Una lite durata cinque secoli

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Cenni storici sulla Città di Bronte

Le vicende di Bronte e del suo Territorio

LA GRANDE LITE

L'ABBAZIA DI MANIACE | HORATIO NELSON

500 anni di lotte impari fra un Piccolo Comune ed i Potenti di ogni Epoca

Ducea di Bronte, il Castello NelsonPassati nel corso dei secoli da un padrone all'altro, i brontesi sono strettamente legati alla storia dell'Abbazia benedettina di Maniace.

«Che buone lane fossero i frati maniacesi - scrive lo storico brontese Bene­detto Radice - i documenti ci han conservato di loro preziose notizie; ribelli alla volontà dei re e dei papi, usurpa­tori dei beni finitimi del mona­stero, di S. Filippo di Fragalà; liti­ganti, congiuratori e mezzo briganti. In varii tempi bisognò man­dar­vi abati per infrenare il mal costume e purificare il convento.
Potevano quei pii monaci avere scrupolo d’inva­dere i beni di poveri rustici ignoranti? Fu dunque facile a loro l’opera d’usur­pazione, profittando della fede, del­l'igno­ranza, delle moltitudini sparse nelle masse.
I monaci ingordi, non bastando loro i beni assegnati, agognavano l’altrui, e cre­diamo che abbian potuto, con la complicità di mal nati cittadini, usurpare le terre comuni, concedendole a loro in enfiteusi a nome del monastero; il qual sistema fu poi seguito dall’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, che varie volte dovette restituire al Comune, per sentenza, i mal tolti beni concessi ad altri.»

I Brontesi manifestarono le prime lagnanze contro gli Abati di Maniace, divenuti nel tempo non meno avidi e usurpatori dei funzionari fiscali di Randazzo.


1471, il Borgia e Papa Innocenzo VIII

Nel 1471 l'abbazia di Maniace era in piena decadenza e Re Giovanni la affidò, in commenda, con tutto il suo territorio e con quello limitrofo di San Filippo di Fragalà, al Cardinale Roderico Lenzuoli Borgia (che di lì ad un decennio divenne papa con il nome di Alessandro VI) nominandolo abate commen­datario dell'Abbazia.

Già in precedenza, nel 1419, un altro Re, Alfonso di Aragona, aveva già dato in possessione et tenuta il Monastero di Sanctae Mariae de Maniachio al venerabilem fratrem Gondisalvo Roderigo con tutti i singulis vassallis seu burgensibus dicti Monasterii et personis aliis, (12 aprile 1419, v. Arch. Nelson vol. 123, pag. 77).

Roderico Lenzuoli Borgia (il libertino venuto dalla Spagna, "di nefanda ed infausta memoria" lo definì B. Radice nelle sue Memo­rie, nella foto a sinistra un suo ritratto) consi­de­rava l'Abbazia, Bronte e tutti i Casali del suo territorio come possedimento proprio, sua proprietà personale e fu la causa prima di questa lotta gigantesca che dovette sostenere la popolazione brontese per oltre tre secoli.

Alcuni anni prima, intanto, nel 1431, a Palermo sotto gli auspici del re Alfonso, del beato Giuliano Maiali e del Senato della Città, era sorto il Nuovo e Grande Ospedale al quale furono aggregati altri sette ospedali. Per dotarlo ed accrescerne le rendite il Senato palermitano mise gli occhi sui beni delle due ricche abbazie di Santa Maria di Maniace e di S. Filippo di Fragalà e brigò col Papa per tale cessione.

Trovo terreno fertile nell'uomo di chiesa, il Cardinale Rodrigo Borgia, futuro papa Alessandro VI, dal 1471 abate commen­da­tario dell'Ab­bazia di Maniace, che in quel periodo era anche vice cancelliere di Innocenzo VIII.

Il Cardinale, senza alcun diritto poiché nella qualità di commen­datario non era che puro usufrut­tuario ed amministratore, all’insaputa del Comune e dei contadini del luogo, nel 1491, donò il patrimonio del monastero ed il possesso di tutti i sui feudi a Papa Innocenzo VIII che non perse tempo a trasferirli all'Ospedale. «Non era padrone di Bronte, - scriveranno nei successivi secoli gli avvocati del Comune - in conseguenza non potea trasferire in altri ciò che non avea».

Per la popolazione brontese fu l'inizio di una secolare schiavitù ma per il cardinale, l'uomo di nefanda ed infausta memoria, fu un affare perchè riservò per sè «vita durante» l'annua pensio­ne di 700 scudi d’oro, che succes­siva­mente mercanteggiò per un una tantum di duemila scudi d’oro.
«Furono uniti - si legge in un documento rilasciato nel 1819 dall'Ospe­dale - ed incorporati perpetuamente le due Monasterj di Santa Maria de' Maniaci, e di S. Filippo di Fragalà dell'ordine di S. Benedetto, e di S. Basilio, delle Diocesi di Monreale e Messina una con tutti li di loro beni e rendite, tra le quali in forza degli atti possessori e delle Reggie visite si complette (comprese) l'antico Casale e Stato di Bronti».

«Avvenne in tal modo - scrive Antonino Radice in Risorgimento perduto - un primo fraudolento trasferimento dei beni di Bronte al nuovo Ente morale ospe­daliero. Il tutto nella più assoluta segretezza e all’insaputa dei legittimi pro­prie­tari che avrebbero potuto, se avvertiti, impedire quel passaggio.
Una volta avvenuto il trasferimento l’Ospedale invece ottenne la con­valida dei suoi effetti attraverso una esplicita bolla del Pon­tefice allora sedente sul trono di Pietro (papa Innocenzo VIII)».


1491, L'Ospedale Grande e Nuovo di Palermo

La donazione all'Ospedale Grande e Nuovo apriva un'epoca nuova nella storia dell'abba­zia ma sopratutto di Bronte.

L'Ospedale nuovo Abate commendatario, infatti - scrive Salvo Nibali - sfrutterà le rendite del­l'ab­bazia di Mania­ce «dal 1491 al 1799, con disinteresse, ingor­digia e un'incre­dibile rapacità, con­dizionando anche la vita dei casali e dei villaggi che sorgevano nell'ampia vallata dell'alto corso del Simeto».

I Rettori che amministravano l'Ospedale agivano "secondo la logica dello sfruttamento ai fini personali e nell'interesse del clan di appar­tenenza, perfettamente in armonia col fosco e violento quadro della società siciliana del XVI secolo, crudamente stig­ma­tizzata dai diversi visitatori regi, i cui resoconti e relazioni osiamo defi­nire veri e propri verbali antimafia ante litteram" (F. P. Castiglione, "Indagine sui Beati Paoli" (Sellerio).

Scrive Vincenzo Pappalardo che con la donazione papale «secoli, mil­len­ni di fattiva operosità, di partecipazione ai riti di Bisan­zio, di viva­cità agricola e commerciale arabe, di dinamismo costruttivo e militare normanno si spengono nella gestione oppressiva dell’ospedale palermitano.
Il territorio comunale viene requisito e fagocitato nella riserva feudale, i contadini perdono i tradizionali usi civici e si immise­riscono ad una dimensione di vita e di economia primordiale.»
(Un destino feudale, Postfazione  di Vincenzo Pappalardo in La Ducea di Bronte di A. Nelson Hood, Bronte, 2005)

«Carità inconsulta, spoliatrice del Pontefice, - accusa un altro storico brontese, Benedetto Radice - consumata a danno di Bronte, il quale, venuto meno Maniace, per la emigrazione dei Maniacesi e la loro fusione coi Brontesi, avea visto cresce­re il suo patrimonio comunale e cittadino! Donazione fatale!»
«Da essa si originò la gran lite che per la sua sopravvivenza e libertà sostenne il Comune contro le prepotenze feudali dell’Ospe­dale che, sotto velo di difen­dere l’opera pia tramava insidie alla sua libertà per avvincerlo con le doppie catene feudali del mero e misto impero, farsi padrone della vita, della libertà e dei beni dei cittadini.
Lotta durata 350 anni dal 1523 al 1861, e per cui i migliori cittadini e giudici e capitani soffrirono carcere ed esilio; finita poi colla diminuzione del suo terri­torio e colla susseguente miseria dei suoi abitanti; miseria sempre più aumen­tata dall’ira devastatrice del formidabile vulcano.
»

L’usurpazione segnò l’inizio di un lungo periodo di stenti e di ininter­rotta crisi durante il quale Bronte, fino a quel momento feudo locale, passò sotto il dominio dei Palermitani, la cui unica preoccupazione fu sempre e per secoli solo il profitto e l'intenso sfruttamento della popolazione e del territorio.

