La ducea inglese ai piedi dell'Etna (1799 - 1981)

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Cenni storici sulla Città di Bronte

«Lo spettacolo della più estrema miseria contadina»

1952: il viaggio di Carlo Levi a Bronte

La Ducea: il centro dei pensieri di migliaia di contadini senza terra, l'origine delle loro miserie

La Ducea inglese ai piedi dell'Etna

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di Carlo Levi

(…) L’indomani, per tempo, partimmo per fare l'intero giro dell'Etna. La mattina era limpida e serena. Gli amici che mi accompagnavano, prima di uscire dalla città vollero portarmi al giardino Bellini, tra i viali, i busti dei catanesi celebri, il Labirinto presso cui gli operai scavano una profonda fossa per met­terci un giovane elefante che deve arrivare da Roma, e dove hanno portato i pezzi di una dissepolta fontana del Vaccarini.

Di là si vede un grande prato con un elefante di erba, «u' liotro», una trinacria, una scritta, una stella, dei chiostri per le orchestre, gli alberi verdissimi, dei boschetti, e, dietro, il triangolo bianco e azzurro dell'Etna sul cielo.

Che incantevole luogo da ricordo d'infanzia: avrei voluto essere catanese per aver corso bambino su quei viali.

Uscendo da Catania la strada attraversa subito la sciara di Curia. È un meraviglioso e terribile paesaggio nero e viola e grigio di lava nuda o coperta di licheni, mossa da un vento antichissimo in onde increspate e bizzarre.

In mezzo alla lava sorge un nuovo quartiere popolare di case bianche, come una città nel deserto.

Corriamo in mezzo alla sciara tra lave diverse, intatte, ancora dopo secoli o già sgretolate e trasformate: sono le piante che lentamente rifanno della pietra una terra fertile. Da principio i funghi e i muschi e i licheni che incrostano verdi rossi o grigi il basalto violetto, e lo intaccano fino a quando possa germogliarvi il cardamomo e poi la ginestra, e un'altra specie di ginestra, chiamata, in dialetto, «cichiciaca».

Soltanto dopo la ginestra appare il fico d'India, questa pianta della resurrezione, l'albero della lava, verde tenero sui pendii di pietra. Dopo il fico d'India vengono le altre piante: il fico, il pistacchio, il mandorlo, l'olivo, e ultima, la vite.

Così, dalle piante che vi nascono, si può datare la pietra colata dal vulcano, fino a quando un'altra colata sommerga le ultime viti e gli olivi e i fichi d'India e le ginestre e i licheni, e ritorni il deserto di pietra. (…)

(…) Il Simeto è un vero confine: di qua l’Etna che appare alto in cielo come un dio irrag­giungibile, e il suo regno, fatto in alto di nevi e di basalto e poi, scendendo, di boschi di castagni e di felci, e, più giù, vigne e giardini e agrumeti, e paesi e verdi distese di piante, sul terreno sempre pericolante e casuale, ma pieno di sali, di succhi fertilissimi e vivificanti; dall'altra parte, oltre il Simeto, il feudo desolato e nudo, la terra da grano, spoglia e giallastra, senza alberi, senza case, battuta dal sole, misteriosa nella sua nudità, un mondo lontano e remoto dove gli splendenti Dei del vulcano non hanno posto il piede.

Qui, a Adrano, città illustre, piena di storia, ricca di imprese di briganti, un tempo legati al feudo e più recentemente isolati e individuali, centro antico e recente di lotte bracciantili, dove l'anno scorso fu ucciso, in una dimostrazione di piazza, il bracciante Girolamo Rosano, ci fermammo appena.

Più avanti, lontane sui monti, appaiono Enna e Calascibetta, e dall'altra parte Cesarò, e i monti brulli della provincia di Messina.

Dopo un'altra sciara, la sciara Nova, una delle cento che scendono, come ruscelli, dall'Etna, si entra in Bronte.

Era ormai mezzogiorno, e qui ci fermammo, sia per l'ora, sia perché i miei com­pagni vi avevano degli amici, sia per il fascino del nome, di quel Bronte Ciclope che coi compagni Sterope ed Arge fabbricò, al dire di Esiodo, la folgore di Giove.

È un grande paese senza splendore di architettura ma con belle case sulla strada princi­pale, ricco di storia anch'esso, come Adrano, e come Randazzo a cui fu un tempo soggetto; famoso soprattutto per la Ducea di Bronte, il feudo di Nelson, per i continui moti contadini, per le sue rivolte, e per la feroce repressione di Nino Bixio.

Mentre ci guardavamo attorno cercando qualche vestigio di questi ricordi storici, dei contadini mi riconobbero e mi invitarono a visitare le loro case.

