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Gli anni del Ciclope

Bronte allo specchio (1946 - 1950)

La Storia di Bronte, insieme a noi

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Spigolando da Il Ciclope, 60 anni dopo

Bronte d'altri tempi


Questo cenno di storia brontese sul "Mero e misto impero" (d'infausta memoria), volutamente reso semplice e popolare dall'autore, è stato pubblicato da Il Ciclope a puntate, in tre numeri successivi firmato dallo pseudonimo "Bigi".  Non sappiamo chi si nascondesse dietro questa firma (probabilmente Giovanni Bonina) ma vi riproponiamo i tre articoli perchè li riteniamo anche molto interessanti dal punto di vista storico locale. Il Ciclope all'epoca era diretto da Nino Neri ed i numeri che li riportano sono il 2, 3 e 4, anno IV, del 16 gennaio, 30 Gennaio e 15 Febbraio 1948.

A Bronte, come scriveva Gesualdo De Luca nel 1883, «il monumento pubblico dell'impero mero misto sorgeva sulla via da Bronte a S. Nicolò più vicino all'abitato. Era una colonna triangolare a pietra e calce, con piedistallo, laterali fasce e coronamento di nera pietra vulcanica. Fu atterrato pochi anni addietro per la nuova strada rotabile». Il luogo tutt'ora e conosciuto con la locuzione "muru mistu". L’amministrazione della giustizia era esercitata da una corte criminale e civile composta da un capitano giustiziere, un giudice criminale e un giudice fiscale.

Sul "mero e misto impero" e sulle tante angherie subite dai contadini brontesi vedi anche cosa scrive in merito il Radice e le lotte contro l'Ospedale Grande e nuovo di Palermo del giureconsulto Antonino Cairone.


Sotto il mero e misto impero di Randazzo

Cosa era questa formula giuridica?

Lo spiego subito. Il mero e misto impero era un jus complessivo, cioè si riferiva alle competizioni civili ed amministrative, ma aveva competenza anche sulle vertenze penali, che erano le più importanti, poichè, secondo il reato, c'erano pene variabili quali l'am­pu­tazione di arti, il braccio, per esempio, che riguardava il furto, le orecchie, il naso; culminava nel jus necis, cioè la condanna a morte.

Questo sommo diritto esercitava il Re, il quale ne era geloso, e lo trasferiva raramente alle autorità feudali del tempo. Ci riferia­mo alla dominazione Aragonese, successa a quella Angioina in Sicilia dopo i vespri.

Re Federico II, aragonese, era stato ottimo monarca. Egli mori il 25 Giugno 1337 presso Paternò, ed è sepolto nella cattedrale di Catania. Regnò per circa 40 anni, e lasciò buona memoria. Istituì erede del trono di Sicilia il primogenito Pietro; il secondo, Guglielmo, creò duca di Atene e di Neopatra, il terzo, Giovanni, ancora in minore età, fece marchese di Randazzo, titolo nuovo, che era superiore a quello di duca, di barone, di conte.

Al figlio, neo marchese, naturalmente per prestigio, assegnò il diritto del mero e misto impero, su Bronte, allora piccolo e modesto casale, su Maniace, Castiglione, Francavilla, Montalbano e Troina.

Per Bronte fu estrema iattura, poichè cessò il marchesato colla estinzione degli Arago­nesi, anzi colla sostituzione di altre dominazioni straniere, ma il jus rimase e si perpe­tuò a favore dei Randazzesi, per parecchi secoli, con accento dispotico. Gli ufficiali di Randazzo che erano, diciamo così, di schiatta nobile, trattavano i poveri abitatori dei casali, che in prevalenza erano lavoratori della terra, come schiavi.

Mossi da ingorda speculazione proibivano di esportare nei comuni e città vicine il fru­mento prodotto, obbligandoli a venderlo localmente o a Randazzo a prezzo basso e ciò quando, con violenza non lo pigliavano, senza pagarlo affatto. Violando privilegi, quali quelli che aveva l'Abbazia di Maniace, facevano imprigionare e condannare abusiva­men­te i naturali ed i vassalli.

