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Gli anni del Ciclope

Bronte allo specchio (1946 - 1950)

La Storia di Bronte, insieme a noi

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Spigolando da Il Ciclope, 60 anni dopo

Bronte d'altri tempi


Ventiduemila scudi pagati per avere la forca allo Scialandro

ma si moriva sempre per mano del boia

Se a qualcuno si domandasse cosa sia lo Scialandro e perché sia così chiamato, certa­mente vi risponderebbe che lo Scialandro è proprio quello spiazzo così pieno d’aria e di quiete, che a guisa di terrazza, aperta e solatia, si protende sulla vasta panoramica, fiorita, sottostante vallata.

Ognuno penserebbe anche, allo allegro e festevole via vai di uomini e donne, verso la periferia del paese, nelle passeggiate domenicali, o nei meriggi estivi e vi direbbe: Lo Scialandro è il luogo ove più ama il brontese recarsi, per sfuggire alla oppressione dell'afa, nella stagione canicolare, o per cercarvi ricreazione allo spirito e riposo al corpo, affaticati dal quotidiano lavoro; lo Scialandro è così chiamato, perchè è il luogo più indicato per “scialare" per divertirsi in quieta e serena giocondità di spirito.

Ma cosa direbbe costui, se sapesse che lo Scialandro prese questo nome dal fatto che ivi, nei tempi lontani, era rizzata la forca, da cui pendevano i condannati a morte, per la giu­stizia di allora? Tempi passati! ma tre, quattro secoli addietro, i brontesi allo Scialandro non per “scialare” vi si recavano, ma per morir per mano del boia! Rilevo le notizie che vi narro dal prezioso volume del Prof. B. Radice sulle memorie storiche di Bronte e fa dispiacere che pochi lo conoscano e l'abbiano letto.

Contemporaneamente alla forca, rizzata allo Scialandro, fu costruito anche il carcere, nel luogo ove è tuttora, ed aveva sette celle ed una cappella. Questa ora, non c'è più e non c'è neppure, una grata in ferro che a quei tempi stava appesa ad una delle finestre del carcere e dentro la quale, ad ammonimento del popolo e ad esempio di terrore, tenevasi esposto il teschio dell'ultimo condannato a morte...
Tuttavia, a quei tempi, sia la forca che il carcere furono una conquista del popolo, dopo anni di vessazioni, ed il popolo giubilò facendo luminarie per le strade, quando acquistò il diritto di amministrar giustizia a mezzo dei propri notabili, diritto che allora, si chiamava «di mero e misto imperio».
Cotal diritto, privilegio del principe, era prima e malamente esercito dal Giustiziere di Randazzo. Costui, invece di rendere giustizia, a mezzo dei suoi ufficiali non faceva altro che perpetrare estorsioni, sevizie, ruberie e violenze di ogni genere.

E' curioso conoscere, come in quei lontani tempi, il giustiziere di Randazzo, anche per semplici inezie mobilitasse i suoi ufficiali per spillar denaro e mettere in catena.

Un tizio, per esempio, veniva condannato perchè aveva macellato un bove senza la pre­senza di un teste; un altro, per aver visto un bandito e non averlo denunciato; un altro ancora, per non aver rivelato la seminagione delle terre; ed un altro infine, per aver tro­vato un pezzo di carne di vacca, nella pentola di un povero diavolo!

Multe e carcere piovevano, come si può ben immaginare, a piacimento degli Ufficiali di giustizia e i condannati, che venivano condotti in ceppi al carcere di Randazzo, per mag­gior ironia, dovevano pagare il pedaggio!

Il diritto di mero e misto imperio, era un privilegio del principe, che veniva esercitato, da chi avesse offerto la maggiore somma al principe per goderne l'esercizio.

Giuseppe Romeo da Randazzo pagò seimila scudi per averlo, ma i brontesi non erano contenti del suo modo di render giustizia, se gli strumenti da lui messi in esercizio, erano : furcas, perticas, palos, curralas et alia!

A tutte queste delizie della giustizia randazzese, nel 1636 si aggiunse una grande carestia che minacciò di affamare Bronte. Il viceré, don Alcisio Moncada, per provvedere a quella carestia e venire in aiuto al paese, mandò in Bronte certo Andrea Di Gregorio, capitano d'armi.