Lasciammo così la strada e il quartiere dei signori e scendemmo, per le stradette ripide, nei Cortili dei poveri. Di rado può vedersi, in un paesaggio lussureggiante, sulle falde del più illustre e fertile vulcano, nell’aria abitata dai più illustri Dèi, tanta miseria.

Visitammo molti Cortili (sono specie di piccoli slarghi attorno a cui sono costruite delle catapecchie): i contadini e le donne dalle soglie ci facevano cenno di entrare per­ché ve­des­simo in che modo vivevano. Per terra, nelle strade, nei Cortili in pendio, scorrono, per mancanza di fogne, le acque putride, e il tanfo prende alla gola.

Le case, se cosi si possono chiamare, sono delle tane dove piove dai tetti di canne, affumicate, spoglie, senza finestre, dove in pochi metri quadrati vivono accatastate otto, dieci, dodici persone. I bambini, dagli splendidi visi di angeli, hanno le pance gonfie per la malaria: è lo spettacolo della più estrema miseria contadina, inaspettata in questa costiera di paradiso.

Nel Cortile dei Garofani, dove il puzzo di fogna è insopportabile, dove non si sa dove appoggiare il piede tra l'acqua nera che scorre, entrammo nel tugurio di un mezzadro di un ettaro e mezzo di terra.

Erano otto nella casa semiscoperchiata; i due bambini più piccoli, Angelo e Nunziata, mi guardavano coi grandi occhi dei bambini malarici. Il padre, che è proprietario del suo tugurio, mi disse che deve pagare per esso al Comune la tassa sulla nettezza urbana, una tassa di millecinquecento lire l'anno.

Lo stesso spettacolo dappertutto: nel Cortile delle Magnolie, nella Piazza della For­tuna, nella via Lorenzo il Magnifico, nella via Pietro Aretino, nella via delle Muse, strani nomi posti dal gusto poetico di un assessore del Comune a quelle immonde cloache.

Chiesi ai contadini di via delle Muse se sapessero chi erano queste amabili Dee.

- Non sappiamo, - mi risposero, - siamo ignoranti, che sappiamo?

- Forse, - mi disse uno col viso sveglio e intelligente, - forse si può interpretare, magari è una ingiuria - Ingiuria, vuole dire, in siciliano, nomignolo, soprannome. Ma quei nomi sono veramente un'ingiuria.

 
 

Carlo LeviLo scritto che vi propo­nia­mo è tratto dal reso­conto di tre giornate che nel 1952 Carlo Levi tra­scorse in Sicilia e del­l’espe­rienza che fece a Bronte ed alla Ducea (che visitò accom­pa­gnato da Michele Pantaleone).

Intitolato “Intorno all’Etna”, fu pubblicato lo stesso anno su una rivista e successi­vamente incluso nel libro “Le parole sono pietre” edito da Einaudi nel 1955.

Carlo Levi (Torino 1902 - Roma 1975), scrittore e pit­tore, fece parte del gruppo antifascista Giu­stizia e Li­bertà dei fratelli Rosselli e di Emilio Lussu e, nel 1935, fu mandato al confino.
Liberato si rifugiò in Francia da dove ritornò solo nel 1942 per partecipare alla lotta partigiana. Dal 1962 al 1973 fu senatore nelle liste della sinistra.

Il suo libro più famoso, Cristo si è fermato a Eboli (scritto negli anni 1943-44 e pubblicato da Einau­di nel 1945), dove denuncia le ingiustizie sociali e rappre­senta i grandi problemi del dopoguerra, ha avuto un suc­cesso straordinario ed è stato tra­dotto in moltis­sime lingue.

Ancora più dura la denuncia delle condizioni d’estre­ma arretratezza in cui versava la classe contadina nel libro “Le parole sono pietre” dal quale è tratto que­sto brano, una raccolta di repor­tages e relazioni scritti in occasione dei suoi viaggi in Sicilia, e nel quale il lungo capitolo che vi propo­niamo è dedicato alla giornata trascorsa a Bronte e fra i contadini della Ducea di Ma­niace.
Qui, infatti, le riforme agrarie dei primi anni cin­quan­ta avevano interessato anche gli estesi pos­sedi­menti dei discendenti di Horatio Nelson: un decreto emanato nel gennaio del 1951 dalla Regione siciliana sottopose in­fatti a scorporo la Ducea per 4.207 ettari su una su­per­ficie com­ples­siva di 6.574 ettari.
Ma i Duchi e i loro amministratori ricorsero a tutti gli espedienti per trarre vantaggio dalla situa­zione.
Obbli­garono, in qualche modo, i contadini a com­pe­rare quel­le terre, che altrimenti sarebbero state espro­pria­te, ad un prezzo perfino supe­riore al loro valore reale. Fu facile, infatti, far cre­dere a chi da decenni lavorava le terre della Ducea al pericolo che quei fondi potes­sero esse­re, altrimenti, comprati da estranei.