Bronte intanto, dopo la riunione dei casali, avvenuta verso il 1535, aveva assunto mag­giore importanza, e mal tollerava gli abusi dei Randazzesi, che le facevano da padroni assoluti. I sindaci del tempo reclamavano contro le vessazioni, che era costretta subire la popo­lazione da loro amministrata. Oltremodo commovente è una assemblea popolare tenuta il 3 settembre 1595, a suon di campana, nella pubblica piazza, cioè nei pressi della Matrice, con l'intervento di 105 capi di famiglia.

La detta assemblea deliberava di chiedere alla città di Randazzo la prova documentata, legale, di questa sua signoria su Bronte, e le si accordava dodici giorni di tempo.

Furono nominati, seduta stante, cinque rappresentanti, con ampia facoltà di far ricorsi, ed occorrendo, la lite contro Randazzo. Volontariamente, per li spisi, si assoggetta­vano ad una nuova imposta.

Al numero successivo la storia susseguente e l'epilogo tragico di questa triste vicenda paesana. [Bigi]

(Il Ciclope - Anno IV, n. 2, Domenica 16 Gennaio 1949)

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Come abbiamo scritto, dopo l'adunanza popolare del 3 Settembre 1595, gli eletti: Notar Santoro Pascia, Cosimo di Pace e don Bastiano Longhitano, trascorsi i dodici giorni perentori, perchè Randazzo dimostrasse il suo diritto su Bronte, iniziarono la lite davanti la cosiddetta Gran Corte. Il libellus pro iuratis terrae Brontis fu presentato il 15 Maggio 1596.

Ma mentre il giudizio per la libertà della terra si trascinava, e ai brontesi costava non meno di onze centottanta all’anno, ricavate dalla nuova imposta di tarì tre per ogni salma di frumento macinato, avvenne qualche cosa che può sembrare strana cioè: un intrallazzo regio.

Proprio Re Filippo IV di Spagna, sotto il cui dominio trovavasi la Sicilia, stretto dal bisogno, per la guerra che faceva contro la Francia, nel 1629 ordinava vendersi tutti i beni del Real Patrimonio e i di ritti di spettanza regia, tra i quali era compresa la giurisdizione civile e criminale, cioè il così detto mero e misto impero.

Randazzo, che sapeva di non potere sostenere il suo diritto di dominio su Bronte, il quale quando fu concesso dal Re Aragonese, era ad personam, cioè al suo figliolo Giovanni creato marchese di Randazzo, si affrettò, per consolidare il suo dominio, ad offrire seimila scudi che non aveva, e pertanto chiese di soggiogare il patrimonio del comune alla fabbriceria della parrocchia di S. Maria, il che non le fu permesso da certe bolle apostoliche.

Questa somma però ebbe lo stesso, da certo Giuseppe Romeo, ed il mero misto impero fu consolidato, ed il minuscolo comune di Bronte continuò il suo servaggio. Ma... Bronte aveva un altro padrone: l'ospedale grande e nuovo di Palermo, successo alla abbazia di Maniace.

I Rettori, che vedevano sfuggire l'occasione di consolidare il loro dominio offrirono al Re, che vendeva all'incanto, quattordici mila scudi. Il vicerè si riservò di provvedere sulla novella offerta. Naturalmente si oppose Randazzo ed i suoi ufficiali, più forti ed arroganti, continuarono nell'esercizio delle angherie. Queste le condizioni della popola­zione di Bronte, ed appunto, essendosi resa difficile e pericolosa la dimora, parecchi emigrarono.

E siamo al 1616. Fu questa, annata di grave carestia e grande era il disagio dei Bron­tesi, per cui più di una supplica fu diretta al vicerè Moncada, che risiedeva a Messina, per i provve­dimenti del caso.

