazzetti di spighe di grano ancora verdi che poi venivano abbrustolite su una vampa e i cicchi venivano mangiati; ciò a Bronte era chiamato “u brusriarellu“, che metteva tanta allegria nei ragazzini.

Nicola Lupo
Bari, 14 Aprile 2005

 
 

Una piccola curiosità storica sulla processione del Corpus Domini è data dalle disposizioni impartite al clero l'8 maggio 1584, nella sua visita a Bronte, dall'arcivescovo di Monreale quando raccomandava che

«... alla processione del Corpus Domini vadino tutte le confratìe con le loro stindardi et ima­gini conforme all'ordine dato, .. et i luoghi secondo le antiquità come per il passato et mancando alcuna di venire facendoseli intendere la sera avanti, a tutte il Vicario fac­cia ingiuntione, alli sacerdoti, et altri del clero, che non vadino più a servire la confratìa che haverà mancato di venire.» (B. I.)




Piccolo vocabolario brontese di N. Lupo


 

Il "baldacchino"
La confraternita del SS. Sacramento


[1] Piviale, dal latino “pluvialis” = della pioggia, quindi mantello da pioggia. Come termine ecclesiastico significa paramento sacro costituito da un ampio e lungo mantello fermato sul petto da una fibula, che il sacerdote indossa nelle funzioni solenni e nelle processioni.

[2] Ostensorio, dal latino “ostendere” = mostrare, è l’arredo sacro, generalmente di oro a raggiera, in cui si presenta per l’adorazione ai fedeli il SS. Sacra­mento. In dialetto brontese è chiamato “‘a santa spera“.

[3] Cotta = indumento utilizzato nella liturgia catto­lica costituito da una tunica bianca ornata di merletto e lunga fino al ginocchio.
Stola = paramento liturgico consistente in una larga e lunga striscia di seta o lana, ricamata con vari simboli religiosi, che il sacerdote mette al collo sopra la cotta, nelle sacre funzioni.

[4] Ombrellino = piccolo ombrello piatto che si porta nelle sacre cerimonie per coprire il SS. Sacramento quando si trasporta da luogo a luogo.

[5] Pisside = calice emisferico con coperchio sormon­tato da una croce, in cui si conservano le ostie consa­crate.

[6] Velo omerale = paramento sacro per coprire la pisside quando si fa la benedizione o si porta la comunione agli ammalati.



L'Ascensione

Tradizioni, Pennellate di memoria di Nicola Lupo

L’Ascensione, a Bronte, è ricordata oltre che come festa religiosa, anche per la tradizione popolare dei falò, chiamati vampi“, come sono descritti in questo stesso sito, con la trascrizione di un canto ad hoc e una poesia del nostro sac. prof. Vincenzo Schilirò; quindi io non ne parlerò come tali, ma per ricordare un avvenimento familiare strettamente collegato a questo termine.

Alla vigilia dell’Ascensione del 1931 o ’32, mio fratello Elio, che allora aveva sei o sette anni, partecipò attivamente alla raccolta della legna da ardere la sera delle “vampi“ nella nostra ruga[1].

Noi allora abitavamo nella casa di nostra proprietà in via Cavour, 24, che aveva una scala scoperta, perché costruita fra altre due proprietà; nel sottoscala tenevamo materiale vario fra cui la legna per il forno o per la cucina.

Quindi questo mio fratello, che era il quarto di noi maschi, si dette da fare per contribuire a costruire, col permesso di mia madre, la catasta che sarebbe sorta alla confluenza di detta via Cavour con l’attuale via Marconi.

Ma il piccolino, per istigazione dei più grandicelli, continuava a prendere legna oltre il consentito da mia madre, la quale, accortasi dell’eccessivo quantitativo di legna che continuava ad essere prelevata dal nostro deposito, ricorse a ripetute minacce dalla finestra della nostra cucina che si trovava al secondo piano e con una finestra affacciava sul vano scala.

Ma le minacce verbali non intimidivano minimamente né mio fratello, né tanto meno i compagni istigatori alla disobbedienza, per cui mia madre pensò di minacciare quella piccola ciurma agitando una delle sue pantofole o "tappina"[2] ; e siccome i ragazzini non se ne curavano affatto mia madre fece l’atto di lanciare la pantofola che, però, suo malgrado, volò dal secondo piano nel corridoio sottostante.

Malauguratamente quella pantofola colpì proprio mio fratello al viso in prossimità di un occhio, provocando una piccola ferita dalla quale sprizzò un pò di sangue.

Lascio immaginare le grida di dolore e spavento del piccolo e di mia madre che si sentì colpevole a prima vista di avere accecato il figliolo.

Per fortuna, però, la ferita era abbastanza lontana dall’occhio che, quindi, non corse nessun pericolo, ma mia madre, paventando anche i rimbrotti di mio padre, non si perdonò mai di avere ricorso a quell’inconsulta minaccia che avrebbe potuto avere così gravi conseguenze.

Anche mio fratello Elio, credo, non abbia dimenticato quell’episodio e quello spavento dovuto ad una sua disobbedienza.

Quella sera "i vampi" non ce li godemmo nessuno, ma di solito si stava fuori fino a tardi a cantare

"S'indinghianaiu 'n celu cu ttutti li so' àngili
cu san Micheli accangiru e l'àngilu Gabriè!"

e a guardare i ragazzi più grandi e spericolati che saltavano sui falò correndo il rischio di bruciarsi come, effettivamente, capitava spesso che si "ffarassiru" i capelli, se non li aveva coperti "cca coppura" o con un fazzoletto.

Nicola Lupo

Bari, 15 Marzo 2005

I "vampi" della sera dell'Ascensione in alcune stradine di Bronte


Chiesa dell'Annunziata

Piazza Carcerebue

Piazza Cagini

Contrada Sciarotta

San Giuseppe

Cortile Maroncelli


[1] La parola dialettale “ruga“ deriva dal francese “rue“ che vuol dire letteralmente strada; ma noi con quel termine volevamo indicare non solo la strada, ma tutto il quartiere o buona parte di esso.

[2] Tappina (o anche pianella) dovrebbe derivare dal­l'arabo, perciò consiglierei a qualche giovane bron­tese che studia questa lingua di trovare l'etimo di molte parole dialettali brontesi. Ad ogni modo io qui voglio ricordare che da questo termine ne deriva un altro che era «tappinara» che aveva tante acce­zio­ni: dal più benevolo di pettegola, a quello più offensivo di "donna di facili costumi"; e in questo sen­so veniva usato dalle popolane sboccate quan­to, comportandosi da vere «cuttigghiare», litigavano con qualche vicina e magari erano venute alle mani, strap­pandosi i capelli, e insolentivano l'avver­saria proprio con quella ingiuria.


 

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