E quei contadini s'indebitarono fino all'inverosimile pur di restare sulle loro terre, mentre il Duca rag­giun­geva il suo scopo, mantenendo integra la pro­prietà e perce­pendone una rendita che lo met­te­va al sicuro da ogni legge e da ogni riforma.

Carlo Levi, che visitò la zona in quegli anni, così de­scrisse perfettamente quel che vide e che seppe.

Descrizioni e parole amare e dolorose e che, dopo ol­tre 50 anni, ancora oggi fanno riflettere ma che rivela­vano e denunciavano una situa­zione sociale di arretra­tezza e di disagio e – come scriveva lo stesso Levi – “lo spettacolo della più estrema miseria contadina.”

Il VI Duca di Bronte (a destra la foto del suo pas­sa­porto) ritenne dif­fa­ma­torie alcu­ne af­fer­ma­zioni di Carlo Levi e fece di tutto per evi­tare che nel 1957 il libro fosse pub­bli­cato in ingle­se.
«Quanto a Bronte e alla Ducea, - scriveva Levi nel Set­tembre del 1955, due anni dopo il suo viaggio a Bronte - non mi risulta che in questi anni la situa­zione sia so­stanzial­mente cambiata, mal­grado un piano di scorpo­ro parziale, per quattro­mila ettari circa, non realiz­zato finora e per chissà quanto altro tempo, e il ripetersi delle agitazioni conta­dine.»

 

E dal ricordo della visita a Bronte, nasce la se­guen­te lirica:

Tra glorie antiche e eterne onte
la fatica dei jurnatari
su dal fango dei pagliari
nera copre il feudo a Bronte.
Là la folgore dei mari
in un albergo è sepolta:
qui ogni albero è una fonte
di speranza e di rivolta.
Ha il bracciante chi lo ascolta:
non è solo sopra al monte:
avvocati e feudatari
troveranno braccia pronte.

(C. Levi, 27 maggio 1957)

Carlo Levi non si sentiva affatto né si atteggiava a poe­ta. La poesia rimarrà per tutta la sua esistenza un fatto del tutto privato e personale, assolu­ta­mente intimo e sacral­mente riser­vato; egli non pub­blicò mai i suoi com­poni­menti.
Le sue raccolte poetiche, quindi, pos­so­no es­sere lette solo come una sorta di diario esi­sten­ziale, cui affidare le proprie ansie, le aspettative, le gioie e le ama­rezze che lo accom­pagneranno per tutta l'esi­sten­za.



E Nelson sfidò Carlo LeviPAGINA SUCCESSIVA

La «ducea maledetta» di M. Pantaleone

Nel Cortile delle Magnolie le donne si lagnavano.

- Qui abbiamo la democrazia speciale, - dicevano, - i signori stanno sulla piazza e chi muore, muore.

In una casa, non più grande di tre metri, abitavano dieci cristiani.

- Come dormite?

- La sera facciamo l'albergo, - mi spiegarono.

C'era però, in un angolo, un rubinetto d'acqua, ma, applicato al rubinetto, un conta­tore lucido e nuovo che sembrava più grande della casa.
- Quando piove, - mi disse un contadino, - s'à da mettere gli stivala a' Napulione.

In via Pindaro, una donna sapeva chi fosse la persona a cui era intitolata la strada.
- Pindaro, - mi disse, - era uno di Bronte, un barbiere che abitava qui -.

Una vecchia dalla porta mi dice: - Lu feto che c'este alla mattina, semo tutti bogliuti. Un bracciante ha qui una casa dove si può entrare soltanto carponi e gli costa cinque­cento lire al mese di affitto.

Nel Cortile delle Orchidee corrono le acque putride. Una giovane sposa mi guarda con aria desolata, e con voce dolcissima mi dice:
- Ci vuliva li beddi cessi, na bedda cunduttura.

Cosi vivono i braccianti in Bronte, migliaia di contadini senza terra, che aspettano le terre della riforma agraria, che da un secolo e mezzo combattono per vivere contro la Ducea feudale di Nelson, che si muovono ogni tanto per occupare le terre come nel 1848 e in questo dopoguerra, che ne sono scacciati e ci ritornano pazienti e tenaci e pieni, malgrado tutto, di umana vitalità, e riescono ancora, nei loro fetidi Cortili, a sperare nel futuro.

