«Per i sepolcri la gente più umile di campagna, un mese prima della Pasqua seminava in piccoli vasi, che spesso erano i grandi piatti di terraglia in cui le famiglie mangiavano, il frumento, ma lo faceva germogliare e crescere non alla luce dove, per il processo della fotosintesi clorofilliana, sarebbe diventato verde, ma nel buio di una cassapanca, dove cresceva giallo; e questo (il buio) per simboleggiare la morte e poi la resurrezione; ma di questo simbolismo le povere donne di allora non sapevano nulla, ma eseguivano quello che avevano visto fare ai loro antenati e in cui credevano ciecamente.
Tutto quel giallo ai piedi dell’altare in cui era custodita l’ostia del giovedì Santo, giorno dell’istituzione dell’Eucaristia, in me ragazzo, suscitava non solo sentimenti di pietà per la morte di Gesù Cristo, ma anticipava anche la speranza della Sua resurrezione. Infatti nella processione del Venerdì Santo tutte le statue, che erano dolorose, erano adornate dai primi frutti della terra, come ad esempio, fave e piselli freschi che, se non erano ancora delle nostre campagne, erano state portate dalle “marine”, quelle masserie che alcuni brontesi avevano nella piana di Catania, o dove molti “junnatari” andavano a lavorare perché in paese non c’era ancora occupazione, e ciò per propiziare o ringraziare la Divina Provvidenza per quei frutti che ricompensavano il loro lavoro.» (da La Pasqua, di N. Lupo) I piatti dei “Sepolcri”, ci ricorda anche uno storico delle tradizioni popolari, Giuseppe Pitrè, si cominciano a preparare già a metà Quaresima quando «sopra un tondo, piccolo o grande che si voglia slàrgasi tanta stoppa o canape che basti a coprirlo, nel mezzo vi si sparge del grano, al di sopra quasi in secondo strato delle lenti, torno torno della scagliola, e si ripone al buio, avendo cura di spruzzarvi sopra dell’acqua di due in due giorni.
Tra pochi dì tutto è germogliato, e grano e lenti e scagliola vengon su a vista d’occhio bianchi “come cera nel centro, rossastri in giro. |
| | Questi piatti fioriti si mandano ad offerire, legati e messi insieme i lunghi steli con larghe e bellissime fettucce color di rosa alla chiesa più vicina o a quella alla quale furono promessi.» Questa descrizione del Pitrè trova ancora oggi puntuale riscontro a Bronte dove ogni anno, nel pomeriggio del Giovedì Santo, è possibile ammirare queste composizioni preparate secondo l'antica tradizione con il grano germogliato e fiori (i “piatti”, come vengono ancora denominati), a volte artisticamente predisposti per raffigurare la croce o altre immagini sacre. Durante i riti della Settimana Santa i “Sepolcri” del giovedì sera non sono l’unica rappresentazione meritevole di essere vista. Quella che caratterizza ancor più la fede più genuina del popolo è la processione del Venerdì, una sorta di Via Crucis che si svolge per le strette e ripide strade del paese. In tempi passati la Risurrezione avveniva a mezzogiorno della Domenica, annunciata dal ritorno del suono squillante delle campane, rimaste “legate” in segno di lutto dal pomeriggio del Giovedì Santo.
| I "Piatti" dei Sepolcri
Tradizionalmente a Bronte, come in altri paesi della Sicilia, le "devozioni" sono rappresentate da piatti cerimoniali contenenti il grano germogliato, il vino fatto bollire con l'incenso, il pane sotto diverse forme e fiori di stagione. Ci sono tutti i simboli della flagellazione e della crocifissione di Cristo: i dadi dei soldati romani, i flagelli. la croce, la scala, i chiodi ed il martello della crocifissione, Tutti simboli della Passione confezionati con pasta di biscotti portati in chiesa per essere benedetti ed ornare i «Sepolcri», saranno utilizzati il giorno dopo, portati da fanciulli nella processione del Venerdì Santo. La tradizionale offerta dei fedeli per l'addobbo dell'altare ha un trasparente contenuto simbolico ed augurale. E' una esplosione di vivaci colori con nastri, fiori, germogli coltivati, frutta, cesti di pane e vino che circondano il sepolcro di Cristo. La visita ai "sepolcri" delle chiese si protrae fino a notte inoltrata.
