I MOTI RIVOLUZIONARI BRONTESI

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Cenni storici sulla Città di Bronte

LA RIVOLTA CONTRO IL MERO E MISTO IMPERO

Nè con gli ufficiali di Randazzo, nè coi rettori dell’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, nè col duca Nelson
Bronte ha avuto mai pace

Matteo Pace e Luigi Terranova, due sconosciuti patrioti brontesi

Il tumulto del 1636

Matteo Pace e Luigi Terranova condannati a morte, altri condannati a vita alle galere, altri a tempo, tutti ad esssere frustati su muli e portati per berlina in giro per la città

F. Liardo, Manifestazione di patriotiFino alla prima metà del 1600 Bronte per il diritto di mero e misto impero (la giurisdizione civile e criminale, Merum imperium, significa il puro, il sommo, il più elevato fra tutti i diritti che esercitava il re, cioè il jus necis) era soggetto alla giurisdizione della Città di Randazzo.

Questo famoso diritto, così caro a questa città, non aveva avuto altra origine che l’ignoranza e l’anarchia dei tempi, quando città e baroni, pescando nel torbido, agognavano farsi più grandi e indipendenti dal re ed era stato un re, Carlo V, nella sosta che fece a Randazzo nel 1535 reduce dalla spedizione di Tunisi, ad avvalorarlo ancora di più ordinando che agli abitanti dei vari casali di riunirsi tutti nel casale Bronte, sotto pena di avere bruciate le loro case e capanne per togliere le cause di continue discordie tra le borgate o, meglio, per potere la città con più agevolezza e meno fatica esercitare i diritti di mero e misto impero.

Ed i suoi ufficiali lo esercitavano nel migliore dei modi; continuarono per secoli nel loro esercizio di mungere i Brontesi, impotenti, a causa della divisione in varie masse, a frenarne l’ingordigia.

Gli strumenti per mettere in esercizio questo dritto di mero e misto impero erano: furcas, perticas, palos, currulas et alia e gli ufficiali – ci ricorda lo storico Benedetto Radice - «potevano condannare, multare, fusti­gare, legare, mettere alla berlina pubblica, ad vilipendium pubblicum; amputare mani, orecchi e nasi; troncare membri, appen­dere alle forche, deportare, confiscare i beni dei condannati; avere facoltà di giudicare di ogni genere di delitti, compresa la bestemmia, fino alla morte; e tutte le cause civili di alta e bassa giurisdizione; innalzare forche, pertiche, pali; adoperare currulas e altri strumenti di tortura, invocando sempre, a giustificazione di simili delizie, prammatiche, capitoli del regno, costituzioni…»

Tutto questo li fece padroni della vita e degli averi dei cittadini. Parecchie famiglie facoltose, non potendo più sopportare le loro estorsioni, furono costrette ad abbandonare il luogo natio. Natural­mente pagando perchè allora il territorio e gli stesi brontesi appartenevano ai pii rettori dell'Ospedale Grande e Nuovo di Palermo ed era vietato anche lasciare Bronte ed emigrare, per non togliere braccia utili nel lavorare la loro terra.

Benedetto Radice nelle sue Memorie storiche di Bronte, scrive di un tumulto - oggi si direbbe una manifestazione di piazza - scoppiato a Bronte il 6 aprile 1636 contro le angherie, i soprusi, gli illeciti e le estorsioni degli ufficiali di Randazzo, «un ufficio da banditi con la garenzia dell’immunità e la protezione delle prammatiche e dei capitoli del regno, più pericoloso di quello dei banditi di mestiere.»

Correva l'anno 1636 e, come sovente avveniva, una grande carestia affamava Bronte. «Il governo degli Spagnoli, o meglio il loro sgoverno, impoveriva vieppiù l’Isola per via delle guerre. Il malcontento cresceva e doveva più tardi scoppiare a Palermo con l’Alessi nel 1647 e nel 1672 a Messina. Il vicerè don Aloisio Moncada per provvedere a quella carestia, e venire in aiuto al paese, vi mandò certo don Andrea di Gregorio, capitano d’armi, destinato pure dalla Deputazione del regno per il nuovo censimento e dal Real Patrimonio per la provvigione di frumento.
Giunse in Bronte il Di Gregorio con gli ufficiali di Randazzo il 6 di aprile. La presenza di questi, le loro maniere arroganti inasprirono il popolo. Ad un tratto ufficiali randazzesi e brontesi vennero a parole, e da queste alle armi. Il capitano d’armi di Bronte, Matteo Pace, messosi a cavallo, corse il paese, inci­tando il popolo a sollevarsi gridando: Vadano via i cattivi governatori, viva il re di Francia.
Regnava allora Luigi XIII. Il popolo si levò a rumore, e fu un fuggi fuggi. Gli ufficiali di Randazzo si diedero alla fuga.»