Il centro dei loro pensieri, l'origine delle loro miserie è la Ducea: decidemmo allora di andare a visitarla. Scendemmo al ponte sul Simeto, sul fiume che qui è pro­fondamente incassato nella roccia, in una piega faglia della crosta terrestre. Di qui la vista di Bronte sulla collina e, dietro, il nuovo profilo dell'Etna visto da nord-ovest, impas­sibile, coi suoi fumacchi chiari sul cielo, contrasta meravigliosa con le brulle pendici del feudo alle nostre spalle. Non potemmo proseguire perché la strada era interrotta, e prendemmo l'altra via, verso Randazzo e Passo Pisciaro.

Si incontravano per le strade i tortoriciani, alti e grossi, poi, tra lave antiche e recenti, si torna nel deserto, cui sovrasta solo e nudo, l'Etna incombente, e compare il piano della Ducea, dove nascono i tre affluenti del Simeto, Martello, Cutò e Saraceno, e i monti desolati su cui corre l'ombra delle nuvole.

Sulle pendici dei monti si vedono, piccolissimi, i pagliari, piccole costruzioni di paglia a cono, con una porticina bassa, in cui vivono, alla rinfusa, i contadini del monte.

Scendemmo in fretta al Castello di Maniaci, il castello dell'ammiraglio Nelson e dei suoi eredi. C'è una chiesa anti­chissima con una Madonna bizantina, un cortile, tra mura di pietra che sanno di caserma e di prigione e, in mezzo, una croce di lava con la scritta

HEROI
IMMORTALI
NILI

Ci sono gli uffici della Ducea, un ufficio postale, i carabinieri. Lord Rowland Arthur Nelson Hood Visconte Bridporth, Duca di Bronte, l'attuale proprietario, ufficiale della marina inglese, erede di Nelson e parente della famiglia reale, non è qui in questo momento.

La storia di Maniaci richiederebbe un libro per essere raccontata. In breve, questa terra, vinta dal guerriero bizantino Giorgio Maniace nel 1040 contro i Saraceni, data a Giovanni Calafato nel 1221 da Federico II, data a Giovanni Ventimiglia da re Martino nel 1396, passata più tardi all'ospedale Grande e Nuovo di Palermo e infine regalata a Orazio Nelson da re Ferdinando di Borbone nel 1799 come compenso per avergli salvato il regno e ammazzato i liberali di Napoli, questa terra ha cambiato signori, ma i suoi contadini hanno continuato a vivere negli stessi pagliari, senza mutamenti, da mille anni.

Ma la lotta per la terra fu sempre viva e ora è più viva che mai, sicché la Ducea di Bronte può essere presa a esempio (come le miniere di Lercara Friddi) del più assurdo anacronismo storico, della persistenza di un perduto mondo feudale e dei difficili tentativi contadini per esistere come uomini.
Meriterebbe di raccontare per esteso questa lunga e complicata vicenda, e come questa terra fosse sequestrata durante la guerra come bene straniero, e come gli ufficiali inglesi si precipitarono a riprenderne possesso il giorno della Liberazione, come oggi essa sia stata dichiarata soggetta a scorporo nei piani della riforma agraria siciliana, come l'amministra­zione del Lord Bridporth si opponga, in tutti i modi legali e illegali, alla Riforma, come reagiscano i contadini alle mosse della Ducea.

Gli ultimi episodi di questa lunghissima guerra sono addirittura incredibili, e io stesso non vi crederei se non ne avessi avuta precisa testimonianza. Giravamo per i campi parlando con i contadini, e uno di essi mi raccontava che, per evitare lo scorporo, la Ducea aveva costretto i contadini a comperare le terre dove lavoravano. Costretti con la minaccia di venderle ad altri e di cacciarli immediatamente dal loro lavoro: e queste vendite forzate avvennero, in buona parte, dopo il termine ultimo del 27 dicembre 1950 consentito dalla legge siciliana di riforma.

Ai contadini che non avevano denaro fu detto di farselo prestare, e tra gli usurai di Tortorici e di Randazzo il tasso usuraio è del 35, del 40, del 50 per cento; il prezzo della terra, imposto dalla Ducea, il doppio del suo valore. I contadini vendettero le vacche, le masserizie per pagare la prima rata e non essere cacciati dalle loro case. La terra deve essere pagata in cinque anni, ma, quando non potessero pagare una rata, tornerebbe proprietaria la Ducea.