I brontesi, che dai vasti territori dell'abbazia di Maniace (gli unici fertili, gli altri erano solo sciara) ricavavano per gran parte il loro sostenta­mento, furono così defraudati ed impoveriti sempre di più.

«Tra gli altri beni che lo Spetale possiede ci è la Terra e Stato di Bronti con suoi feghi (feudi), terre culti ed inculti ed altri e per la temerità e potenza di alcune persone Cittadini ed abitatori di detta Terra, senza timore di Dio e della giustizia e della loro coscienza non avendo riguardo che delli frutti, introiti e proventi e gabelle di detta Terra e Stato si mantiene e sostenta la casa di Dio nostro Signore e delli suoi poveri infermi esercitandosi in detto Ospedale diverse opere pie, e di carità, e particolarmente mantenendo l’Infermaria della Religione de’ Padri Cappuccini e 300 Nudrici che governano li figlioli in detto Osped.le gettati».

E l’accorato appello lanciato il 31 Ottobre 1621 dai Rettori dell'Ospedale palermitano al Vicerè Conte De Castro Giovanni de Luzena per far nominare l’Ospedaliero (il loro Direttore generale) capitano di giustizia ed inviarlo a Bronte per ristabi­lire l’ordine delle cose (A.N., vol. 131, p. 59). Ed il Vicerè e subito pronto: lo nomina con pieni poteri inviandolo (a spese dei brontesi) assieme a tecnici stimatori, pub­blici agrimen­sori, avvocato consultore dottorato, due Commis­sarj di banca e due algori (sbirri) reali.

E, in un periodo di care­stie, di ricorrenti epidemie e febbre malarica, giustizia viene subito fatta in maniera esemplare: gabelle, censi, décime su tutti i prodotti, dazi, affitti anche delle sciare vengono ristabiliti e Don Francesco Romano Colonna, ritornato a Palermo diventa avvocato fiscale, giudice, capitano giustiziere e tesoriere Generale del Regno di Sicilia.

I brontesi, invece, come scritto in una Consulta inviata dall'Ospe­daliero (il Diret­tore gene­rale) al Senato di Palermo, continua­rono ad essere consi­derati “torbidi vassalli intenti sempre a defrau­dare l’interessi di questa S. Opera e ad esimersi dal­l’obblighi di vassalli” (A.N., vol. 133, pag. 116).

Anche se con qualche sangui­noso e costoso tumulto (6 aprile 1636) conti­nua­rono ad essere trattati come servi che l'Ospe­dale consi­dera­va di propria proprietà tanto da ema­nare bandi con con­se­guenze anche penali per obbligarli a con­tinuare a prendere in gabella la terra, a non spopolare il paese e a non emigrare.

Questo specialmente nella seconda metà del 1600, quando per le ricor­renti carestie, le eruzioni dell'Etna (1651-1654) e le pesti­lenze migliaia di famiglie lasciarono Bronte trasferendosi nei comuni vicini.
Altre non ci riuscirono perchè l'Ospedale corse ai ripari e con denunce anche penali obbligò i conta­dini a restare nel territorio brontese ed a continuare a lavo­rare la terra per loro.

A questo proposito, illumi­nante già nel suo titolo è un corposo volume del­l'Archivio Nelson (il n. 8 del 1636-1697, foto a destra) che contiene questi bandi, lettere, rimo­stranze e denunce: Volume di scritture con­cernenti al punto di potersi constringere e di obligare dal nostro Spedale li Vassalli di Bronti a pigliarsi l’affitto dello Stato di detto Bronti e non uscire fuori Stato.

Di fronte a questo ingiusto trasferimento di proprietà del terri­torio e dei brontesi a questo nuovo padrone, a questa palese usurpazione di ogni diritto civile, l’autorità comu­nale, a nome proprio e dei con­ta­dini del luogo, intraprese («con coraggio ma anche, bisogna dirlo, con ingenua fiducia», scrive A. Radi­ce), una causa legale contro l’Ospedale Maggiore di Palermo, volta a riavere la restituzione dei feudi che erano stati proprietà comunali e finanche il diritto di fare legna nei propri boschi o di farvi pasco­lare gli animali.

Ma il coraggioso (e ingenuo) tentativo fu sempre inutile. I due conten­denti agivano su piani diversi di conoscenze, protezioni, pressioni diplomatiche e di possibilità di manovra e la comunità brontese priva di sostegni e di adeguate coperture risultava sempre perdente ed inappagata.
“E’ opera assai lodevole e giusta il far conoscere alli Brontesi che divono star soggetti a’ questa Santa opera (l'Ospedale Grande e Nuovo) e che non devono vivere a guisa di Repubblica come forse Loro credono essere”, scrivevano al Giudice di Gran corte Giuseppe Fernandez de Medrano, marchese di Mompileri nel 1698 i Rettori dell'Ospedale (Archivio nelson, vol. 90, pag. 30).

Contro di loro e contro i soprusi e le violenze numerosi furono i difensori della piccola comunità brontese.

Fra i tanti ricordiamo i nomi di D. Pietro Cottone, del Barone Filadelfio Papotto, di Don Liborio Papotto, Don Saverio Artale, Don Mario Sanfilippo, Don Francesco Schiros, del Vescovo Giu­seppe Saitta e, soprattutto di due eroiche figure: il giurecon­sulto Don Antonino Cairone e il sacerdote D. Vincenzo Longhi­tano che per difendere la popola­zione brontese patirono calunnie, infamie, l'esilio ed anche il carcere.

Per toglierli di mezzo, i Rettori dell'Ospedale li additarono come spiriti torbidi ed irrequieti e colla complicità anche di ammini­stra­tori locali da loro nominati (Giurati, Segreto, Capitano, Giudice civile e criminale) mac­chinarono in tutti i modi per calunniarli e farli destituire dai loro incarichi o, come nel caso di Cairone, incarcerarlo e cacciarlo dal paese costringendolo all'esilio.

Incredibilmente, nelle condizioni di estremo vassallaggio della popola­zione, questa grande lite si protrasse senza interruzione per ben tre secoli trasci­nandosi fino agli ultimi anni del 1700, per poi però prose­guire, cambiando questa volta avversario, fino oltre la metà del 1900. Tribunali e Corti, in parte, ora afferma­va­no, ora negavano, ora differi­vano, lasciando sempre il paese in miseria ed in grande agitazione.

Solo nel 1774, dopo tre secoli, l’Università di Bronte riusciva ad affran­carsi finalmente dall’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo e metteva finalmente fine alla propria condizione di feudalità dallo stesso.
O almeno così credeva.


 


Nella foto in alto, Palazzo Sclafani, sede dell'Ospedale Grande e Nuovo di Palermo dal 1431, quando la sua fondazione fu approvata da Papa Eugenio IV, al 1850 circa; sotto, la "carta intestata" dei rettori "Signori, e Padroni dello Stato, e Terra di Bronti": un documento tratto dall'Archivio Nelson con la nomina dei giurati "della Università di Bronti" per l'anno 1729.

 

Nella foto (del 1885) il ponte di legno di proprietà del Duca co­strui­to sul torrente Saracena adiacente le mura del Castello. Anco­ra nel 1950 il Duca che aveva alle dipendenze ben 105 guardie ducali pre­tendeva dai contadini il pedaggio per il transito su questo vecchio ponte .

Tre foto della Ducea Nelson pubblicate nel 1903 da The Pall Magazine, Vol. XXX, una prestigiosa rivista letteraria inglese edita tra il 1893 e il 1914, che per prima in­se­rì fra le sue pagine anche foto ed illustrazioni.


