6. Bronte sotto il “Mero e Misto Impero” di Randazzo Nel 1337, prima di morire, Federico II d’Aragona, fra l’altro,
«elevò a marchesato la città di Randazzo, di cui facevano parte
vari casali, fra i quali Bronte e Maniace […] assegnandolo al suo
terzo genito Giovanni, da possedere dopo la morte della regina
Eleonora, sua madre, essendo quelle terre di dominio regionale.» Egli
«come marchese di Randazzo, ne possedeva la signoria […] né più
né meno degli altri feudatari; solo come a principe reale, gli fu
concesso il
mero e misto impero(1) su tutta la comarca di Randazzo.
Randazzo […] fu da Federico II svevo dato in dominio alla città di
Messina col privilegio del dicembre 1199, per la fedeltà che questa
aveva serbato ad Arrigo VI, suo padre: “Concediamo a voi, Messinesi, e
ai vostri eredi, in perpetuo, Randazzo col territorio e pertinenze
sue.” […] Ora se Randazzo […] fu soggetto prima a Messina […] non può
affermarsi l’antichità del suo dominio. Ed è veramente incomprensibile
come la città di Randazzo avesse potuto esercitare la giurisdizione di
mero e misto impero sin dai tempi normanni sugli abitanti dei casali
vicini, mentre gli stessi suoi cittadini dovevano essere giudicati dal
giustiziere di Messina. […] Il diritto di mero e misto impero non
apparteneva dunque alla città di Randazzo sibbene alla Curia
marchionale dell’Infante Giovanni; intanto gli ufficiali della corte
abusavano del loro potere a danno degli abitanti di Maniace e di
Bronte. Le popolazioni, mal soffrendo le illecite estorsioni e
soperchierie […] nel 1345 si volsero all’abate Garcia […] il quale
sporse doglianze all’Infante Giovanni chiedendo che da indi innanzi Maniacesi e Brontesi fossero giudicati secondo i propri capitoli. Fece
il marchese buon viso alle ragioni dell’abate e con lettera patente
del 10 settembre 1347, data in Catania, limitava il diritto del
giustiziere, vietandogli d’ingerirsi nelle cause criminali di Maniace
e di Bronte, […]. Le conferme regie non salvavano gli abitanti dagli
abusi. In quei secoli di ferro, in quel battagliare di fazioni, in
quel disprezzo d’ogni legge, le stesse parole del re erano rese vane
dal prepotere degli ufficiali; i quali, come nulla fosse, nonostante
le conferme e le minacce continuarono per parecchi secoli a
sopraffarli. […] Ma come venne la città di Randazzo in
possesso di questo diritto sovrano? L’origine e la ragione di questo
preteso privilegio della città va cercato nelle vicende tempestose
di quell’epoca […]» che
il Radice fa seguire numerose e documentate fino a pag. 153 e poi
continua:
«Dalle cose esposte si genera in noi la certezza che
questo famoso dritto di mero e misto impero, così caro alla città di
Randazzo, non abbia avuto altra sorgente che l’ignoranza ed anarchia
dei tempi, quando città e baroni, pescando nel torbido, agognavano
farsi più grandi e indipendenti del re. […] Randazzo, profittando
delle turbolenze […] curò far sanzionare e legalizzare la fatta
usurpazione a danno della libertà dei casali, e nei tempi posteriori
lo conservò per via di ricchi donativi. Quando infatti Bronte iniziò
il giudizio, visto pericolante il preteso diritto, la città sborsò
9000 ducati per comprarlo. […]
Oltre la giurisdizione civile e
criminale sugli 11 o 12 casali nel sec. XIV l’arciprete di Randazzo,
don Matteo d’Elefante, farneticava anche lui di una giurisdizione
ecclesiastica concessa da papa Urbano II all’arciprete di S. Maria. Il
buon arciprete ignorava che questi casali erano già appartenuti alla
diocesi di Messina, e che nel 1178 le chiese di Maniace, Corvo,
Rotolo, S. Venera erano state cedute al monastero benedettino, sorto
da poco a Maniace.» E conclude ironicamente il Nostro con queste
parole: «Non ci voleva altro per i poveri abitanti di Bronte
che questa unione del pastorale colla spada.
Gli ufficiali di Randazzo continuavano nel loro esercizio di mungere
i Brontesi, impotenti a causa della divisione in varie masse, a
frenare l’ingordigia; onde parecchie famiglie facoltose, non potendo
più sopportare le loro estorsioni, furono costrette ad abbandonare il
luogo natìo.