Cosi i contadini forzati ad acquistare, si trovano indebitati, rovinati, padroni di una terra venduta dopo i termini legali, soggetta perciò a essere espropriata per la Riforma e data ad altri, in lotta quindi anche fra loro, coi braccianti senza terra di Bronte. Dovettero pagare le spese dell'atto di acquisto, mentre Orazio Nelson, l'eroe di cui Giovanni Meli cantava:

Eccu di novi fulmini la manu
già t'arma Bronti ch'a li tanti provi
cridi in tia trasmutatu lu gran Giovi

fu, lui, esentato dal generoso Borbone, quando ebbe Bronte in dono, dal pagare la somma dovuta per il diritto di investitura.

Mentre i contadini mi raccontano questi fatti, passano armati i campieri e ci guardano diffidenti. C'è nell'aria un feudale terrore. Arriva un contadino, piccolo e magro, a cavallo: è uno di quelli che ha dovuto comprare la terra, è disperato, mi dice: - Siamo cani rinnegati come al tempo dei Saraceni. Anche lui ha dovuto vendere le sue vacche, prendere in prestito il denaro da un usuraio di Tortorici, pagare quarantamila lire per l'atto, non sa più come fare a vivere. Ne arriva un altro, un terzo, un quarto, ciascuno mi espone con precisione di cifre i suoi conti, le sue spese, i suoi guadagni, i suoi debiti.

L'astuto piano del Lord Inglese, o della sua Amministrazione, sarebbe, secondo i loro racconti, quello di sottrarsi alla Riforma vendendo le terre e riprendere le terre più il denaro dai contadini indebitati e nell'impossibilità di pagare, di mettere i contadini in lotta contro i braccianti, di scoraggiare gli uni e gli altri chiudendoli nell'eterna servitù.

Ma questi contadini sanno resistere e per quanto abbandonati e miseri cercano di difendersi.
- Qui nella pianura, - mi dicono, - stiamo già bene. Vada sulla montagna, veda la gente nei pagliari, che vivono come bestie, ce n'è di quelli che vi sono nati e non sono stati neanche denunciati allo stato civile, non si sa quanti sono.

Partimmo dalla Ducea turbati. È forse destino che le cose rimangano in eterno nella loro cristallizzata ferocia e che il contadino debba sempre combattere, senza armi, contro i signori feudali, gli eroi del mare, e gli avvocati delle amministrazioni?

Scoppiano ogni tanto, anche qui, come dappertutto, nelle terre contadine, le rivolte della «cafonità», e finiscono con la morte. Qui a Bronte, nel 1860, dal 2 al 5 agosto il popolo si sollevò per la divisione delle terre, spinto dalle promesse di Garibaldi e dall'antica spe­ranza. Naturalmente, come sempre avviene in queste esplosioni contadine, la rivolta fu feroce, molti i morti tra i signori borbonici, molte le case bruciate.

Agli occhi dei contadini di Bronte la conquista garibaldina non poteva avere che un senso: il possesso delle terre, la libertà dal feuda­lismo; e in nome di Garibaldi si misero a trucidare i signori. Erano più avanti dei tempi. Garibaldi, pressato dal console inglese di Catania timoroso per le sorti della Ducea, mandò Nino Bixio a rimettere ordine. Nino Bixio giunse a cose già calme, dopo che un altro garibaldino, il colonnello Poulet con una compagnia di soldati era già pacificamente entrato in Bronte.

Bixio fu feroce. Con una parvenza di processo fucilò immediatamente i capi della rivolta, fra cui un avvocato, Nicolò Lombardo, un liberale che aveva già guidato in Bronte i moti del '48.

Scendevano dall'Etna le prime ombre della sera e attorno al cratere si allungavano, tirati dai venti, i fusi colorati delle nubi. Entrammo in Randaz­zo dalla porta antica tra il castello e la chiesa di lava scura e di pietra bianca. È una città storica, ma noi passammo in fretta tra i suoi neri conventi, le sue nere chiese, le sue nere case, nelle strade nere, fuggendo verso i vigneti di Linguaglossa.

La luna, piena e rotonda, si era ormai levata nel cielo, illuminando di fredda luce le colate di lava e i boschi. Già il mare brillava lontano di là da Fiumefreddo, e appariva meravigliosa nella distanza, sul mare lucente, la montagna di Taormina. Le barche dipinte partivano per la pesca, i lumi delle lampare splendevano nell'acqua verde come scintillanti costellazioni. (…)

Carlo Levi

(Le parole sono pietre, Einaudi Torino, 1955, pagg. 75-86)



 

La Sicilia di Levi

Dove le parole diventano pietre

di Salvatore Scalia

Negli Anni 50 lo scrittore torinese visitò l'Isola e raccolse gli appunti nel volume che descrive anche la madre di Salva­tore Carnevale, il contadino ucciso dalla mafia