Costui venne accompagnato dagli ufficiali di giustizia di Randazzo, ma essi con le loro maniere arroganti e vessatorie inasprirono piuttosto : che aiutare la popolazione e allora si venne alle parole grosse e dalle parole ai fatti. Il Capitano d'armi brontese incitò il popolo che si sollevò, ed i randazzesi, per aver salva la vita dovettero scappare.

Per il momento conseguenza di tale sommossa fu la condanna di tutto il paese di Bronte per sedizione e lesa maestà; molti furono imprigionati e parecchi furono mandati alla forca, in Randazzo, onde sembrò che le catene si fossero ribadite più che allentate.

Ma Re Filippo che aveva bisogno di denaro, per le necessità della guerra contro i Francesi pensò di rimettere nuovamente all'incanto, al migliore offerente, quel che restava del suo patrimonio.

Così ancora una volta, il diritto «di mero e misto imperio» fu messo all'asta.

Ma questa volta, l'Ospedale grande e nuovi di Palermo, avente anche sede in Bronte, si accaparrò per 22 mila scudi, il diritto di rendere giustizia in nome del principe.

Ciò avvenne, precisamente il 22 maggio 1638 e l'evento fu salutato con luminarie per le strade e gioia tumultuante di popolo. Da allora, sorse la forca allo Scialandro e il carcere in piazza Matrice, con la gabbia contenente il teschio dell'ultimo condannato.

Quanto cammino ha fatto la civiltà, da allora ad oggi! Nessuno lo crederebbe, ma tre quattro secoli fa, il popolo brontese lottò e vinse per avere la forca paesana, rizzata su allo Scialando, offertagli dal miglior offerente, che pagò 22 mila scudi. [CAP.]

(Il Ciclope, anno II, n. 5 (17), domenica 2 Marzo 1947, Direttore Luigi Margaglio Cesare)


Storia curiosa di Bronte

Il Ciclope fondò la Città ma 160 storpi al tempo dei saraceni la ripopolarono

Oggi, son ventimila e più, i cittadini di Bronte, senza contare quelli sparsi pel vasto mondo, pionieri di lavoro fecondo o antesignani di ingegno fervido e poliedrico. Ma quanti furono i Brontesi, alle origini della storia, quand'essa nei lontani secoli cominciò a registrare il lento divenire della nostra città? Non vi era, certo, a quei tempi l'ufficio anagrafe o comunque alcuno che si curasse di accertare il numero dei poveri paria; costretti a vivere in modo rudimentale, in eterna lotta con il vulcano distruttore e con gli altri uomini rapaci.

E come è oscura la origine di Bronte, così incerte sono le prime notizie storiche sulla intensità demografica del paese. Le prime notizie risalgono al tempo dei Saraceni attorno all'anno 998 e poscia le altre al 1501.

Lasciando da parte la leggenda, di cui padre Gesualdo De Luca, nella sua storia di Bronte si fa paladino, per trasformarla in realtà storica, dicendo che il Ciclope Bronte, fu persona vera e reale, Re e fondatore della città omonima e che i Ciclopi non erano altro che raffi­gurazioni plastiche e poetiche delle macchine guerresche in possesso degli antichi bron­tesi, esplodenti proiettili mortali, imitanti il tuono ed il lampo dei fulmini celesti; lasciando dunque da parte la leggenda, le prime testimonianze storiche della vita brontese si trovano nella campagna circostante la attuale cittadina.

E della vita, non eroica o divina, degli umili brontesi di allora, la testimonianza si desume (ironia della storia!) dalle cellette funebri, a foggia di forni, che si trovano tuttora alla Contura, Fontana murata, alla Placa Baiana e a Marchiafava. Dette cellette sono piccole e i cadaveri vi venivano riposti accoccolati, colle mani distese sulle ginocchia. Non era una posizione comoda, se noi pensiamo che ci si doveva rimanere per tutta l'eternità; ma tanto si era morti, ed erano i vivi che si risparmiavano la fatica di scavare un giaciglio più comodo per i trapassati!

In un, con le cellette funebri, le nostre contrade rivelano anche i ruderi delle case di allora. Presso Maniaci vi sono le cosidette grotte dei Saraceni ed altre grotte pure vi sono pres­so Rocca Calanna, che costituivano le antiche abitazioni degli umili pastori.