   

La Ducea di Bronte ed i Fatti del 1860

1983, LA DUCEA «MALEDETTA»

di Michele Pantaleone

«A Bronte non fu una guerra contro i Borboni ma era una lotta degli op­pressi con­tro gli oppressori e gli oppressori, grandi e pic­coli, erano i no­tabili pae­sani al servizio della Ducea "male­det­ta"». Intervento di Michele Panta­leo­ne al convegno sul film di Florestano Van­cini "Bronte, cronaca di un mas­sacro che i libri di storia non han­no rac­contato" (Bronte, 1983)


Vedi pure

I moti rivoluzionari, La donazione di Ferdinando I di Borbone, L'Archivio Privato Nelson, La Ducea inglese ai piedi dell'Etna


1799, i Nelson

L'emancipazione della comunità brontese durava infatti solo pochi decenni. Venticinque anni dopo, nel Dicembre 1799, un secondo illecito trasfe­rimento degli stessi beni (questa volta sotto forma di donativo regale) fu compiuto ad opera del sovrano borbo­nico del momento, re Ferdinando I, che, per offrire una testimo­nianza perenne della sua gratitudine e ricambiare la devozione ed i servizi resigli dall'ammiraglio Horatio Nelson nel salvargli la vita e fargli riconquistare il trono, gli concesse in perpetuo il territorio e la Città di Bronte compresi i suoi abitanti «con ogni giurisdi­zione civile e criminale, incluse la possibilità di comminare la pena di morte».

Per altro con la beffa di tener in nessun conto l’affrancamento dal­l’Ospe­dale del 1774 e l’acquisto proprio del "mero e misto impero" del 1638, raggiunti con incredibili sacrifici dai cittadini brontesi.

L'antica Abbazia, diventata la casa signorile di Nelson e dei suoi eredi, prese il nome di Ducea di Bronte e, ancora una volta, diventò la spina nel fianco della popolazione ed uno dei due grandi mali (oltre all'Etna con le sue deva­stanti eruzioni) del piccolo comune etneo. «Con queste regie disposizioni - scrive padre Gesualdo De Luca nella sua Sto­ria della Città di Bronte - rimase chiuso il campo delle giudizia­rie battaglie con l’Ospedale di Palermo, e non andò guari che un altro se ne aprì con la Ducea, in cui furono raccolte tutte le armi offensive palermi­tane.»

Infatti, come era avvenuto nei due secoli passati anche con i nuovi padroni, i Nelson, la situa­zione non cambiò. La sostituzione del nuovo feudatario all'Ospedale dava inizio a nuove innume­revoli liti giudiziarie ed anche ad una nuova fase della storia di Bronte, le cui condizioni di vassallaggio, triste eredità dei secoli prece­denti, erano destinate a protrarsi ed a dissanguare ancora per secoli la popolazione.

«Ogni Collegio Giudiziario ed amministrativo risuona delle voci del Duca, che chiede di esser mante­nuto nel possesso delle cose sue, e di esse­re espulsi i brontesi pertubatori» scriveva in una sua memoria legale Lady Carlotta Nelson (3° duca di Bronte, foto a destra) nel 1840. Per la duchessa, che viveva nel suo dorato soggiorno londinese, erano i brontesi che dovevano essere allontanati dal loro terri­to­rio lasciandole campo libero.

E, purtroppo per Bronte, nelle aule dei Tribunali si agiva sempre come prima, su piani diversi di cono­scen­ze, di pressioni diplomatiche e di possibilità di manovra e la comunità locale priva di sostegni e di adeguate coperture risultava quasi sempre perdente.

Ancora una volta Tribunali e Corti, in parte, ora affermavano, ora nega­vano, ora differi­vano, lasciando sempre il paese in miseria ed in grande agitazione. Ed «il popolo - scrive il Radice - impre­cava al mare che con una tem­pesta non aveva inghiottita la nave ammiraglia; se la pigliava con la Sicilia che non aveva proclamata la Repubblica come Napoli, e in ogni rivoluzione cercava pretesti e subbugli per spartire la ducea».

Solo con i regi decreti del 1841 una parte delle terre ducali, pro­ba­bil­mente quelle attorno a Bronte e quelle più distanti (Se­man­tile, Pezzo) venne asse­gnata alle classi meno abbienti del paese.

La Ducea cominciava a perdere qualche pezzo. Ma la popolazione era sempre più povera ed affamata e la vertenza continuava sempre più violenta e, specie per l'esauste casse comunali, sempre più dispendiosa.


1854, Martorana, «Arbitro Inappellabile»

Nel febbraio del 1854 interviene il Re Borbone Ferdinando II, nipote di quel Ferdinando I che aveva donato a Nelson ducato, terre e vassalli brontesi. Con un Real Rescritto nominava il dott. Don Carmelo Marto­rana, consi­gliere presidente della Gran Corte Civile di Catania, arbitro di tutte le vertenze tra la signora Duchessa Lady Carlotta Nelson e il Comune di Bronte, rivestito di ampli e pieni poteri giudiziari ed amministrativi.

Alcuni mesi dopo, a giugno, con un altro Reale Rescritto dispo­neva che l'arbitramento per cui fa oggetto il precedente atto sovrano fosse defini­tivo ed inappellabile. Si riapriva la speranza di avere giustizia o quanto meno di chiu­dere la secolare vertenza.

Il Comune si rivolgeva con fiducia al Presidente Martorana scrivendo che «l'arbitro è stato dal Re N. S. dispensato delle formalità di proce­dura nei giudizi civili; l'arbitro sta di mezzo ai collitiganti come al padre di fami­glia, per accorciare i litigi, e renderli il meno possibile dispendiosi». Parole al vento.

Il giudice Carmelo Martorana nel 1856 era intanto promosso Presidente della Gran Corte di Palermo ed il Comu­ne, per non perdere le speranze di una soluzione finale, era costretto a continuare la causa nel lonta­nis­simo capoluogo siciliano con dispendio di ulteriori notevoli risorse legali ed organizzative. Ma non era tutto. C'era qualcosa ancora di più grave.

Ecco cosa il 15 novembre 1855 scriveva Antonino Zèrega, uno dei legali della Ducea che seguivano la vertenza a Palermo, amico comune dell’amministratore di Lady Nelson, Guglielmo Thovez, e del giudice-arbitro definitivo e inappellabile di nomi-na reale: «Io mi sono con la massima riservatezza abboccato col Sig. Presidente Martorana e con tutta segretezza vi dico che … mi parve compiaciuto della fiducia che Lord Bridport e la Duchessa ripongono sopra di lui»; Zèrega riferisce di aver discusso col giudice alcune strategie processuali e conclude che «nel lungo discorso con lui avuto egli faceva trasparire molta buona disposizione per la Duchessa», di avere fiducia e di non preoccuparsi «attesa principalmente la disposizione in cui l’arbitro Sig. Martorana si trova per quanto pare a nostro vantaggio» (An, Vol. 214-A, p. 415).

In un’altra lettera del 30 novembre 1855 ancora Zèrega scriveva che Martorana (“al quale amiche­vol­mente comunicava lo stato delle cose”) mostrava "buone disposizioni nello interesse della nostra illustre" Lady: «Più volte mi sono trattenuto a lungo con lui parlando dei nostri interessi e delle vedute sempre disoneste, e astute dei Comu­nisti. Il Sig. Marto­rana mi ha amichevolmente confidato che (...)».
«Da alcuni particolari
- continuava - che non è conveniente affidare allo scritto, io debbo presumere che il Presidente Martorana sarebbe ben disposto, molto più che non saprei trovare ragione alcuna che egli possa simulare e non dire il vero; anzi io credo che egli sia interamente poco favorevole ai Comunisti».

Consigliava poi il più asso­luto silenzio «sopra questi dati» e «di non fare confidenze nemmeno a persone che possono reputarsi come le più sicure dappoichè i Comu­nisti potrebbero insospettirsi.» (AN, vol. 214-A, pag. 478).