Lo scrittore e pittore Carlo Levi, autore, tra l'altro, di «Cristo si è fermato a Eboli», testimonianza del suo confino in Lucania, e di «Le parole sono pietre», resoconto di uno dei suoi viaggi in Sicilia«Le parole sono pietre», titolo di un fortunato libro di Carlo Levi pubblicato nel 1955 e riedito da Einaudi con una prefazione di Vincenzo Consolo, è diventato un mo­do di dire di cui facciamo spesso uso ma di cui ignoriamo l'origine, o almeno l'occasione che ne ha rinvigorito il significato. S'intuisce il senso che riguarda l'effetto morale con­tun­dente di certe affermazioni, ma abbiamo perduto memoria di persone, fatti e circostanze.
Diciamo subito che sono pietre le parole di Francesca Serio, la madre di Salvatore Carnevale, il conta­dino ribelle assassinato dalla mafia perché aveva fondato a Sciara nel 1951 la sezione del Partito socia­lista e la Camera del lavoro.

Sono pietre scagliate nell'aula del Tribunale di Paler­mo da una madre siciliana che, trovando il coraggio nel suo disperato dolore, aveva osato per prima sfi­da­re cosa nostra, la legge del feudo e le complicità con i vari livelli di potere istituzionale. Carlo Levi la incontrò in uno dei suoi tre viaggi in Si­cilia, nel 1952, nel 1953 e nel 1955, i cui resoconti raccolse in volume.

«Le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le pa­role sono pietre». E sono pietre scagliate contro una Sicilia immobile che, anche attraverso il sacrificio di Salvatore Carnevale, tenta faticosamente di liberarsi di un sistema sociale anacronistico per entrare nel gran­de fiume della storia moderna.

Questo è il filo condut­tore del racconto di Carlo Levi, e la morte, una Sicilia di anime morte come gli aristo­cratici e gli ec­clesia­stici conservati nei loro vestiti sgargianti come se fos­sero in vita nelle cripte del cimitero dei Cappuc­cini a Palermo, costituisce una delle chiavi di lettura del libro. [...]

A raccontare la Sicilia è un torinese illuminato che ha fatto la Resistenza, si è formato con Gobetti e ha mi­litato nel movimento antifascista Giustizia e libertà dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, osservatore acuto del mon­do contadino, autore già di un libro anch'esso entrato nei modi di dire italiani, «Cristo si è fermato a Eboli», testimonianza di un anno di confino in Lucania durante il fascismo. Convinto con Gramsci che il Risorgimento sia stata una rivoluzione mancata, racconta la Sicilia del feudo e delle miniere, cogliendone i tenui segni di risveglio, [...].

Solo i contadini di Bronte appaiono senza speranza: da un secolo e mezzo, da quando nel 1799, i Borboni la donarono all'ammi­raglio britannico grati per averli rimessi sul trono e aver tradito la parola data impic­cando l'ammiraglio Caracciolo, combattono contro la Ducea di Nelson, beffati dalla riforma agraria così co­me erano stati ingannati nel 1860 dai proclami di Gari­baldi sulla terra ai contadini.

«Bixio fu feroce. Con una parvenza di processo fucilò immediatamente i capi della rivolta, fra cui un avvoca­to, Nicolò Lombardo, un liberale che aveva già guidato in Bronte i moti del '48». E furono pietre le parole di Carlo Levi sulla realtà del comune etneo, sui bambini dai visi di angeli con le pance gonfie per la malaria; sulla fame secolare, sui tuguri malsani in cui abitavano in vie dai nomi beffardi che evocavano profumi, piante, muse e fiori. Sicché lo scrittore prese la Ducea di Nelson a model­lo «del più assurdo anacronismo storico, della per­si­stenza di un perduto mondo feudale e dei difficili tenta­tivi dei contadini per esistere come uomini».

Perché i contadini brontesi acquistassero la piena di­gnità umana e sociale sarebbero dovuto passare altri vent'anni, di lotte aspre e di occupazioni delle terre. La rivoluzione mancata del Risorgimento sareb­be sta­ta portata a compimento dopo più di un secolo. [...]

A oltre cinquant'anni di distanza la Sicilia di Carlo Levi appare un mitico mondo contadino che il sacri­ficio dei suoi eroi ha restituito alla storia. Eppure ora che sia­mo entrati nella modernità e fac­ciamo parte dell'Europa, resta grande il disagio socia­le; il lavoro è sempre meno un diritto; l'inefficienza dei governi una costante; altre madri hanno dovuto subire l'assassinio del figlio e gridare il loro dolore; e la mafia, di cui ora almeno l'esistenza è certificata, è sempre più potente e inquina la vita economica e politica.