Questi mandò a Bronte un tale Andrea Di Gregorio, il quale vi giunse il 6 Aprile col se­guito degli ufficiali di Randazzo. La presenza di costoro, anzi le loro maniere arroganti, inasprirono il popolo. Capitano d'armi di Bronte era Matteo Pace, il quale, senza dub­bio, come si dice, doveva avere del fegato. Non tollerò l'arroganza randazzese, rispose per le rime, e non ci pensò due volte a ricorrere ai fatti. E furono botte da orbi. Certo si è che gli ufficiali randazzesi, vistisi a mal partito, insaccarono e scapparono, per evi­tare la peggio.

Il nostro Matteo Pace, preso dall’entusiasmo, messosi a cavallo, corse il paese, inci­tando il popolo a sollevarsi, gridando: vadano via i cattivi governatori, viva il Re di Francia. Non si dimentichi, che, in quel tempo Spagna e Francia erano in guerra, quindi il grido di Matteo era aperta acquiescenza al nemico del nostro dominatore spagnolo. E mal gliene venne.

Ristabilitasi la calma, la Corte dichiarava il paese di Bronte reo di lesa maestà. Molti furono, gli arrestati e tradotti a Messina per il giudizio. Il Capitano d'armi di Bronte, cioè Matteo Pace, per ragione della carica che occupava fu condannato ad avere tron­cata la testa; un altro, Luigi Terranova alla forca. Molti ebbero condanne a tempo più o meno, lungo.

Questo l'epilogo della triste vicenda paesana. Diremo in seguito quando e come cessò il dominio assoluto di Randazzo.
Io credo, che si potrebbe ricordare l'epilogo, o meglio onorare la memoria di questo nostro modesto Caracciolo che lasciò la testa sul patibolo per la libertà di Bronte, dan­do il suo nome ad una delle tante nuove strade, che si aprono per l'espandersi dell'abi­tato. [Bigi]

(Il Ciclope - Anno IV, n. 3 Domenica 30 Gennaio 1949)

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Le condizioni del piccolo comune di Bronte alla dipendenza degli ufficiali di Randaz­zo, dopo la insurrezione del sei aprile 1636 e la condanna capitale del capitano d'armi Matteo Pace, non erano certamente migliorate.

Anzi… il paese era sotto la grave imputazione di lesa maestà. Erano state confiscate tutte le armi e tradotte a Randazzo, e si viveva una vita abbastanza grama, special­mente sotto l'imperversare della carestia ed il dominio randazzese che era divenuto insopportabile, per la riconferma ottenuta, dopo il pagamento dei seimila scudi. Ricordiamo, intanto, che il vicerè Moncada erasi riservato di provvedere, in seguito alla offerta più vantaggiosa, fatta dallo Ospedale Grande e Nuovo di Palermo. Di conse­guenza l'asta, chiamiamola così, praticamente non aveva avuto una chiusura definitiva.

Intanto i bisogni di re Filippo per la guerra contro la Francia aumentavano, e verso la fine del ’36 fu ordinato di rivendere all'incanto le prerogative regie. I brontesi accolsero con animo aperto alla speranza la fausta occasione per liberarsi dalle continue vessa­zioni. Quindi nuova assemblea popolare, e pubblico consiglio, per prendere a mutuo quindici mila scudi, da offrire al governo per la compra del mero misto impero e per ottenere la grazia del tumulto del sei aprile.

Ma nessuno in Bronte era nelle condizioni di sborsare questa somma, nè fuori, per le mene dei pii rettori dello Ospedale, si trovò credito. Bronte di conseguenza fu costret­to dalla necessità, di ricorrere all'ospedale, sperando così maggior sollievo ai suoi mali. E siccome volle contribuire per la metà, novemila scudi li trovò in prestito, al tenue inte­resse del nove per cento, presso tale Marco Antonio Paganetti, che altro non era, se non il prestanome dell'ospedale, che in realtà metteva a disposizione la somma richiesta.

Ed il mero misto impero fu comprato, in società s'intende coi pii rettori, ai quali era riservata la nomina definitiva dei giurati, giudice e capitano su d'una lista che produ­cevano annualmente i brontesi. Questo fu l’unico vantaggio acquisito; fu escluso il dominio randazzese, ma non si ebbe l'indipendenza assoluta, poichè rimase sempre l'intervento assoluto dello ospedale, che non era affatto piacevole, e che durò ancora per parecchi secoli.