Sedato il primo impeto di rabbia, con la fuga degli ufficiali tutto a Bronte tornò tranquillo, nella solita quiete. Ma «la Corte, avuto sentore di quella sedizione, scoppiata all’improvviso, ma fomentata per lunghi anni dalle sevizie intollerabili degli ufficiali di Randazzo, vi mandò dei giudici per inquisire. […]»
«Un bando dichiarava il paese reo di lesa maestà, e ordinava ai presenti, che non presero parte al tumulto di denunziare sotto pena di morte gli autori. Molti furono gli arrestati e condotti in Messina. Timidi i testimoni e pochissimi. Non trovate valide le difese, fu il paese condannato per sedizione e per lesa maestà; tolte ai cittadini le armi e portate in Randazzo.
Il capitano Matteo De Pace e Luigi Terranova condannati a morte. Il Pace, non come nobile, ma per ragione della carica ad avere troncata la testa, il Terranova alle forche. Furono portati sul carro al patibolo. Gli altri correi, alcuni condannati a vita alle galere, altri a tempo, tutti ad essere frustati su muli e portati per berlina in giro per la città.
La sentenza fu eseguita in Messina nel 16 gennaio 1637; ove allora risiedeva il vicerè e la Corte: essa è ricca di arzigogoli e di citazioni del Baiardi, del Farinaccio e Pietro Di Gregorio.»

«Si potrebbe ricordare l'epilogo, - scriveva il quindicinale Il Ciclope nel 1948 - o meglio onorare la memoria di questo nostro modesto Carac­ciolo che lasciò la testa sul patibolo per la libertà di Bronte, dando il suo nome ad una delle tante nuove strade, che si aprono per l'espandersi dell'abitato».

Ma non se ne fece nulla ne allora ne in seguito. Nessuna targa ricorda Matteo Pace, nessuna strada è stata a lui dedicata, eppure a Bronte abbondano nella toponomastica i nomi più strani e fantasiosi (anche di persone che nulla hanno fatto o dato alla loro città per meritare tanto). Ma Bronte non ama onorare i suoi figli migliori.

Ma torniamo al 1636.

Per comprare il diritto di mero e misto impero e liberarsi dalla servitù della città di Randazzo i Brontesi s’indebitarono fino al collo.

Un anno prima, nel 1636, «nuovi pressanti bisogni di denaro premevano il re Filippo per l’invasione di Milano da parte dei Francesi, e con lettere viceregie del 26 e 27 agosto, date in Madrid, ordinava vendersi, per non dire rivendere, all’incanto ai maggiori offerenti quel che restava del Real Patrimonio: jus luendi, tonnare, terre con titoli di baroni, e il dritto del mero e misto impero. Accolsero i Brontesi, con animo aperto alla speranza, la fausta occasione per liberarsi dalle continue vessazioni.»

Il 26 luglio ed il 13 ottobre 1637 si riunirono in pubblica adunanza nella Chiesa di S. Sebastiano per stabilire di «prendere a mutuo quattordicimila scudi e offrirli al governo di sua maestà; diecimila per la compra del mero e misto impero, e 4 mila per ottenere la grazia del tumulto del 6 aprile 1636.»
Ma i «pii» rettori (così ironicamente li definisce il Radice) dell'Ospe­dale Grande e Nuovo di Palermo (al quale apparteneva Bronte) macchinarono tanto perché «il Comune non avesse credito per trovar denaro, e comprarono essi a nome dell’Ospedale questo sovrano dritto.»

Sappiamo che in quell'anno la popolazione brontese era composta da circa 9.000 abitanti; nel 1632, infatti, esistevano 1834 case con 6.115 abitanti mentre sette anni dopo, nel censimento del 1639, risultano essere 9.138 (3.968 maschi e 5.170 femmine).

Non certo un gran numero ma ciononostante i brontesi per liberarsi da quel pesante gioco contribuirono con nove mila scudi, presi a prestito con gl’interessi al nove per cento dallo stesso Ospedale.

Il 22 maggio 1638, pagarono il Re ed acquistarono il diritto (illusorio, per il Radice) di nominare gli ufficiali preposti alla giurisdi­zione civile e criminale su Bronte.

La forca, l’infame simbolo del dritto del mero e misto impero, fu innalzata all’entrata del paese, allo Scialandro.

Subito dopo aver ricevuto la somma «il 27 maggio dello stesso anno 1638 - continua B. Radice - il vicerè, duca di Montalto, conce­deva ai Brontesi la grazia del tumulto. Ad istanza dei giurati e dei rettori accordava agli esiliati il ritorno in Patria.»