Con il benessere i contadini hanno avuto fretta di can­cellare le tracce di quel mondo, e noi siciliani sten­tia­mo a rintracciare l'esatta riproposizione di quelle situa­zioni nelle case e nei volti degli immigrati.
[Salvatore Scalia, La Sicilia, 5 Settembre 2010]




«Nino Bixio sceso con Garibaldi in Sicilia per liberare i contadini del feudo che qui ne fa passare cinque per le armi, in difesa del feudo»

1991: il viaggio di Giorgio Bocca a Bronte

La DUCEA di NELSON

«Garibardo, Garibardo, perché hai promesso la terra ai contadini siciliani e poi li hai fatti fucilare?»

(...) Arriviamo a Bronte per una strada che sale e scende per le sciare laviche, per vedere l’altra faccia dell’Etna, l’interna, e per conoscere il paese in cui venne al pettine della storia la generosa ambiguità del garibaldinismo, del Nino Bixio sceso con Garibaldi in Sicilia per liberare i contadini del feudo che qui ne fa passare cinque per le armi, in difesa del feudo.

L’Etna sta sopra Bronte, dal Bronte ciclope che fabbricava le folgori di Zeus, come una grande manta, un grande triangolo nero, lassù ancora striato di neve.

Immane ma anche soffice come i nostri vulcani, dura lava ma anche ceneri, soffioni, ginestre. A Bronte non ci sono più principi, duchi, stemmi e bandiere gigliate.

Al Circolo di cultura sulla via Grande(1) fra poco inizieranno le partite di zecchinetta o di ramino; dall’ex Reale collegio escono scolaresche affrante dalle lezioni, si vedono ciccioni mansueti e gentili come nella ricca America, è arrivata anche qui la nutella dei miei concittadini albesi, nutritori delle masse, sono arrivate le merendine dei parmigiani, anche qui gli zaini multicolori e le ragazze «sfacciate» che chiedono passaggi agli automobilisti per andare a Randazzo o Cesarò.

Per la via Grande il tripudio medicinal chiromantico è al suo pieno, dovunque cartelli e insegne di dulcamara esortano alle analisi, alle dialisi, alle fisiokinesiterapie, come se l’intera popolazione fosse composta da diabetici, leucemici, nefritici, afflitti da emorroidi e tonsilliti, bisognosi di strumenti ortopedici.

La salute pubblica trasformata in tutto il sud, ma soprattutto qui nella Sicilia orientale, in una gigantesca speculazione privata. A Mes­sina è appena esploso lo scandalo delle «analisi d’oro» in cui si sono intrecciati dirigenti della Ussl, medici, biologi, docenti universitari, sindacalisti, onorevoli, tutti d’accordo a fare nei loro laboratori privati tre analisi per poi farne pagare dieci alle Ussl, a sabotare i laboratori pubblici per far fiorire i privati.

Seicentomila analisi in un anno nella città di Messina per trecentomila abitanti, altrettanti a Catania e a Siracusa, una sanità da paese sottosvi­luppato che non essendo in grado di curare i pazienti li manda spesati con l’accompagnatore nelle cliniche del nord o all’estero, a farsi operare al cuore a Houston o a un rene a Parigi come cosa normale per il nuovo ceto al potere, non per i poveri diavoli che magari crepano perché un letto di ospedale è occupato dalla nonna di un onorevole che così ha sistemato gratuitamente la sua vecchiaia.

Storie turche, di un medico che denuncia lo scandalo delle «analisi d’oro» e poi scopre che uno di quelli che tirano le fila è suo padre, barone universitario.

A vederli, questi siculi etnei non sembrano così malconci, il commercio dei pistacchi in gran voga fra i gelatai e i pasticcieri li ha arricchiti, almeno a giudicare dalle automobili di lusso ferme come caimani sulla riva delle strade. Vado nella biblioteca comunale(2) per vedere cosa hanno sull’eccidio del 1860. Ne hanno di documenti e interessanti: in quell’anno prima dell’Unità i signori di Bronte, i proprietari terrieri, tenevano a spese del Comune trentotto balie per allattare i loro bastardi.

Il cronista Benedetto Radice, con carità per il luogo natio ma rispetto per la verità, racconta le sevizie e le infamie che i ricchi riservavano ai poveri. Si vede che storco un po’ la bocca perché il bibliotecario che è uomo di spirito mi chiede: «Dottore, ma lei è per il suo conterraneo Bixio o per i nostri cafoni?».

«E lei professore?»

«Non posso negare» dice lui con un sottile sorrisino, «che ci furono degli eccessi.»

E chiamali eccessi: secolare ferocia contadina e freddo calcolo politico dei garibaldini. Accanto a Bronte c’è la Ducea di Nelson, l’eroe inglese, proprietà dei suoi inglesi successori e senza gli inglesi Garibaldi non sarebbe sbarcato a Marsala e forse non ci sarebbe stato il Risorgimento.