Per concludere, questo servaggio lo voleva confermato il duca di Bronte nel 1802, quan­do si ebbe dal re Borbone il grazioso donativo del territorio brontese. Vi si oppose il Sindaco di allora: Nicolò Dinaro.

Il Prof. Benedetto Radice, sulla cui opera abbiamo attinto nomi e date, chiude questo mirabile capitolo di storia brontese esclamando: «Nè cogli Ufficiali di Randazzo, nè coi Rettori dell'Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, nè col Duca Nelson, Bronte ha avuto mai pace».

(Il Ciclope - Anno IV, n. 4 Domenica 15 Febbraio 1949)



Il Casino dei Civili

Colore paesano

   

Galleria dei chimici!?!

Un giovane chimico, ap­pena laureato, atten­de il gran momento del "posticino":  il dott. NUNZIO PONZO. Ecco l'usuale simpatica didascalia:

«Scuro il viso ha, come il bronzo,
come l'ebano i capelli,
il dottore Nunzio Ponzo,
detto il... re dei gagarelli.
Lui si nutre d'eleganza,
ha cravatte a profusione,
non fa grinza o discrepanza
la sua giacca o il suo calzone.
Alla linea del vestito
Ponzo accoppia pur lo stile
del parlare suo forbito;
che lo rende più gentile.
Come chimico è un talento,
ed ei cerca un posticino,
mentre attende il gran momento...
gioca a scacchi ed a ramino»


 

Galleria degli Italo-americani!?!

FERDINANDO MARGAGLIO
detto Flerì, "con trip­petta e boccodaglio":

«Venne bimbo dall'America
fu lasciato con le zie,
l'epa sua divenne sferica
nelle plaghe solatie,
Fatto adulto e coi baffoni,
ritornò a varcare il mare,
fumò "Camel" a milioni,
bevve latte da scoppiare.
Masticando cewin-gum,
l'avvinghiò la nostalgia
di gustare i babà al rhum...
e rifè la vecchia via...
Ora è a Bronte, eccolo quì,
con trippetta e "boccodaglio"
Ferdinando oppur Frerì,
il simpatico Margaglio»

 
 

Galleria degli industriosi!?!?!
Non potevano mancare nella Galleria de Il Ciclo­pe gli "indu­striosi" ed uno di loro è sicura­mente TURI SANFILIPPO, ex botte­gaio, barista e ristora­tore in piazza Spedalieri.

Le rime baciate di Margaglio lo descrivono in maniera perfetta:

«Nera corvina ha la ricciuta chioma
nero il suo occhio, nero il suo mantello,
catanese mi sembra al suo idioma,
ma nel complesso mi ricorda... Otello.
Dietro il suo banco nel moderno bar,
attorniato dalla prole gaia,
sembra il sultano del Madagascar,
o, quanto meno, quello d'Himalaja.
Ha gran tenacia, spirito e ardire,
dei danni della guerra s'è rifatto.
A Turi Sanfilippo si può dire:
Puoi essere contento e soddisfatto!»


 

Galleria degli sportivi!?!?!
Ed anche uno sportivo, il terzino della gloriosa squadra locale (parliamo naturalmente degli anni de Il Ciclope) ha l'onore di figurare in Galleria:
NINO CIMBALI.

«Solenne sopra il collo taurino
s'erge la nera chioma riccioluta,
ironico gli affiora un sorrisino
di sopra alla mascella risoluta.
E' questo in due parole il nostro Nino
da tutti applaudito in ogni agone,
potente calciator come terzino
della squadra brontese campione.
Lo si richiede a destra oppure a manca
lui gioca con fervore, con talento
la maglia rossa, azzurra, nera o bianca
...non conta, segna il goal ed è contento»


 

Galleria degli esattori!?!?!
Il cav. SMERGANI, l'esattore che "colla dolce melliflua sua parola consolava i contribuenti brontesi:

«Tra gli insigni uomini, nostri paesani,
Notar non deesi il cavalier Smergani?
Perdio!... Si. I merti suoi e le sue virtù
D'esempio sian alla nostra gioventù!
Marescial fu decorato al valore
Or da tanti lustri è nostro esattore.
L'afflitto contribuente egli consola
Colla dolce, melliflua sua parola.
Spunta ogni due mesi dal suo gaio viso
Tal un enigmatico sorriso
Da invogliare tutti a correre in massa
Lieti e contenti per pagar la tassa.»