Nel 1862 un dipendente della Ducea, l'avvocato Giuseppe Liuzzo, a giudizio ormai concluso si vantava in una lettera con la quale chiedeva al Duca un adeguato compenso per «aver avuto il destro di non far pervenire nelle mani dei Comunisti, sottraendoli alla loro ricerca, tutt'i documenti, che avrebbero in buona parte sostenuto le loro pretese». (215-C, pag. 341)

C'è veramente poco da commentare. Pur con il risolutivo intervento del Re, il piccolo Comune ancora una volta era destinato a soccombere e a non poter ottenere giustizia. La secolare lite sembrava già decisa prima ancora della sentenza defi­nitiva ed inappellabile del giudice-arbitro inappellabile nominato dal Borbone.

Martorana emanò diverse sentenze arbitramentali del 10 Ottobre e 29 dicem­bre 1857, del 15 maggio e 25 ottobre 1858. Ma ancora nel 1859, cinque anni dopo la nomina emetteva ordinanze, nomi­nava periti, riceveva monta­gne di documenti e di dichia­ratorie e continue memorie e suppliche per infine definire il 17 febbraio 1859 (secon­do le parole dell'avv. Liuzzo, impiegato della Ducea) "favo­revol­mente alla Sig.ra Duchessa le quistioni della Demanialità univer­sale e rivendica de' diritti di pa­scere e legnare».

Un anno dopo, l'ultima sua ordinanza del 25 Aprile 1860, differiva la seduta al giorno undici dell'entrante Maggio in questo luogo ed ora.

Ma il giudice ed arbitro di nomina reale, definitivo ed inappellabile per definire le pendenze litigiose tra la Duchessa Nelson e la Comune di Bronte, rivestito di ampli e pieni poteri giudiziari ed amministrativi non fu capace di concludere il mandato ricevuto nè di giudicare e chiudere in modo definitivo la secolare vertenza e nemmeno di farsi pagare(1).

Dieci giorni dopo, l'11 maggio, lo sbarco a Marsala della spedizione dei Mille ed i decreti garibaldini fecero infatti saltare tutto e furono anche la scintilla che fece scoppiare la rabbia e l'odio repressi per secoli in una sanguinosa rivolta dei popolani brontesi contro i cap­pelli ma soprattutto contro l'entourage dell'odiata Ducea.


1861, la Transazione

Dopo 62 anni dall'illecita infeduazione a Nelson del territorio di Bronte e dei brontesi, nel giugno del 1861, dopo gli oltre tre secoli che avevano trava­gliato ed immiserito Comune e popolazione, Antonino Cimbali, De­le­gato di pubblica sicurezza, di grande autorità presso il popolo, sulla scia di una delle tante sommosse questa volta sanguinosa, quella del­l'ago­sto 1860, concluse con William Thovez governatore della Ducea una transazione generale che sembrò riappacificare gli animi.

Oltre agli ostacoli frapposti dal "partito dei ducali" il Cimbali - come lui stesso scrive - dovette superare anche quelli «più tremendi che venivano da parte dei "padri della patria" (i tanti avvocati che difendevano gli interessi del Comune, fra i quali anche il prof. De Luca): trattavasi per molti di loro della lotta per la loro sussistenza e, quindi, si rendevano feroci».

Con quest'atto, avvenuto sotto il 3° Duca Charlotte Mary Nelson (1787-1873), nipote dell'Am­mi­raglio Nelson, la popolazione brontese si riappro­priava di ulteriori territori anche se la metà era costituita da terreni sciarosi e deserti lavici. La parte più fertile del territorio (circa 7 mila ettari) restava ancora proprietà della Ducea.

La transazione in qualche modo troncava una secolare lire «ma, - scriveva il Radice nel 1920 - rimasero però degli appic­ca­gnoli; e come da un albero annoso, nono­stante la pota, ven­gon su nuovi polloni, cosi dal vecchio tronco della lite seco­lare ne nacquero altre delle quali, attore princi­pale ai nostri giorni è stato il duca Alessandro Bridporth Lord Nelson, pronipote del grande Ammiraglio.»

Per sostenere le secolari liti «un tempo, la Ducea doveva mante­nere cinque avvocati a Catania, due a Palermo, uno a Messina, uno a Roma, uno a Torto­rici, ol­tre ad un notaio a Bronte», scri­veva nel 1924 il V° Duca Alexan­der Nelson nel suo "memo­riale per la famiglia", The Duchy of Bronte". Altrettanti legali figu­rano nel Li­bro dei conti del 1815: due a Mes­sina (Scarcella e Quat­troc­chi) ed uno a Bronte (Saitta), Catania (Barra­co), Torto­rici  (Lomonaco) e Patti (Galvagno).

E, nello stesso memoriale, il poeta scozzese William Sharp, ospite del Duca così descri­veva - bontà sua! - il popolo brontese:

«Il suono della campana nel gran­de cortile mi informa che è tempo di partire per il lungo viaggio alla volta di Bronte, dove il mio ospite dovrà presenziare ad una delle sue eterne cause legali, poiché in questo immobile paese solo parzialmente civiliz­za­to, tormen­tato dalla mafia, infestato dai briganti, la gente, sul piano individuale, comunale e regionale è straordina­riamente combattiva, sia nell’aggredire che nel difen­dersi da soprusi reali o immaginari».

L'unica cosa che Sharp concede a Bronte è che i soprusi potrebbero anche essere reali.

Il Duca intanto - scrive Franca Spatafora (Notabili e lotte politiche a Bronte 1860-1914, T. L. 1991) - cerca di avere sempre meno contatti con i fieri bron­tesi; per coltivare e dissodare i terreni di Maniace ven­gono chia­mati i contadini di Tortorici, (un paese della provincia di Messina) perchè ritenuti, a ragione, più malleabili e più adatti alle dure condizioni lavorative imposte dagli amministratori della Ducea.

Il feudo costituì così quasi una appendice naturale del limitrofo ter­rito­rio di Tortorici ed una sorta di grande serbatoio di scorta per l'occupa­zione della sua manodopera».


1950, le Lotte Contadine

Ducea di Nelson, croce celtica e bandiera ingleseL’immensa Ducea continuò ancora per decenni ad esse­re la causa di lunghe e con­tinue liti e sempre al centro di rivendi­ca­zioni e di dure lotte con­ta­dine ancora per lungo tempo («il più as­surdo anacro­nismo storico», lo definì Carlo Levi, nel 1952 quando accompa­gnato da Michele Pantaleone visitò Bronte e la Ducea).

Nemmeno la mussoliniana Azien­da Agricola Maniace, creata nel 1941 dall'Ente di Colonizza­zione del latifondo Siciliano dopo il sequestro della Ducea o la legge di riforma agraria promulgata dalla Regione siciliana nel 1952 riusci­rono a scalfire il dominio inglese.

Il duca con le sue amicizie influenti e l'intervento anche della diplo­mazia inglese riuscì sempre e ancora una volta a calpestare la legge e a tenersi il feudo.

«I braccianti in Bronte,  - scriveva Carlo Levi - migliaia di contadini senza terra, che aspettano le terre della riforma agraria, che da un secolo e mezzo combattono per vivere contro la Ducea feudale di Nelson, che si muovono ogni tanto per occupare le terre come nel 1848 e in questo dopoguerra, che ne sono scacciati e ci ritornano pazienti e tenaci e pieni, malgrado tutto, di umana vitalità, e riescono ancora, nei loro fetidi Cortili, a sperare nel futuro.»

Solo negli anni 1963 - 65 le terre ducali furono assegnate ai contadini ed il Comune di Bronte, che già a seguito della costituzione del 1812 aveva otte­nuto l’emancipazione dal vassallaggio ducale, ottenne la reintegra di quasi tutti i suoi beni.


1981, la Vendita

Nel 1981 l’odiata Ducea inglese del "boia di Caracciolo" (così lo stori­co Benedetto Radice definì la Ducea e l’ammiraglio Nelson(2)) cessò di esistere.
Il VII duca, Alexander Nelson Hood, l’ultimo ad averla ereditata, che nei dodici anni di "regno" aveva prov­ve­duto gradualmente a cedere tutte le proprietà rimaste, ha ven­du­to al Comune di Bronte anche tutto il com­ples­so architettonico com­prendente l'antica Abbazia (il cosiddetto Castello di Maniace).