«Fu data libertà ai carcerati. Il popolo tutto, che era stato multato per sedizione e per lesa maestà, fu amnistiato: Indultatus et ag­gra­tiatus; gli furono restituite le armi confiscate, che avevano in custodia gli ufficiali di Randazzo e don Carlo Romeo; gli fu conces­so godere della refugis domus per debiti civili.

Fu ordinato annullarsi gl’inventarii dei beni dei perseguitati, e con bando pubblico annun­ziata al popolo la cessazione della giurisdi­zione civile e criminale degli ufficiali di Randazzo su Bronte.

Fu festa e luminarie. Ebbe così il paese il triste spettacolo di vedere allo Scialandro innalzata la forca, segno del mero e misto impero.
Di questo dritto, del quale godeva l’Università di Bronte, nel 1802 tentò spogliarlo il duca Nelson eleggendo in Catania una corte superiore con manifesto danno della popolazione brontese.

Contro tale attentato insorse il sindaco Nicolò Dinaro il 15 luglio 1802.

Nè con gli ufficiali di Randazzo, nè coi rettori dell’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, nè col duca Nelson Bronte ha avuto mai pace.»

Tre secoli dopo, nel 1799, Ferdinando III di Borbone, non tenendo conto di nulla, regalò all'Ammiraglio Nelson oltre alle terre di Maniace anche il diritto di mero e misto impero, beffando i brontesi e costringendoli ancora una volta a continuare, questa volta contro i Nelson, la secolare serie di cause (la grande lite).
  

"... Dalle forze paesane più vive, economicamente ed in­tel­let­tualmente, erano partiti i più pressanti incitamenti ai contadini alle rivolte del 1820, del 1848 ed infine a quella più grave del 1860; rivolte concretizzatesi in pratica in una serie di continui assalti all'ultimo vessillo della feu­da­lità, la Du­cea, alla cui esi­stenza si adde­bita­vano, oltre lo stato di estre­mo disagio della maggior parte della popo­lazione, le palesi e drammatiche di­sfunzioni nella distribuzione della proprietà fondiaria.

Alla comunità brontese non restava che una sola spe­ran­za: la soluzione, entro il più breve tempo possibile, del­la que­stione demaniale; chè, infatti, soltanto attra­verso l'esito positivo di es­sa, si sarebbe potuto final­men­te soddisfare la secolare fame di terre, divenuta or­mai tratto caratteristico della storia di questa infelice comu­nità.

Nonostante l'adozione di vari provvedimenti a suo favore ai fini di una decisiva emancipazione dall'influenza baro­nale, sostan­zialmente essa, lontana ed estraneata dai movimenti nazionali più avanzati, era costretta a vivere ancora a metà secolo XIX in pieno regime feudale, com­pres­sa nei suoi inu­tili movimenti di rivolta, che, miran­do esclusi­vamente alla soluzione di interessi trop­po partico­laristici e minuti, si erano esauriti senza il rag­giun­gimen­to di sia pur modesti e concreti obiettivi".

[Giuseppe Lo Giudice, "Comunità rurali della Sicilia mo­der­na - Bronte (1747-1853)"].


 

Benedetto Radice spiega che: “Merum imperium, signi­fica il pu­ro, sommo, il più elevato fra tutti i diritti che eser­citava il re, cioè il jus neci = pena di morte. Merum impe­rium est habere gradi pote­statem ad puniendum facino­rosos morte, exilio, et relagatione.[…] Tutt’altra giurisdizione amministrativa, giudiziaria si chia­mava mixtum imperium.”


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"Morte al Dornese!"



«Morte al Dornese!»

Antonino Cimbali (capitano giustiziere 1848)Subito dopo i moti del 1848 un curioso episodio, tipico del malessere e della voglia di giustizia che serpeggiava nel paese, successe ai danni d'un adranita (all'epoca "adornese") che sbarcava il lunario - come ancora s'usa - venendo a Bronte a vendere frutta e verdura.

A raccontarlo è lo stesso capitano giustiziere in carica all'epoca, Antonino Cimbali, futuro sindaco di Bronte.
Era stato nominato lo stesso anno e capì subito l'aria che tirava e che doveva anche barcamenarsi tra i due partiti che esistevano allora a Bronte «intesi l'uno de' comunisti perchè sosteneva i diritti del Comune contro il duca Nelson, l'altro de' Ducali ed era tutto dichiaratamente in sostegno del Duca ed in danno degli interessi del proprio paese.»

Cimbali aveva costituito un ufficio  «composto da un segretario, un caporale e ventiquattro guardie di sicurezza pubblica, tutta gente che si trovava nella necessità d'aversi del pane, perturbatori numero uno e mafiosi puro sangue...», con l'intento - scrive lui - di avere «persone capaci di imporsi sulla canaglia e adatte ad ogni esecuzione, che, comunque fosse necessità compiere.»