Erano altri tempi, quelli! Il Casino dei civili non vi era, o, se c'era, non aveva soppian­tato vecchi ritrovi, e la sera la farmacia Cannata costituiva ancora il centro della vita politica e del pettegolezzo cittadino. Il farmacista, buona pasta d'uomo e ridanciano distribuiva pasticche alla menta e foglietti ai suoi clienti abituali.

Nel pomeriggio inoltrato attivava puntual­mente Don Arcangelo Spedalieri e, dopo aver dato una occhiata di santa venerazione ai ritratti dei suoi due illustri antenati, ch'erano esposti in vetrina assieme alle pomate medicamentose e ai cerotti, s'accomodava a fumare il suo mezzo toscano. Man mano il crocchio si formava: veniva il notaro Cimbali, qualcuno dei Mustafà, Don Nunzio Possia; il personaggio più caratteristico, don Nunzio Calanna, arrivava sempre per ultimo; faceva la sua prima tappa dal caffettiere e poi, bighellonando, se ne veniva alla farmacia.

«Benedicite, signuri mei!» e si accomodava offrendo a tutti una manciata di ceci ab­bru­stoliti, dicendo a ciascuno la sua, sputacchiando di quà e di là. Faceva il patroci­natore legale a tempo perso, e faceva pure la spesa della comitiva.

Erano i tempi in cui le elezioni comunali costituivano, assieme alle beghe paesane, l'ar­go­mento del giorno. Questo era il circolo dei vecchi, dei ben pensanti; i giovani, gio­vani di 20 e di 30 anni, si riunivano invece nella farmacia Zappia, e le storielle di amori salaci o di espedienti ingegnosi, erano ammannite con saggia moderazione da don Cataldo Fortino, loro decano, grande amatore del ventre e di altre cose.

Il Casino dei civili accolse più tardi, con le mutate esigenze, un maggiore numero di ospiti, e nell'ambiente più vasto i pettegolezzi e le punzecchiature si stemperavano in interminabili partite alla briscola o a tre sette. Don Peppino Ciraldo tra un moccolo e l'altro perdeva la sua pazienza ed il suo compa­gno di partita s'accaniva ancora do più, «’u zio Pio» dopo essersi abbondantemente insalivate le dita distribuiva le carte ammiccando furbescamente.

E noi giovani apprendemmo le prime regole di chitarrella da don Luigi Cimbali. «In dupis cupis» sentenziava don Lorenzo, ma se ne andava lo stesso in bestia, e gli «scracchi» di don Luigi Radice, che ricoprivano una mattonella e mezza, erano la disperazione del povero inserviente che ci sudava sopra sette camicie a lavarle. Prima di sera, col bastone a bilanc’arm arrivava il dottor Interdonato, lunghi passi, grossa pipa, le sue attività andavano dal regolare la radio, ad aggiustare l'orologio, a ricaricare la pipa.

Altri tempi... Poi la vita prese un ritmo sempre più vertiginoso: venne il giorno in cui il Casino fu venduto per una lira, vennero le bombe, scomparve il Casino (a destra in una foto del 1945, NdR), scomparvero pure i tacchini di don Bastianello, che goglottavano lassù dal balconcino dell'ultimo piano.

Oggi, quelle comitive, quei crocchi, così come li si intendevano prima, sono scom­parsi o si sono talmente allargati da confondersi. Qualcuno ne sopravvive ancora, ma non ha più le vecchie caratteristiche. Ve n'è uno, ad esempio; in piazza Rosario, in cui ogni sera i «Bindozzo» aggiustano il mondo e la sera dopo lo disfanno.