La Ducea Nelson con la  Chiesa di Santa Maria di Maniace, gli ap­par­tamenti signorili dei Nelson (oggi tra­sformati nel Museo Nel­son), l’an­tica Abbazia benedet­tina, ed il Par­co (con lo straor­dinario Museo di scultura all'aperto) sono diventati un centro di grande attrattiva turistica di particolare interesse.

L'immenso feudo, dopo la legge di riforma agraria promulgata nel '50 dalla Regione Siciliana (e per oltre dieci anni mai appl­icata a Mania­ce), ed una dura lotta dei contadini, solo negli anni '63 - '65 era stato quotizzato ed assegnato ai contadini di Bronte, Maniace, Ma­let­to e Tortorici, iniziando a segnare così la fine della Ducea generosa­mente donata dal Borbone ad Horatio Nelson.

Oggi il piccolo cimitero inglese sito a pochi passi dalla Ducea rappre­senta l'unica proprietà che gli eredi di Horatio Nelson continuano a possedere a Bronte oltre, natural­mente, al titolo regale di Duca di Bronte concesso nel 1799 dal re "Lazzarone" Ferdinando I.

(nL, Maggio 2008)


Note:

(1) Il giudice Carmelo Martorana morì il 28 agosto 1872 ma non ricevette una lira per il lavoro svolto fino al 1859. Le controversie per le quali era stato stabilito l'arbitra­mento - sosteneva la Ducea - non erano state totalmente decise. Ed ancora dodici anni dopo la morte del giudice era in corso una lite per il paga­mento di onorari, spese e com­pensi vari. Il 31 luglio 1876 un atto di transazione chiuse la vicenda tra la Ducea ed i suoi eredi: la Ducea corri­spo­se loro L. 1.340 (€ 5.508,03) «senza interessi da pagarsi dall'attuale Duca di Bronte Sig. Alessandro Nelson Hood Visconte Bridport qual'unico figlio ed erede della Duchessa Nelson» (cfr. Archivio Nelson, vol. 345-C, p. 52). Ci sbaglieremo ma non ci risulta che il Comune abbia pagato qualcosa al Martorana.

(2) Anche lo scrittore inglese D. H. Lawrence (1885-1930), che nel mese di aprile del 1920 fu ospite a Maniace del Duca Alexander Nelson-Hood, in una lettera del 7 maggio 1920 inviata a Lady Cinthia Asquith, si esprimeva in termini consimili: «…Avete mai sentito parlare di un cer­to Duca di Bronte – Mr Nelson Hood - discen­dente di Lord Nelson (Horatio) che i Napoletani fecero Duca di Bronte perché aveva impiccato alcuni di loro – Bene, Bron­te si trova alla base dell’Etna e questo Mr Nelson-Hood possiede lì la sua Ducea...» 

 

L'IMMENSO FEUDO DONATO A NELSON

Il feudo donato dal Borbone a Oratio NelsonL'immenso feudo donato a Nelson dal Borbone, nella sua origi­naria esten­sio­ne secondo l'atto di donazione (in giallo ciò che rimase al pic­colo Comu­ne: uno spicchio di Etna ed un mare di sciara; in grigio il ter­ri­to­rio di Malet­to).

Praticamente, tolti i due Feudi di Foresta Vecchia e del Cattaino (di proprietà del mar­che­se delle Favare) e quello della Placa (del duca di Carcaci) tutto il restante territorio fertile o arabile (quasi 15.000 ettari) era stato dona­to, compresi gli abitanti di Bronte (i vassalli dell'epoca).

Seguendo quanto aveva già fatto il Papa Innocenzo VII nel 1491, il Bor­bone aveva graziosamente regalato «… in perpe­tuo la terra e la stessa città di Bronte, … con tutte le sue tenute e i distretti, insieme ai feu­di, alle marche, alle fortifi­cazioni, ai cittadini vassalli, ai redditi dei vas­salli, ai censi, ai servizi, alle servitù, alle gabelle …».

Nell'immagine sotto, il territorio della Ducea (in giallo) dopo la transazione del 1 giu­gno 1861 presso Notar Gatto, ratificata il 17 ottobre stesso anno e sanzionata dal Re.

Con questo atto, concordato da Antonino Cimbali e dagli ammi­nistratori del 3° Duca Charlotte Ma­ry Nelson, Bronte si riappro­priava di ulteriori suoi ter­ritori. Ritornò in possesso della metà dei feudi Semantile, Gollia, Sant'Andrea, San Nicola, Porticelli, dell’interi feudi di Fioritta e Nave, di un quarto del Roccaro.
I Nelson perdevano quasi la metà delle terre avute in concessione dal Bor­bo­ne, restando però proprietari della parte più fertile (circa 7 mila ettari, comprese le due isole di Marotta e Ric­chisgia).

I due feudi di Foresta Vecchia e del Cattaino (in verde) erano diventati proprietà del Comune che li aveva acquistati dal Mar­che­se delle Favare il 12 Luglio 1845 con atto nota­rile N. 15752.

Nel 1976 il territorio del­la Ducea si ridurrà a soli 248 ettari; 5 anni dopo il Duca venderà tutto, anche l'antica Abbazia di Santa Maria lasciando definitivamente Maniace. Il piccolo cimitero dove riposano Duchi ed Amministratori rappresenta l'unica proprietà che gli eredi dei Nelson continuano a pos­sedere a Bronte.

Prima della riunificazione della abazie di Maniace e di S. Filippo di Fra­galà e della do­na­zione fatta da Papa Innocenzo VIII all’Ospedale Gran­de e Nuovo di Paler­mo (1491) il territorio bron­tese era così suddiviso.

I beni dell’Abbazia di Maniace erano: Feudi di S. Andrea, di Samperi e Pe­trosino, del­la Saracina, di Fiorit­ta. La metà del feudo Ilichito (o Ilicito, Lu­chi­to, Ilichino, Iliceto) sito in territorio loci de Bronte, l’altra metà appar­te­neva ad un privato. Que­sto feu­do era deno­minato bosco di Bronte e al­cu­ne memorie mano­scritte dicono che esso si protendeva fino alla Chiesa Ma­trice.

I beni del monastero di Fragalà erano: i feudi di S. Nicolò de Petra oggi Santa Nico­lella, di Semantile, di S. Giorgio Agrappidà e di Gollìa.

I beni che componevano lo Stato di Bronte: compresi i casali erano il Feudo di Porti­celli, con Fioritta e Mangione, il Feudo del Roccaro con Tartaracì, Nave, masseria di S. Giovanni, Casitta, Marullo, Balzi, Bazitti, Ellera, Sorge, Santa Venera; il Feudo del Corvo, di S. Pietro dell’Ilichito, cioè il Bosco So­prano, che «con­fina a Levante colla cima del Mongibello, da Bronte col fiume e feudo di Spanò, a mezzogiorno col territorio di Adernò, a tra­montana colla masseria del Corvo e Cirasa».



 

Alcune tappe della Grande Lite

1636, il tumulto

Nè con gli ufficiali di Randazzo, nè coi rettori del­l’Ospe­dale Grande e Nuo­vo di Palermo, nè col du­ca Nelson, Bronte ha avuto mai pace

Matteo Pace e Luigi Terranova, due sconosciuti patrioti brontesi, condan­nati a morte, altri condan­nati a vita alle galere, altri a tempo, tutti ad esse­re fru­stati su muli e portati per berlina in giro per la città.

1734, Antonino Cairone

Il giureconsulto Antonino Cairone, strenuo ed eroico difensore dei di­ritti del Comune contro l'Ospedale Grande e Nuovo di Palermo al quale, secoli prima, nominandolo Abate commendatario, Papa Innocenzo VIII aveva donato Bronte ed il suo territorio.
Per le sue idee ed il suo agire patì ingiurie e calunnie di ogni ge­ne­re, la destituzione dall’ufficio di notaro per opera di alcuni giurati di Bronte venduti all’Ospedale, l'esilio ed il carcere. Morì in miseria.