All’annuncio che Garibardo è sbarcato in Sicilia e ha promesso la terra ai contadini incomincia a Bronte il fermento popolare e quando il generale è a Messina, a poche giornate di marcia, la pentola esplode come usa nelle rivolte contadine: «Verso mezzogiorno la piazza vicina al Casino dei Civili era bollimento nero».

La folla cresce in numero e furore, si sente gridare «Viva l’Italia, a morte i sorci», i signori, e si va all’eccidio: il notaio Cannata «legato per i piedi e orrendamente evirato lo gettarono semi vivo su un rogo. Poi toccò a suo figlio Antonio».

Per cinque giorni Bronte è nelle mani dei rivoltosi, «verso l’una di notte risonava per le vie la voce di un banditore preceduto da un rullar di tamburo: “All’ordine del generale milanese chi ha sorci in casa li metta fuori, pena l’incendio delle case o la morte”».

Poi arriva Nino Bixio con la commissione militare di giustizia presieduta dal capitano De Felici: cinque sono fucilati sul posto, otto mandati all’ergastolo. Il conto torna: i «sorci» hanno avuto undici morti(3).

Bixio scrive al commissario di polizia di Cesarò: «Era necessario un esempio e lo hanno avuto tremendo». Poi verranno i distinguo, le scuse, «la sentenza fu del tribunale militare, io non potei intercedere».

Garibardo, Garibardo, perché hai promesso la terra ai contadini e poi li hai fatti fucilare?

Garibaldi se fosse qui fra noi direbbe: «Guardi qui, in confidenza, sono almeno quindici le lettere e le urgenti richieste di aiuto del console inglese di Catania, della duchessa di Bronte erede Nelson, dei suoi amministratori».

Chi è morto nell’agosto del ‘60 a Bronte è morto, i signori son sempre signori, i cafoni qualche sera nelle osterie o nelle carbonaie dell’Etna possono, dopo aver bevuto, cantare:

«A li mastri pugna e cauci
pugna e cauci a li mastrazzi
cavaleri arsi tutti
tutti ‘mpisi gli sbirrazzi».

Oggi la Ducea di Nelson è della Regione, gliela ha venduta il duca di Bridport(4) erede dell’ammiraglio. Le Regioni sono benemerite quando acquistano monumenti insigni, mediocri quando li manten­go­no: i prati all’inglese del giardino sono già invasi dalle erbacce, mancano le irrigazioni e le rastrel­la­ture quotidiane, gli intonaci delle stalle si scrostano, c’è odor di muffa nella galleria dei ritratti.

Resta solo lui, Nelson, negli oli, nelle caricature, nelle acqueforti, Orazio il vincitore di Trafalgar, l’uomo di bronzo in cima alla colonna nel cuore della Londra imperiale. Suo il bicchiere di cristallo con cui brindò la sera della grande vittoria con il marsala acquistato dai Woodhouse per «his Majesty’s Navy».

Mobili, moquette, panoplie, ritratti, disegni di cannoni e battaglie navali, vessilli sventolanti, fanfare risuonanti in questa oasi straniera nella vegetazione etnea, fra i morti, i viventi e i nascituri di questa terra feroce, ardente, sotto il fumante Mongibello che domina anche la Ducea come una grande manta triangolare, nero e soffice.

Niente di questa civiltà siciliana ha avuto il permesso di entrare nell’imperial britannica tradizione della Ducea, neppure una pianta grassa. Nella chiesa del 1200, dove i benedettini seppellirono il loro fondatore, i Nelson Bronte hanno messo i sarcofaghi loro e dei loro britannici fattori come Samuele Grisley «per cinquanta anni impiegato fedele del duca di Bronte» o Filippo Thovez «commissario della marina di sua Maestà».

Garibardo, Garibardo, perché hai promesso la terra ai contadini siciliani e poi li hai fatti fucilare? (…)

(tratto da L’Inferno, profondo sud male oscuro di Giorgio Bocca -  A. Mondadori, Milano 1992 - Pagg. 158 - 160)


Note della redazione:
(
1) La via Grande di Bocca a Bronte non esiste, trattasi del Corso Umberto.
(2) Non alla biblioteca comunale ma in quella del Real Collegio Capizzi.
(3) I morti non furono 11 ma 16.
(4) La Ducea Nelson è stata acquistata nel 1961 dal Comune di Bronte e non dalla Regione siciliana.

 

Vedi pure:  Horatio Nelson, duca di Bronte,  La Grande lite


Cenni storici su Bronte

         La polemica di Levi col VI Duca

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