Ve n'è un altro… ma questo funziona soltanto ventiquattrore la settimana: dalla sera del sabato a quella della domenica. Io credo che la sera del sabato, di ritorno da Cata­nia, il dottor Pecorino, prima ancora di andare a casa, vada nel negozio di don Filippo Scagghitta, e così si apre il circolo.

La sua attività più intensa la raggiunge, però, nel pomeriggio della domenica. Seduti su i due banconi, passano in rassegna gli avvenimenti della settimana: il dottor Pecorino sfotte, don Filippo brontola, il prof. Battiato declama, Renato critica e il pomeriggio passa. Poi viene la sera e si va a pigliare il fresco allo Scialandro. Un’altra giornata è passata. [Alma]

[Il Ciclope, Numero unico, Domenica 3 Agosto 1947, Direttore Giuseppe Bonina]



'A scinduta ru Passu Poccu

Le nostre strade e come sorgevano

Discesa Matrice

Tempi belli, per il nostro paese, erano quelli in cui liberi e con tanto di autorizzazione, i porci circolavano par le strade del centro abitato! Belli, non certamente per questo fatto in sé. Perchè il ricordo di porci che scherzano, (quando scherzano) con i bambini o che, dormono in comune con i padroni, fa pensare a qualche cosa più di sudicio cha di desiderabile.

Ma belli erano perché bastava cha si rinvenisse uno dagli animali in argomento, il cui padrone fossa irreperibile, per ultimare un'opera pubblica. Così infatti è stata basolata la discesa matrice. Un porco sfuggito all'occhio vigile del padrone, inseguito da ragazzi. correva per la via accidentata che porta alla Matrice e, per una caduta ci rimise una gamba.

Corsero allora le guardie (che allora correvano) e lo portarono al Municipio in attesa che il padrone si facesse vivo. Ma questo non venne, temendo forse qualche contravvenzione. Si pensò allora di macellarlo e venderne le carni. E così fu fatto.

Con l'incasso è stata aggiustata quella strada in cui fu trovata la vittima, per evitare, forse, che altri simili incidenti potessero capitare agli innocenti animali.

Per la sua origine a per il fatto cha da allora quella strada fu molto frequentata dai porci i quali, forse, su ogni pietra sentivano odor di sé stessi, la Discesa Matrice passò alla storia intima paesana col nome di «scinduta ru passu poccu». Oggi, porci con quattro piedi, in paese non se ne vedono più. Ciò nonostante, certi lavori si fanno lo stesso. Ma ce ne sono altri, di cui non è il caso di riparlare, i quali sembra non saranno allestiti se non col ritorno dei maiali per le strade. [Acerbo]

[Il Ciclope, Numero unico, Domenica 3 Agosto 1947, Direttore Giuseppe Bonina]



Croce Tirinnanna

MERAVIGLIE PAESANE

Una base di pietra lavica, una piccola icona ed in alto una croce. Ecco il caratteristico «monumen­to» che dà il popolare nome alla piazza. Questa sembra il cocuzzolo di un monte, cannoneggiato da fresco.

Quà un fosso, là un monticello, là ancora un ondulato frastaglia­mento. Per dare alla piazza un senso di estetica modernità, il Comune di Bronte, innalzò in «illo tempore» una rossa fontanella.
Attorno ad essa, si stringono e fingono di azzuffarsi le donne ed i bimbi del rione. Io credo che in fondo, gli uomini non siano cattivi, se fingono lotte cruente, solo per far credere agli uomini degli altri rioni che loro l'acqua ce l'hanno, e pure (e quà il sentimento diventa veramente nobile) per dare l'illusione, alla povera fontanella, che ancora, dalle sue vecchie vene, scorre il sangue che disseta.

Le case, panciute e contorte, ricche di ballatoi, fanno da meravigliosa cornice a questa piazza. Sulle finestre assolate spiccano il basilico, il garofano e l'immancabile furbo sorriso di simpatiche signorinelle.

Croce Tirinnanna battè il fecord delle simpatiche furfanterie con «Peppino Chiavone».