Venuto intanto al potere Carlo V, cui era già nota
la strapotenza dei baroni e dei vassalli, per abbassare l’orgoglio dei
primi, divenuti temibili e dannosi anche allo Stato, e venire in
sollievo dei comuni feudali, immiseriti dai baroni laici ed
ecclesiastici, diede facoltà di reclamare al demanio, cioè di
venire considerati come luoghi demaniali, dipendenti solo dal re.
A gran letizia accolsero i Brontesi l’imperiale provvedimento per
togliersi dalla mala signoria di Randazzo. Questa febbre di
liberazione cominciò nel 1595, dopo la riunione dei vari popoli nel
solo casale di Bronte. L’unione fa la forza.»(2)
Seguono i memoriali per la demanializzazione e «con licenza di
Giuseppe Romeo, Governatore dello stato di Bronte, si fece sulla
piazza pubblica del Pozzo il primo comizio popolare per la libertà.”
(3 settembre 1595) […].» Furono eletti i procuratori per la lite e, quindi, fu deliberata
una tassa per le spese del giudizio. «Alla novella che Bronte si
accingeva a contrastare il secolare privilegio, Randazzo, agl’11
novembre dello stesso anno, riunì il suo consiglio, che elesse
Giovanni Maria Petrusa per la difesa del predetto diritto.
Estorsioni,
composizioni, sevizie di ogni genere, ruberie, violenze denunziarono i
sindaci di Bronte contro i capitani e gli ufficiali di Randazzo, ai
quali l’esercizio del diritto di mero e misto impero dava un guadagno
di più di onze 400 all’anno, (L. 5100) oltre le illecite ed
innumerevoli estorsioni e composizioni, per le quali al solito, si
invocavano le prammatiche ed i capitoli del regno. […]
Tizio era multato in onze tredici, oltre la pena del carcere per aver
visto un bandito e non averlo denunziato; Filano in onze dodici per
avere praticato con banditi; Caio in onze sei perché alla macellazione
di un bove mancava un testimone, nonostante ci fosse stato
l’intervento dei giurati; Sempronio in onze dodici per avere macellata
una vacca contro la prammatica; un tale in onze diecisette sotto
pretesto di avere fatto resistenza al capitano; tale altro in onze
trentacinque, oltre il bando e il carcere, per avere dato pugni; uno
in onze dieci per avere venduto del grano contro una pretesa
prammatica; un altro in onze ventiquattro sotto pretesto dì non avere
rivelato la seminagione di terre; chi in onze cinque e il carcere per
avere trovato un pezzo di carne di vacca nella pentola di un povero
diavolo; chi in onze quattro perché trovato fuori della Terra col
fucile carico: era una guardia che accompagnava il capitano. Etc..
Le multe piovevano a piacimento degli ufficiali, più o meno grosse,
secondo le facoltà dei contravventori, da onze due ad onze quaranta, e
si pagavano in denaro, in formaggio, in frumento; e se l’imputato era
insolvente, si costringeva un terzo a fare piaggeria per lui per mezzo
di contratti.
Oltre le multe, l’accusato era spesso mandato a provare
le delizie dei ceppi nelle carceri di Randazzo per giorni e mesi
ad libitum del signor capitano, salvo ad uscirne prima, sborsando
altre somme. Per maggiore ironia, gli arrestati condotti in Randazzo,
dovevano pagare anche il pedaggio. Quei signori capitani ed ufficiali rifìutavano di pagare il posento, come dicevasi allora, cioè
l’alloggio; negavano il pagamento delle cose comprate; a chi
toglievano la giumenta, a chi il cavallo, a chi i bovi, sotto un
pretesto qualunque. Bastonarono di santa ragione il capitano di
Bronte, perchè, facendo di notte la ronda, aveva colto il capitano di
Randazzo, Francesco Romeo, che a forza voleva entrare nella casa di
una onesta famiglia. Il capitano Giovanni Gozzo scassinava la casa del
notaio Paxia col pretesto di trovare la procura contro Randazzo.
Quando non c’era materia di ammende e di multe, s’inventavano delitti
e contravvenzioni pur di spillar denaro.» Elencate le tante angherie che i poveri perseguitati
brontesi dovevano subire dagli ufficiali che esercitavano il
dritto di mero e misto impero il Radice conclude scrivendo che il
loro «era un
ufficio di banditi con la garanzia dell’immunità e la protezione delle
prammatiche e dei capitoli del regno, più pericoloso di quello dei
banditi di mestiere.»