A destra una frase stralciata da una lettera inviata il 31 Marzo 1698 da Bronte ai Rettori dell’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo dall'Abate Andreozzi loro procuratore : ... è giusto il far conoscere alli Brontesi che divono star sogetti a questa Santa Opera e che non divono essere a guisa di Repubblica come forse Loro credono essere” (Arch. Nelson, vol. 90, pag. 30)

1835, La supplica dei “singoli di Bronte” al nuovo padrone, il Duca Nelson

«I Singoli ridotti all’estremo sono costretti a espa­triare e cercarsi altrove men­di­cando il pane - La misera gente dall’insopportabile rigore dell’Inver­no so­praffatta, si è data a saccheg­giare le cam­pa­gne, tagliando olivi, peri, noci, man­dorle, pi­stac­chi, celsi ed ogni altro albero»
Una supplica circo­stan­ziata e dai toni dram­matici rivolta nel­l’inver­no del 1835 dai  “sin­goli di Bron­te”al Ministro degli Interni del Regno delle due Sicilie. «Con tutto rispetto» chiedevano aiuto essendo trascorsi decenni «da che angariati dal Baronale dispotismo erano stati privati del diritto di far legni e carbone nei boschi …, diritto, da remotis­simi tempi esercitato
Bronte è a 800 m s.l.m. e gli inverni erano lunghi e rigidissimi. La legna ed il carbone erano indi­spensabili per non morire. Senza era impossibile vive­re, cucinare e cuocere il pane, riscaldarsi e forgiare metalli per fare o riparare attrezzi di lavoro. Chiedevano i brontesi che almeno si stabilisse un luogo dove poter fare il carbone. Il loro territorio comprendeva decine di migliaia di ettari di bo­schi ma quelli brontesi erano stati “do­nati” ad altri e la popo­lazione era costretta a cercare e com­prare, a carissimo prezzo, legni, carbone nei boschi di Cutò, Barrilà, Placa, Gat­taino.

«Oggi – scrivono nel ricorso - i proprietari di tali feudi vietano che più le­gni e carbone si smer­cias­se venendo tra breve a perire quei boschi. Dietro tal divieto – con­tinuano - fin dal caduto anno gl’infelici singoli ri­cor­sero a questa Sopra Intendenza generale esponendo i loro veri, reali, e primi bisogni, che più che altrove si fanno sen­tire, esercitando per quasi sette mesi dispo­tica­mente l’impero l’inverno rigidissimo.»

Il ricorso non ebbe il seguito sperato. Troppi gli interessi in gioco, diversi i livelli di conoscenza e di pressioni che contrappone­vano da un lato la du­chessa di Bronte Char­lotte Mary Nelson, la nipote di Horatio, il marchese delle Favare ed il duca di Carcaci e dall’altro la comunità locale, pri­va di risorse, sostegni e di adeguate coper­tu­re, che risultava sempre perdente.

Il Ministro trasmise la pratica all’Intendente di Catania (il Prefetto di allo­ra). L’Intendente ordi­nò che si facessero legni e carbone a tenore delle leggi forestali. «Questa disposizione – continuano i singoli - non puotè aver luogo stan­tecchè contro il divieto delle Leggi Forestali i boschi essendo quasi tutti posti a coltura, non trovasi luogo ove far le For­na­ci pel carbone senza ledere i Coloni danneg­gian­doli nei Seminati.»

Si espone all’Intendente tale circostanza ed il funzionario ordina che il Sindaco ed il rappre­sentante del Duca (all’epoca Filippo Thovez) di comu­ne accordo «eligessero due periti per con­ve­nire sull’elezione del luogo, e si tenesse avvisato.» «S’intima dalla parte del Comune al Thovez l’ordinativa dell’Intendente, e si fa sordo, se ne da conto all’Intendente e l’Intendente stesso istesso di nuovo direttamente ordina al Thovez che si eligessero i periti e che nel caso diverso penserebbe egli uno eligerne. Thovez continua nella sua ostinazione e l’Inten­dente passa all’elezione del perito nella persona dell’Ingegniere Borzì.»
Il perito era ben conosciuto a Bronte per prece­denti perizie fatte, sfaccia­tamente favorevoli agli interessi della Ducea, ma tant’è, quando c'era di mezzo la Ducea, era nominato sempre lui.

«Quest’Ingegniere come in altre circostanze, sì nella demarcazione pel rin­selvamento dei bo­schi, come nella valutazione dei diritti promi­scui, par­ti­giano caldissimo del Thovez e non senza intelligenza del Thovez, asse­gnò per luo­go della costruzione delle fornaci la così detta Serra della Spina, luogo il più remoto che si pos­sa, il più alpestre, inaccessibile alle vetture an­che scariche, e quel che è più da un anno all’al­tro d’altissima neve coperto.»
«Vi ha di più, manca del tutto il legno, e che doven­dosi in questo luogo trasportare il legno da carboniz­zarsi, il carbone sulla faccia del luogo, non comprese del trasporto le spese, verrebbe a costare tantissimo. «Di queste ragioni addotte l’Ingegniere Borzì non vol­le incaricarsi, essen­do unico voto ed og­getto primario del rappresentante Thovez che car­bo­ne, e legni non si facciano attesa la inop­portunità del luogo e così dal freddo irrigiditi morire i singoli di Bronte.

Insomma in oltre 15.000 ettari coperti di boschi il Mi­nistro ed il Prefetto di allora non riuscivano a tro­vare un luogo adatto a fare il carbone. Esposti, ricorsi, de­nun­ce, tutto era tentato, inu­til­mente, dai brontesi, defraudati ed impoveriti da una secolare condizione di estremo vassallag­gio, per poter continuare a vivere nel loro territorio. Ma i reclami fatti all’Intendenza anche solo per cam­bia­re il luogo «non sono tutt’ora giunti a pene­trarla, stante la cabala, e l’intrigo, e la prote­zione.»

«I Singoli – conclude la supplica presentata al Mini­stro - ridotti all’estre­mo sono costretti a espatriare, e cercarsi altrove mendicando il pane, sono costretti dalla necessità per non mo­rirsi di freddo mancando loro legni e carbone, non trovando come coltivare le terre privi del­l’arredi di legno, e di ferro, i primi sul divieto d’aratri e di ciò che a massarie si addice, i se­con­di mancando il carbone per foggiare vo­meri, e zappe.
La misera gente dall’insopportabile rigore del­l’Inver­no sopraffatta, non trovando mezzo come tanto ne­mico allontanare si è data a man trat­ta a saccheg­giare le campagne, tagliando olivi, peri, noci, man­dorle, pistacchi, celsi ed ogni al­tro albero che davanti si portava. Si è data fin’an­co dissodar vigneti, or colle mani rompen­do, or colle scuri tagliando, or colle zap­pe dalla radici sbarbicando le viti, arrecando per tut­to desolazione e lutto.
A vista di tante miserie e tanto scempio prie­ga­no l’E.V., il di cui zelo nel sollevare gli oppressi è caldissimo, e grande le bontà di esaudire, suppli­cansi che ordini all’Intendente di Catania che interessandosi dei reclami dei Singoli di Bronte contracambiasse il luogo della Serra della Spina con altro locale più opportuno, abbandonando quei boschi di luoghi scoscesi, aperti, e sgombri d’alberi
(…) e che volendo eligere periti per desi­gnare uno, o più dei locali additasi di tutt’altri si volesse fuorchè di Borzì la di cui parzialità è cono­sciuta abbastanza. La priegano inoltre che autorizzasse qual Sindaco e Collegio Decurionale come garanti e responsabili del tutto.
(Archivio Nelson, vol. 213-B, p. 26).

Nel 1835, Bronte contava circa 9 mila abitanti.  «I miei vassalli e sudditi" li aveva definiti William Nelson, il precedente Duca, padre di Carlotta. Po­ve­ra gente, contadini e pastori sempre angariati e sfruttati, che covavano odio e rancori secolari che in ogni occasione di turbolenza risveglia­vano semi­nando vittime, come nel 1820, nel 1848 ma sopratutto nel 1860.