La gloria le sorride, perchè Patria benigna ed ospitante del violinista Felice. In un salone che le sorride in centro diede le prime forbiciate Ballacira. Strozzata in alto a destra dalle robuste braccia del massiccio Longhitano, a sinistra dal non muscoloso Pippo Meli Cirino, scende lieta ed ampia, verso via Battaglia, dove sembra inchinarsi riverente agli austeri palagi dei Bindozzi, che da un secolo vi regnano incontrastati. [Aenne]

[Il Ciclope, numero unico, Sabato 27 Settembre 1947, direttore Giuseppe Bonina] 

 

Galleria degli avvocati!?!

Non sfugge all'occhio attento del Ciclope (n. 16 dell'8 Agosto 1948) ed alla penna di Angelo Mazzola l'avv. Armando Radice, che aveva lasciato "il nido che gli diè i natali" ma vi era ritornato in vacanza.
L'esordio del neo avvocato era avvenuto nella Pretu­ra di Bronte il 15 luglio 1947. La dedica poetica che accompagna la caricatura (a destra nel riquadro) è senz'altro di Luigi Margaglio:

«Da piccolo faceva disperare,
giocando a tirar sassi coi fanciulli,
conobbe spesso il verbo "marinare",
sinonimo di svaghi e di trastulli.

Poi crebbe la sua zazzera, cogli anni,
sul bel nasino vi impiantò gli occhiali
ed un bel giorno salutò Giovanni,
lasciando il nido che gli diè i natali.
L'accolse Milazzotto dal cuor d'oro
il vecchio amico nella gran Milano,

Poscia Degli Occhi, il principe del foro,
viste le sue virtù gli diè una mano.
Or è in vacanza, serio e compito,
la larga fronte scevra di pensieri,
e il buon Giovanni tutto intenerito
lo guarda muto e pensa"sembra ieri!"»

Leggiamo in un articolo del GiornaleTrentino.it (I Radice: dalla Sicilia con amore per legge cultura e calcio) che Arman­do «pena­lista, raggiunge nell’immediato dopoguerra Milano e sfonda subito nel famosissimo processo contro Rina Fort, donna colpevole anche per la Cassazione di aver ucciso la moglie del suo amante e i suoi tre figli. L’ardente requisitoria sarà il cuore delle cronache di Dino Buzzati sul Corriere della Sera.
La sua fama di penalista lo introduce nei salotti bene di Milano venendo scelto come legale, tra gli altri, dai conti Agusta, da Vitto­rio Emanuele e dall’editore Andrea Rizzoli, il figlio di “nonno” Ange­lo, presidente del Milan. Grande appassionato d’arte, Arman­do Radice è il legale della squadra di calcio ma anche un tifoso che vede lontano. Infatti, è lui che va in Brasile ad acquistare Josè Altafini, il centravanti di future grandi stagioni, è lui che coccola il neoacquisto Gianni Rivera, il mediano Giovanni Trapattoni, ammira Nils Liedholm e Dino Sani.»

Armando Radice (Bronte 1923 - Milano 2007), noto penalista del Foro milanese e legale del Milan, era fratello di Antonino, storico, autore di "Risorgi­mento perduto", e nipote di Benedetto Radice.
In un numero prece­dente (n. 3 del 1° Feb­braio 1948), il Ciclope con un trafiletto dal titolo Bron­tesi a Mi­lano aveva riportato la notizia del debutto dell'Avv. Radice:
«Alle Assise di Milano ha debuttato con suc­ces­so il nostro amico dott. Armando Radi­ce. Il gio­vane avvo­ca­to è stato poi festeg­giato in casa Mi­laz­zotto (Bep­pe Milaz­zotto, foto a destra), che è il cenacolo dei bron­tesi residenti a Milano. Ad Armando i nostri mi­gliori auguri e a Giu­seppe Milazzotto e compa­gni tanti saluti.»
Del «grande Beppe Milazzotto», «il calzolaio che a Milano rappresentava il centro d’accoglienza di tutti i brontesi che, per i più svariati motivi, si trovavano lì senza altri punti di attinenza» scrive anche Sam Di Bella nel suo "Strano Diario".

 

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