[…] Passa quindi a parlare dell’impoverimento di Bronte a causa
delle frequenti carestie e delle pesti che avevano travagliato la
Sicilia alla fine del 1500 e nella prima metà del 1600, per cui il re
Filippo IV di Spagna era stato costretto dai bisogni per la guerra
contro i Francesi a vendere tutti i beni del real patrimonio. I
rettori dell’ Ospedale Grande e Nuovo di Palermo si offrirono di
acquistare il mero e misto impero detenuto da Randazzo, ma quel
comune, sventata la manovra, riuscì ad ottenere la conferma per 2.400
onze.
Allora i rettori dell’Ospedale rilanciarono l’offerta a 14.000
scudi, alla quale si oppose Randazzo e “gli ufficiali fatti più
forti e arroganti continuarono nell’esercizio delle loro angherie.”
Nel 1636 per una grande carestia e per le continue sevizie di Randazzo
i Brontesi si ribellarono al grido di : “Vadano via i cattivi
governatori, viva il re di Francia” Il paese per questo fu dichiarato
reo di lesa maestà; molti furono arrestati e condotti in Messina dove
furono giudicati e condannati a pene gravi. Dieci anni dopo, nel
1647, a Napoli scoppia il tumulto che elegge
capitano del popolo Masianello e in Sicilia, affamata da una ennesima
carestia, Palermo insorge “con Giuseppe Alessi gridando: pane
grande, viva il re di Spagna e fuori il mal governo” a cui
seguirono tutte le altre città dell’Isola. “Nella terra di Bronte
[…] i villani sollevati fecero levar via
le gabelle.” Per “nuovi pressanti bisogni di denaro […] il re Filippo […]
ordinava vendersi per non dire rivendersi all’incanto ai maggiori
offerenti quel che restava del Real Patrimonio: jus luendi,
tonnare, terre con titoli di baroni, e il diritto del mero e misto
impero. Accolsero i Brontesi, con animo aperto alla speranza, la
fausta occasione per liberarsi dalle continue vessazioni, e nel 26
luglio e 13 ottobre 1637 tennero pubblico consiglio per prendere a
mutuo 14.000 scudi e offrirli al governo di sua maestà; 10.000 per la
compra del mero e misto impero, e 4.000 per ottenere la grazia del
tumulto del 6 aprile 1636. Ma nessuno in Bronte, nonostante che ci
fossero persone facoltose, volle sborsare questa somma. Né fuori, per
le mene dei pii rettori, il paese trovò credito; onde per riavere la
libertà, i beni confiscati, la preminenza negli uffici e i privilegi,
dei quali era stato spogliato per quella sedizione, che cagionò lutti
e miserie, Bronte fu costretto dalla dura necessità di ricorrere
all’Ospedale e convenire con esso per la compra del mero e misto
impero, sperando così maggiore sollievo ai suoi mali. Volle però
l’Università contribuire per metà a quella compra per avere il diritto
alla nomina dei giurati, del capitano, del giudice e del fiscale, e
nel 19 novembre 1637 fra i rettori dell’Ospedale e il dottore Paolo Ortale, procuratore per Bronte si concordarono i capitoli.
Nel fatto
però essi magnifici rettori eleggevano a loro libito giurati, giudici
e capitano, e più volte il viceré per denunzia dei cittadini annullò
l’elezione fatta in violazione dei capitoli e delle leggi.” Segue l’elenco dei capitoli che stabilivano che “il capitano,
i giurati e il giudice civile e criminale e il fiscale devono essere
cittadini brontesi ed eletti ogni anno […] in pubblico consiglio […].
I capitoli firmati dai rettori e ospitaleri, dai giurati e dal sindaco
furono confermati dal Tribunale del Real Patrimonio e approvati dal
consiglio popolare generale.” I giurati di Randazzo, però, fecero una ulteriore offerta di 5.000
scudi per non perdere il diritto già venduto alla loro città, e i
rettori, a loro volta offrirono 22.000 scudi, parte per il comune di
Bronte e parte per conto dell’Ospedale. Nel gennaio 1638 si tenne in
Bronte un pubblico comizio “per la libertà della terra, e
unanimemente fu deliberato prendere a mutuo 9.000 scudi dai rettori
dell’Ospedale […]. “La Regia Corte, nonostante la vendita fatta alla città di
Randazzo nel 1630 […] annullava il contratto in vista della maggiore
offerta e nel 22 maggio 1638 vendette ai rettori dell’Ospedale Grande
e Nuovo di Palermo il diritto del mero e misto impero, la
giurisdizione civile e criminale su Bronte. Il 27 maggio dello stesso
anno 1638 il viceré, duca di Montalbano, concedeva ai Brontesi la
grazia del tumulto.[…] Fu festa e luminarie. Ebbe così il paese il triste spettacolo di vedere allo Scialando
innalzata la forca, segno del mero e misto impero.” (3) Seguono documenti da pag. 163 a pag. 169. |