1836, Il "lamento" di Thovez

Come era uso la Ducea gabellava le terre dell'immenso feudo con la condizione che l’affittuario lasciasse ogni anno un terzo del fondo a completo riposo (il cosiddetto turno economico): "un terzo - scriveva nei contratti - dei terreni dati in gabella si semina, un terzo si novalizza ed un terzo resta vuoto".

Novalizzare la terza parte del fondo era un metodo per preparare i maggesi alla semina del grano a novem­bre ma, fra gabelle, decime, censi ed altre angherie dovuti al padrone del loro territorio ai contadini brontesi restava ben poco. Non avevano scelta e si erano fatti furbi e in quel terzo seminavano legumi. E questo a Filippo Thovez, l'amministratore della Signora Duchessa, non andava giù.
E così scriveva con malcelata ironia (o rabbia) in un esposto: «la quale estensione (il terzo novalizzato) è ben puoca perchè quei poveri bracciali che a spezzone seminano le terre non ne lasciano scappare un palmo alla cultura, e cuoprono i novali di cereali, che servono poi per il loro mantenimento nutrendosi come fa in quei paesi la bassa gente di legumi». (AN, vol. 178, p. 201)

1861, la Transazione di Antonino Cimbali

«Era mio intendimento assicurare una calma duratura, che fosse per Bronte l’inizio di un’epoca nuova di civiltà e di benessere. Occorreva, quindi, togliere di mezzo, e per sempre, la causa perenne che teneva diviso il paese in due paurose fazioni, animate dai più virulenti rancori: ossia troncare, mediante una conveniente transazione i secolari litigi, che vertevano tra il Comune di Bronte e il duca Nelson.

Bisognava pure eliminare un’altra causa di risentimento popolare procedendo alla divisione, in favore della povera gente, delle terre comunali; ma questo non era possibile fare, perché sui terreni da dividersi esistevano ancora dei diritti promiscui del Comune e del duca Nelson, e questo faceva sentire di più la necessità di venire con lui alla desiderata transazione.

lo allora la tentai, la sostenni con la maggiore energia ed operosità, e fu fatta. Quella transazione fu una vera conquista per Bronte. Si transige quando si è tuttavia in questione; ma oramai le sorti del Comune erano compromesse, avendo il presidente della Corte di Catania, certo Martorana(3), chia­mato da ambo le parti a decidere come arbitro, liquidate le vecchissime e costosissime contese, in mas­sima misura a favore del Duca, e per conseguenza, in tempi ordinari, sarebbe stata anche inge­nui­tà parlare di transazione. Invece io, memore del proverbio che ogni male non vien per nuocere, pensai di trar profitto, nell’interesse del paese, dalla catastrofe avvenuta in Bronte.

Si aggiunga che la proprietà ducale si trovava attentata; il segretario contabile del Duca, certo Leotta, era stato a furia popolare ammaz­zato; l’amministratore generale, certo Guglielmo Thovez, per tenersi al converto d’ogni pericolo, era ancora rifugiato a Catania; tutti gli altri impiegati erano guardati a stracciafalco e continuamente minac­ciati.

lo, intanto, per riuscire nel mio scopo, ingrandivo, parlando con essi, i pericoli che loro sovrastavano, in modo che tutti compatti faces­sero sentire all’amministratore generale che si sarebbero dimessi per garantire la loro personale integrità se egli non avesse trovato modo, addivenendo alla transazione col Comune, di levar via ogni causa di rancore nel paese.

Fu così che il Thovez, sopraffatto da un lato dalla viva insistenza dei suoi dipendenti e, dall’altro, dal timore del pericolo che lo minac­ciava, si arrese alle mie proposte di transazione(4). Superati gli ostacoli, che venivano dalla Ducea, si presentavano più tremendi quelli che venivano da parte dei padri della patria: trattavasi, per molti di essi, della lotta per la loro sussistenza, e, quindi, si rendevano feroci. Fu fortuna pel paese che io mi trovassi a capo dei poteri della sicurezza pubblica (era stato nominato il 28 Settembre 1860, NdR); on­de, quello che non potei ottenere con la persuasione e con la ragione, mi fu necessità ottenerlo con la forza o con la minaccia della forza. Di altre buone congiunture io seppi profittare.

Il professore De Luca(5) voleva essere deputato; ma, senza il mio appoggio in Bronte, il suo sarebbe rimasto (e ben lo comprendeva) un pio desiderio e, quindi, gli fu neces­sario dissimulare il suo rincrescimento per la minacciata transazione, che a lui, avvo­cato del Comune, avrebbe fatto venir meno una sorgente di lauti guadagni. Anzi, avvalendomi della mia posizione e delle circostanze elettorali, l’obbligai, in certa guisa, a darmi il suo avviso sulla transazione stessa da servirmi di base per le pretese da mettersi avanti a favore del Comune. Messo da me tra l’uscio e il muro, fu costretto a pronunciarsi davanti a non pochi ed onesti cittadini.

Il De Luca affermava essere sufficiente compenso per i diritti del Comune ottenere tutto quanto dei fondi promiscui si trovava di qua del fiume. Tutti acconsentirono; ma io ebbi la fortuna di ottenere non solo questo, ma anche una metà di ragguardevole proprietà posta al di là del fiume, meno di 1003 salme di terre seminatoriali che rimasero per esclusivo conto della Ducea a causa di un antico e incompleto deliberato di questo Municipio, che formava, già, titolo incontrastabile. Erano davvero grandi i vantaggi ottenuti pel Comune; eppure ci volle tutta la mia ine­sorabile fermezza per conchiudere - contro la voglia di alcuni comunali cointeressati - la transazione.

Fatta questa, si divisero immantinenti le terre comunali ai proletari; ed io, dopo esauri­ta così difficile ed importante missione, non mi ebbi altro che il solito compenso, delle più spudorate infamie e delle più nere calunnie. Però la mia soddisfazione fu grande. Io concepii la transazione, io la trattai a tempo ed io la portai a compimento.(6)»

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Il brano è tratto dal libro «Ricordi e lettere ai figli» scritto da Anto­nino Cim­bali.

Note:

(3) Carmelo Martorana, Vicepresidente di Corte Suprema e Presidente della Gran Corte civile di Palermo.

(4) Nei riguardi della Ducea di Lady Carlotta Nelson la transazione fu sottoscritta "in compenso, soddisfo, indennizzo, ed estinzione di qualunque siasi dritto, uso servitù, credito, azione, ragione che al Comune possa spettare, e competere, sia dedotto, sia che possa dedursi o domandarsi».

(5) Per conoscere i rapporti tra Antonino Cimbali e l’illustre professore De Luca si vedano le Lettere di Placido De Luca ad Antonio Cimbali, Roma tipografia Centenari, 1897 (leggine una: Il lungo viaggio di De Luca da Bronte a Torino).

(6) La transazione tra il Comune e la Ducea fu firmata in Bronte (nella Casina di Maniaci, notaio Giuseppe Gatto) il 1° giugno del 1861. Un modo per rasserenare gli animi, dopo le tormentate e tragiche giornate dell’agosto 1860. Testimoni dell'atto furono i «signori Dr. D. Antonino Cimbali del fu Dr. D. Giacomo e Dr. D. Nunzio Cesare del fu maestro Antonino, possidente». La transazione è riportata integralmente, a stampa, nel vol. 378 dell'A.N., pagg. 4-56.

1879, la Beneficenza ducale

(Da un ritaglio di giornale conservato nell'Archivio Nelson; il duca in questione era Alexander Nelson Hood, figlio di Carlotta)

«Ci viene riferito, e con piacere lo pubblichiamo, che il duca di Bronte, Vi­sconte Bridport, commosso dalla estrema miseria della classe indi­gen­te per la carestia dell'anno, nel giorno 23 spirante, ricorrendo l'an­ni­ver­sa­rio della sua nascita, fece distribuire una grande quantità di pane a più di 1300 poveri di quel comune. La distribuzione ebbe luogo nella casa ducale, ove accorse gran folla di persone, che si distinse pel massimo ordine serbato. Tale largizione di pane ha avuto luogo oltre a quella che il duca, ogni anno, pratica nel mese di marzo.(...)»