Più che una storia, scritta dagli nomini, la madre terra, con le tracce delle case e dei sepolcreti, ci ha tramandato il documento più certo della più antica vita dei nostri progenitori.

Ma ciò non risolve l'altro interrogativo che ci siamo posti. Quanti erano i Brontesi?

All'epoca saracena sembra che fossero 1658. La notizia non è certa, ma è desumibile dal codice arabo-siculo dell'Airoldi, citato dal prof. Benedetto Radice. Ciò che è curioso invece è che in detto codice non solo è riportato il numero-dei brontesi, ma anche la qualità di essi. Infatti in detto libro si legge che l'Emiro mandò a Bronte un governatore con sei­cento uomini per ripopolare il paese e centosessanta storpi con mogli, per abitarlo. In tutto come si dice in una lettera, mandata dal Governatore all'Emiro, nel 998 a Bronte, erano 1650 individui di cui 994 musulmani e 664 cristiani.

Invero oggi, a guardare i risultati delle elezioni, ci sarebbe da credere che molti dei mus­sulmani di allora, siansi convertiti! non è così?

Storpi o non, mussulmani o cristiani che fossero, certo è che gli attuali brontesi, debbono un pò di riconoscenza ai Saraceni. Furono essi che introdussero la piantagione del sacro ulivo e furono essi che introdussero a Bronte la coltivazione del pistacchio, che ha tra­sformato le aride sciare in ubertose campagne.

Ma lasciando da parte la dominazione araba, che pur dovette influire sullo sviluppo di Bronte, è certo che Bronte, nella sua edilizia attuale, prescindendo dalle case civili, costruite con certo senso di decoro, risente ancora della irrazionalità costruttiva dei tempi passati.

Bronte era un casale, come tanti altri, come i casali Cutò, Floresta, S. Teodoro, Bolo, Maniaci. Floresta conserva ancora l'appellativo di Casale ed anche S. Teodoro volgar­mente dai Cesaresi è chiamato «il Casale». Il Casale di Bronte, prima dipendeva dal Casale di Maniace.

La leggenda vuole che costrette le varie borgate a riunirsi in Bronte, ogni capo famiglia piantava il suo bastone ferrato sul luogo scelto per la costruzione della sua casa ed ivi, deponendo zappa e vanga, col martello e la cazzuola, pietra su pietra, faceva sorgere il nuovo asilo domestico.

Così ogni casa, addossata l'una all'altra, dietro l'os­satura dell'attuale topografia brontese; così ogni casa venne a costituire «un fuoco», come per indicare il focolare domestico attorno a cui si riunivano i membri della stessa famiglia.

 

Il 1° Gennaio 1947 Il Ciclope si si presenta per la prima volta con una tentativo di stam­pa bicolore (ros­so e blu).

Il quindicinale dopo poco più di sei mesi di vita (portava il nume­ro 13) aveva rag­giunto l'apice della popolarità.

Il tentativo però fu deludente e non fu più ripe­tuto (anche per­chè probabil­men­te  costava troppo).


 

Galleria degli uomini illustri!?!
Questa volta (n. 11 del 1° Dicem­bre 1946) Il Ciclo­pe pren­de di mira l'orolo­giaio del paese:
Giovanni Greco.
La poetica dida­scalia sotto la caricatura così recita:

«Questi è quel Greco, tecnico valente,
armato di pinzette e di occhialino
per scrutare il minuscolo intestino
degli orologi d'ogni suo cliente.
A rimetterli in moto il tempo sceglie
che sia più confacente e più propizio.
Dura da un equinozio ad un solstizio
la cura delle pendole e le sveglie.
Non sta mai dentro. E' sempre indaffarato,
fa l'antiquario, acquista francobolli.
E' giocator di scopa tra i più folli
litiga e vocia più di un avvocato.
Suona il fricorno maestrevolmente;
e alleva cani da far sbalordire:
uno glielo prezzar sei mila lire!
E Gianni aspetta ancora l'acquirente!