Il locale destinato a Caserma della Guardia nazionale era una stanza, di proprietà del Comune, contigua al Casino di conversazione dei civili (l'attuale Circolo di Cultura E. Cimbali, ndr), e la sentinella si faceva passeggiare lungo lo spiazzo comune al Casino e alla Caserma.

Ecco dunque l'avventura del povero adranita raccontata dal Capitano giustiziere Cimbali: «Erano scorsi da quella prova un paio di mesi quando, in Adernò, veniva, trucemente, ammazzato un brontese, tal Giuseppe inteso il Pecoraio. La notizia di quest'omicidio produsse, in Bronte, una grave indignazione e si cercava proprio l'occasione per avere la rivincita. E l'occasione non si fece molto aspettare.

Un giorno venne a Bronte un adornese a vendere della frutta. Alcuni monelli insolentivano e gli facevano onta nel mentre egli attendeva ai fatti propri. Avvenne che, fattasi stanca la sua pazienza e vivamente indispettito, tirò in faccia ad uno di quegli impertinenti il peso, che aveva in mano e lo ferì gravemente.

Era giorno di festa e, la strada maestra, dove facevasi il mercato, trovandosi piena la di gente, fu un grande scompiglio, che, imman­tinenti, si accese al vedere ragazzo grondante di sangue. Si risvegliarono subito, allora, i ricordi del pecorajo di Bronte ucciso in Ademò, ed ecco che, a furia di popolo, quel povero adornese stava per essere ammazzato.

Il mio segretario, presente a questo fatto, cercò di imporsi per scongiurare una sventura di gravi conseguenze pei due paesi vicini; ma, mentre cercava di salvare quel disgraziato, fu travolto nella folla, riportandone stramazzate e contusioni. Le guardie riuscirono a stento a portarlo in caserma, mentre il popolo, infuriato, intendeva, ad ogni costo, linciarlo.

Era già per compiersi la catastrofe, quando qualche voce pietosa si fece alta sentire.

- Signori, fate senno a ciò che fate. L'affare è troppo serio e potrà cagionarci delle tristi conseguenze. Aspettiamo che venga il nostro capitano per attenerci ai di lui consigli. Egli non può volere altro che il nostro bene.

Io stavo tornando da Maletto, quando mi ebbi la notizia di ciò che avveniva in Bronte. Sollecitai il mio arrivo e trovai la strada maestra, dai Cappuccini sino alla chiesa di San Giovanni, tutta stivata di un popolo furente, che gridava a squarciagola:
- Morte al Dornese!

Apertami la via, quasi per incanto, in mezzo a quella folla, arrivai, finalmente, al largo del Casino di conversazione dei civili, accosto al quale era la caserma, dove si trovava agli estremi il nostro adornese, già condannato a morte dal popolo. Fattomi in mezzo a quella baraonda, domandai dapprima, col miglior garbo, un po' di calma e prudenza, dappoiché dove semina la passione il pentimento miete.

Indi dichiarai troppo giusto quel popolare risentimento, e che la vendetta doveva farsi.

Pregai, però, che mi si accordasse un certo tempo per la compilazione di un processo, anco sommario, per giustificare la punizione del reo, che doveva immancabilmente compiersi, e per non dar luogo ad animosità e rancori tra due paesi vicini, che dovevano certamente, una volta risvegliati, delle gravi sciagure e reati di sangue continuati produrre. Accolta la mia domanda, pregai tutti di sciogliersi, assicurandoli che il decoro del paese e la giustizia sarebbero stati salvi.

Con un Bravo! e Viva il Capitano! si sciolsero, ed io prolungai la istruzione del processo sin quasi le ore tre di sera, quando pochi curiosi restavano ancora lì presso a vedere e sentire i risultati.

Ridotti, così, a pochi gli astanti, li feci ritirare anco contro la loro volontà. Indi, fatto uscire quel povero disgraziato adornese da una porta segreta, con le debite previdenze, io stesso lo accompagnai alla distanza di quasi due miglia fuori di Bronte, per restituirsi salvo, se non sano, nel proprio paese alla sua famiglia, che, certo, con la maggiore ansia, doveva aspettarlo.

In tempi vorticosi e di rivoluzione è mestieri, oltre che cospirare, tenere asciutte le polveri e star sempre pronti all'azione; e, nel 1848, questo esigeva anche la posizione dei partiti di Bronte.»

(Antonino Cimbali, Ricordi e lettere ai figli, Roma, Fratelli Bocca Editori 1903)
 

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