«Per i sepolcri la gente più umile di campagna, un mese prima della Pasqua seminava in piccoli vasi, che spesso erano i grandi piatti di terraglia in cui le famiglie mangiavano, il frumento, ma lo faceva germogliare e crescere non alla luce dove, per il processo della fotosintesi clorofilliana, sarebbe diventato verde, ma nel buio di una cassapanca, dove cresceva giallo; e questo (il buio) per simboleggiare la morte e poi la resurrezione. Ma di questo simbolismo le povere donne di allora non sapevano nulla, ma eseguivano quello che avevano visto fare ai loro antenati e in cui credevano ciecamente.» (N. Lupo) |
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Il Santo Sepolcro in una campagna toscana
di Benedetto Radice «(...) La mattina del giovedì, dunque, finita la messa, era un brusìo, un armeggìo di ragazzi e ragazze tutte agghindate, che andavano e venivano, portando su' baroccini, erbe, fiori di campo, borraccina, piante, corbelli e catini stempiati di vecce, venute su al buio in fili lunghi e giallognoli; mentre Lazzaro, aiutato dai due nipotini, che ha con sé, (...) e da altri che s'intendevano di addobbi, si dava un gran da fare per il Sepolcro. E che Sepolcro!
La chiesuola in un momento parve tutta fiorita come un giardino. Una lumiera doppia, ricca di cera, penzolava dalla volta; alle pareti viticci a due o tre bracci, da cui pendevano lunghi festoni d'alloro e di vecce, intrecciati con fiori e nastri. Sull'altare, contornato da un fitto canneto di candele, e trasformato in Calvario, si drizzavano tre enormi croci trasparenti, su cui erano rabescati gl'istrumenti della passione: ai lati dell'altare due saette per le tenebre. Qua e là si alzavano dei fusti d'albero, fasciati di stoppa, che volevan dire cipressi, su cui, da poco, era stato seminato del lino, e già vi si scorgevano dei piccoli cesti di un verde chiuso. Nel mezzo del giardino venne l'estro alla Gegia di metterci in una stia un bel gallo, perchè, come diceva lei, col suo chicchirichì rammentasse la partaccia di S. Pietro! I ragazzi, intanto, ci si spacchiavano a sentirlo, e di nascosto gli buttavan da beccare; i vecchi brontolavano, ma, colla Gegia, quando incocciava, bisognava striderci. Il resto del pavimento era un'aiuola di margheritine, ritine, geranii, violacciocchi, giacinti: un praticello fiorito, da cui esalava un odore acre e misto di primavera, sparso di lucerne e lanternini, gettanti attorno una luce trémula e pallida, e di bicchierini, variamente colorati, che per il lume acceso di dentro, mandavano chiarori rosei, turchini, verdi, gialli. (...) La chiesuola, rallegrata nelle sue ombre e penombre da una festa di luce e di colori, e calda di profumi, sembrava una fantasmagorica stufa da giardino, che inebriava i sensi. La funzione fu breve e semplice, ma di quella semplicità solenne che riempie la mente di Dio. Insieme colle nuvole d'incenso, saliva al cielo un pio sussurro di preci che consolava l'anima e rinverginiva il cuore. Una calma serena si dipingeva su i volti di quei contadini, che nella loro candida fede pregavano il morto Gesù, e un raggio di speranza traluceva dai loro occhi.» Il brano è tratto da un breve racconto di Benedetto Radice, pubblicato il 19 Aprile 1891 su “Cordelia – Giornale per le Giovinette”, (n. 25, Anno X, pagg. 196-197 - Direzione e Amministrazione: Piazza del Duomo, Firenze - Diretto da Ida Baccini). Il Radice in quel periodo insegnava in Toscana e nel suo racconto trasferisce ambientandola nella campagna toscana una tipica tradizione brontese, quella dei Sepolcri del Giovedì Santo. Il racconto è stato ripubblicato ne "Il Radice sconosciuto", edito nel 2008 dall'Associazione Bronte Insieme (vedi pag. 48 dell'edizione digitale del volume, curata dalla stessa Associazione). |