 

Galleria dei Dottori!?!
Il medico
Sebastiano De Luca
("don Bastia­nellu"), amava i gatti ed Il Ciclope, delinean­done il fisico e l'ani­mo, non si lascia sfuggire l'occasione. Così lo descrive nel n. 22 del 27 Novembre 1949:

«Il dottor Bastianel? Sì, o porco mondo!
Non lo vedete com'è grasso e tondo?
Egli attende con zelo e con passione
allo esercizio della professione,
ma della gente poi schiva i contatti,
perchè vuol vivere solo coi i gatti.
In casa, di essi n'ha una quindicina
e sapete il lavor d'ogni mattina?
A comprar va pesce poco odoroso
fecataro stantio, e, tutto festoso,
a casa corre, cucina, scodella,
dei gatti empita n'ha la baganella.
Forse perdona la gatta screanzata
ch'al mattin trovar fa qualche .. frittata.
Ma nutre idee del tutto intransigenti,
ver quei gatti impudichi e impertinenti
che, di notte, col miagolio sbuffante
svegliar lo fanno col cuore palpitante.
S'alza talor di botto, e in cazitira
con cautela per ogni stanza gira:
spesso i furbi son sotto il canterano
e allor giù botte col piè e con la mano.
Cosicchè ad ogni gatto sporcaccione
insegna un pò di buona educazione.»


 

Galleria dei commendatori!?!
Paolo Collura,
chi era costui? Sappiamo solo che fu un impiegato della Ducea Nelson, ma ha avuto l'onore d'esser ritratto da Angelo Mazzola che ce ne ha lasciato un ricordo imperituro.

Si meritò anche le solite piacevoli rime:

«Quando a Bronte, tempo addietro
giunse Paolo Collura,
con la moglie e col suo Pietro,
non avea quest'ossatura.
Era magro, l'occhio nero
dallo sguardo malioso,
ora è grasso e più ciarliero
d'un canonico a riposo.
S'è piazzato a Maniace,
beve a secchi latte puro,
a lui il pollo non dispiace,
anche quando... è un poco duro.
La sua fama lì per lì
fece strada in poche ore,
giunse un giorno il gran Balì
e lo fè commendatore»

Considerando i «fuochi» esistenti, nel 1501, fu fatto il primo censimento rudimentale.
A quel tempo Bronte aveva settanta fuochi. Moltiplicando per cinque i vari «fuochi», cioè per la media approssimativa dei membri di essi, si avrebbe una popolazione appros­simativa di 350 abitanti. pochina in verità ma se si considera che allora come ora, nota argutamente il Radice, la popolazione aveva timore che il censimento preludesse all'imposizione di nuovi balzelli, c'è da credere che i brontesi abbiano denunciato un numero di «fuochi» inferiori al vero.

Infatti nel 1548, quando venne ripetuto il censimento sia pur dopo la riunione dei vari casali, i fuochi aumentarono a settecento e la popolazione approssimativamente calcolabile divenne di 3545 abitanti.

Questo fu dunque l'umile nascimento di Bronte: non larghe i diritte vie, ma strade tortuose e ripide, che Giove Pluvio a volte annaffia in modo torrenziale, non palazzi sontuosi o castelli turriti, ma tuguri senz'aria e senza spazio, onde Carlo V aveva ben ragione, allor­quando raccomandando la città al governatore, soleva dire: Commendo tibi tuguria Brontis!

Anche oggi, pochi sono i palazzi e molti sono i tuguri; e le strade, specie nei quartieri popolari, rimangono maleodoranti, con ogni sta­gione, come allora. Non re o guerrieri, eroi o nobili, fondarono la città, ma pastori e contadini; tranne che non si voglia credere, realiz­zando la mitica credenza di P. Gesualdo De Luca, che, che il vero fondatore sia stato lo stesso Ciclope Bronte, operaio celeste, lavora­tore del ferro, artefice di civiltà, dio e re nello stesso tempo, a cui fu padre Nettuno e fratelli gli altri ciclopi Polifemo, Sterope, Piracmon ed Arge, nipote dello stesso Giove.

Nessun popolo, tranne il cinese potrebbe vantare una più alta origine regale e celeste. Ma io penso che la storia e la leggenda non si escludano: l'attuale infaticabile laboriosità del brontese non può derivare che da quella attiva, tenace fattività degli antichi pastori.

Ma il fervido ingegno, la poliedrica genialità dei tanti brontesi che hanno illustrato Bronte, fuor dei suoi confini, è possibile che non abbia radice nella divinità del leggendario suo nascimento? [Cap.]

(Il Ciclope, anno II, n. 7 (19), domenica 13 Aprile 1947, Direttore Luigi Margaglio Cesare)

 
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