1883, gli avvocati del Comune

«Gli Avvocati del Comune con gravi spese radunarono grande copia di do­cumenti, stam­parono storiche difese, consumarono gran dana­ro: ma di assistenza presso l’Ar­bitro ne fu poca.
Uno ben pagato se ne stava altro­ve, gli altri davano poco se­gno di vita. I rivali, gli astuti, i malevoli sono usi dire che gli aventi interesse contro i Co­muni, e massime i Baro­ni sanno guada­gnarsi coi mezzi di paren­tele, di amicizie e di oro l’animo dei Comu­nisti a chiuder gli occhi, sonnacchiare in difesa degli inte­ressi delle Uni­ver­sità, o sbraitare in pub­blico, e farne nulla. Non così i difensori dei privati e dei Baroni con­tro i Comuni. San giuocare di tutto, per gua­da­gnarsi il pane di lor famiglia.»

(G. De Luca, Storia della Città di Bronte)

1894, Interrogazione al Parlamento

Una interrogazione presentata il 9 Luglio 1894 alla Camera dei Deputati in relazione alle trame poco decorose, alle lungaggini ed agli atti di vero servilismo nei confronti della Ducea che si com­pivano dal Ministero dell'Interno e dalla Prefettura a danno del Comune di Bronte.

«Il sottoscritto chiede d'interrogare l'on. Presidente del Consiglio, Mini­stro dell' Interno, sulle continue, gravi ed este­se usurpazioni di pub­bli­che stra­de rurali consumate dal Duca Nelson nel comune di Bronte, e sulla danno­sa lentezza dell'autorità tutoria ad ordinare gli urgenti prov­vedi­men­ti di giu­stizia insi­sten­temente reclamati dall'ammini­strazione Co­munale». (On. Francesco Cim­bali)

1900, «La questione Bronte-Nelson

di B. Radice

Uno dei mille motivi che trascinarono per secoli la lunga lite fra il Comu­ne e la Ducea è descritto dallo storico B. Radice in questo articolo pub­blicato Lunedì 27 Dicembre 1900, sul giornale “La Sicilia–Corriere delle Isole e del Mezzo­giorno” (Catania, anno IX, N. 353, edizione del mattino. La Direzione e Reda­zione era in Via San Benedetto n. 2). L'articolo com­pleto può leggersi a pag. 87 della nostra edizione digitale de «Il Radice sconosciuto»

(...) Sostiene il Comune di Bronte che tal sentiero sia pubblico e quindi hanno diritto di transitarvi i cittadini che debbano recarsi alle trazzere N. 1, 3 e 4 e alle terre comunali sulla sponda destra del torrente Saracena.

Sostiene invece il Duca Nelson che il sentiero scorrente davanti il pro­prio castello sia di sua proprietà per essere necessario al Castello stes­so affinché possa comu­nicare coll’Erranteria, che esso in tempi antece­denti alla donazione a lui fatta del Ducato di Bronte, del quale il Castello un tempo Monastero fa parte, serviva anche di accesso ai vian­danti che andavano a ricoverarsi nel Monastero; ma che dopo tale donazione, e specialmente dopo la transazione del 1861 colla quale egli regolò ogni diritto col Comune di Bronte, egli altro obbligo non abbia che di rispet­tare le trazzere N. 1, 3, 4 riservate al pubblico colla surriferita transa­zione.

Fu per questo che egli nel 1891 credette di ostruire il sentiero più volte ricordato con una catena di ferro. Ma il sindaco del tempo gli notificò ordinanza di rimuovere tanto la spranga quan­to la catena, perché fosse ristabilito il passaggio e sul sen­tiero davanti il Castello e sul ponte di proprietà del duca. Non avendovi ottemperato bonaria­mente il du­ca, il Sindaco fece d'ufficio rimuo­vere e la spranga e la catena. (...)»

1909, Che cosa vuole il popolo di Bronte

«Il popolo di Bronte, che ormai per forza di tradizione nutre verso il Duca Nelson un senso di giusto odio e di rancore, che si è andato accumulando col tempo, per tanti soprusi e tante prepotenze perpetrate dal Nelson con­tro tanta povera gente per cui ha avuto e si è giovato del privilegio di pos­sedere tanto denaro quanto ce ne vuo­le per stancare con un dispen­dioso litigio le finanze modeste d'un rivale più po­vero e ridurlo all'impo­tenza.

Il popolo di Bronte, che conosce ed esecra le infinite usur­pazioni che la Du­cea ha sempre commesso in danno del Comune di Bronte che odia questo straniero venuto da zone glaciali per esercitare monopoli, privilegi e pre­potenze feudali, per imporre la sua volontà, al di sopra è contro gli inte­ressi del Comune attende con calma apparente la decisione. (...) Che il popolo di Bronte, que­sto popolo fiero e talvolta feroce non sia disilluso nella fiducia che giustizia sia fatta ...».

Illustrazione di un ricorso alla On. Giunta Pro­vinciale Amministrativa, spinto dalla citta­dinan­za di Bronte contro la transazione col duca Nelson votata dal Consiglio comunale di Bronte il 15 novembre 1909 (Catania, Stab. Tipografico del Popolo, 1909).

1940, il sequestro della proprietà del nemico inglese

Un mese dopo la dichiarazione di guerra alla Francia e all'In­ghilterra del 10 giugno 1940 ed al grido di Mussolini "Dio stra­maledica gli ingle­si!", la Ducea dei Nelson fu oggetto di confisca e sequestro.
Il Prefetto della provincia di Catania, il 10 Luglio 1940,  emet­te un de­creto col quale, ritenuta l’appli­ca­bi­lità del­la leg­ge di guerra per quanto riguarda la «Du­cea Nel­son», del­l’esten­sio­ne di 6500 ettari colti­vati a pistacchi, vigneti, agru­me­ti e altro, appar­tenente a Arthur Her­bert Nel­son-Hood, visconte di Bridport, VI duca di Bronte da consi­derarsi di nazionalità nemica, ne dispone il sequestro.

Ecco il dispositivo:

 1) Sono sottoposte a sequestro la «Ducea Wood Nelson » e tutte le sue attinen­ze e pertinenze esistenti nel territorio della provincia di Catania; del sequestro formano oggetto anche i crediti, le opere, le provviste e i materiali in genere;

 2) l’Ente gestioni e liquidazioni immobiliari con sede in Roma (via Sabini 7) è no­minato sequestratario dei beni indicati nell’articolo precedente;

 3) dall’Ente sequestratario verranno esercitate le attri­bu­zioni demandate dall’ar­ticolo 299 e seguenti della legge di guerra approvata con il R. D. 8 luglio 1938-XVI. n. 1415;

 4) il detentore dei beni predetti sarà invitato a conse­gnare i beni stessi al seque­stra­tario entro un breve termine e, in mancanza di conse­gna da parte del deten­tore, il sequestratario è autorizzato a immet­tersi diret­tamente nel possesso ri­chie­dendo l’inter­vento della forza pubblica. Il sequestro ha effetto dalla data del decreto che verrà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno a cura dell’Inten­denza di Finanza, che curerà a norma della legge gli ulteriori adempimenti.

La Ducea all'epoca amministrata con procura dal dott. Luigi Mo­dica, pas­sò nelle mani del­l'Ente di coloniz­zazione del lati­fondo sici­liano, che, nel giro di qualche anno, as­se­gnò le terre ai con­tadini, proget­tò e costruì un nuovo tipo di casa colonica e, fra le altre opere, nel­l'am­pio par­co anti­stante l'ingresso della resi­denza dei duchi realizzò un borgo contadino. Ad agosto del 1943 le Forze Alleate sbarcate in Sicilia prende­vano pos­ses­so del Ca­stello; un anno dopo, il 25 febbraio 1944 fu revo­cato il decre­to di sequestro, permettendo ai Nelson Bridport di ritor­nare ad impos­sessarsi nel 1945 del Castello e della Ducea.



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         Horatio Nelson, duca di Bronte