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Benedetto Radice

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Benedetto Radice, "Memorie storiche di Bronte"

Florilegio di Nicola Lupo

Florilegio delle Memorie storiche di Bronte - Indice


6. Bronte sotto il “Mero e Misto Impero” di Randazzo

Nel 1337, prima di morire, Federico II d’Aragona, fra l’altro, «elevò a marchesato la città di Randazzo, di cui facevano parte vari casali, fra i quali Bronte e Maniace […] assegnandolo al suo terzo genito Giovanni, da possedere dopo la morte della regina Eleonora, sua madre, essendo quelle terre di dominio regionale.»

Egli «come marchese di Randazzo, ne possedeva la signoria […] né più né meno degli altri feudatari; solo come a principe reale, gli fu concesso il mero e misto impero(1) su tutta la comarca di Randazzo. Randazzo […] fu da Federico II svevo dato in dominio alla città di Messina col privilegio del dicembre 1199, per la fedeltà che questa aveva serbato ad Arrigo VI, suo padre: “Concediamo a voi, Messinesi, e ai vostri eredi, in perpetuo, Randazzo col territorio e pertinenze sue.” […] Ora se Randazzo […] fu soggetto prima a Messina […] non può affermarsi l’antichità del suo dominio.

Ed è veramente incomprensibile come la città di Randazzo avesse potuto esercitare la giurisdizione di mero e misto impero sin dai tempi normanni sugli abitanti dei casali vicini, mentre gli stessi suoi cittadini dovevano essere giudicati dal giustiziere di Messina. […]

Il diritto di mero e misto impero non apparteneva dunque alla città di Randazzo sibbene alla Curia marchionale dell’Infante Giovanni; intanto gli ufficiali della corte abusavano del loro potere a danno degli abitanti di Maniace e di Bronte.

Le popolazioni, mal soffrendo le illecite estorsioni e soperchierie […] nel 1345 si volsero all’abate Garcia […] il quale sporse doglianze all’Infante Giovanni chiedendo che da indi innanzi Maniacesi e Brontesi fossero giudicati secondo i propri capitoli. Fece il marchese buon viso alle ragioni dell’abate e con lettera patente del 10 settembre 1347, data in Catania, limitava il diritto del giustiziere, vietandogli d’ingerirsi nelle cause criminali di Maniace e di Bronte, […].

Le conferme regie non salvavano gli abitanti dagli abusi. In quei secoli di ferro, in quel battagliare di fazioni, in quel disprezzo d’ogni legge, le stesse parole del re erano rese vane dal prepotere degli ufficiali; i quali, come nulla fosse, nonostante le conferme e le minacce continuarono per parecchi secoli a sopraffarli. […]

Ma come venne la città di Randazzo in possesso di questo diritto sovrano? L’origine e la ragione di questo preteso privilegio della città va cercato nelle vicende tempestose di quell’epoca […]» che il Radice fa seguire numerose e documentate fino a pag. 153 e poi continua:
«Dalle cose esposte si genera in noi la certezza che questo famoso dritto di mero e misto impero, così caro alla città di Randazzo, non abbia avuto altra sorgente che l’ignoranza ed anarchia dei tempi, quando città e baroni, pescando nel torbido, agognavano farsi più grandi e indipendenti del re. […]

Randazzo, profittando delle turbolenze […] curò far sanzionare e legalizzare la fatta usurpazione a danno della libertà dei casali, e nei tempi posteriori lo conservò per via di ricchi donativi. Quando infatti Bronte iniziò il giudizio, visto pericolante il preteso diritto, la città sborsò 9000 ducati per comprarlo. […]
Oltre la giurisdizione civile e criminale sugli 11 o 12 casali nel sec. XIV l’arciprete di Randazzo, don Matteo d’Elefante, farneticava anche lui di una giurisdizione ecclesiastica concessa da papa Urbano II all’arciprete di S. Maria. Il buon arciprete ignorava che questi casali erano già appartenuti alla diocesi di Messina, e che nel 1178 le chiese di Maniace, Corvo, Rotolo, S. Venera erano state cedute al monastero benedettino, sorto da poco a Maniace.»

E conclude ironicamente il Nostro con queste parole:

«Non ci voleva altro per i poveri abitanti di Bronte che questa unione del pastorale colla spada.
Gli ufficiali di Randazzo continuavano nel loro esercizio di mungere i Brontesi, impotenti a causa della divisione in varie masse, a frenare l’ingordigia; onde parecchie famiglie facoltose, non potendo più sopportare le loro estorsioni, furono costrette ad abban­donare il luogo natìo.
Venuto intanto al potere Carlo V, cui era già nota la strapotenza dei baroni e dei vassalli, per abbassare l’orgoglio dei primi, divenuti temibili e dannosi anche allo Stato, e venire in sollievo dei comuni feudali, immiseriti dai baroni laici ed ecclesiastici, diede facoltà di reclamare al demanio, cioè di venire considerati come luoghi demaniali, dipendenti solo dal re.
A gran letizia accolsero i Brontesi l’imperiale provvedimento per togliersi dalla mala signoria di Randazzo. Questa febbre di liberazione cominciò nel 1595, dopo la riunione dei vari popoli nel solo casale di Bronte. L’unione fa la forza
(2)

Seguono i memoriali per la demanializzazione e «con licenza di Giuseppe Romeo, Governatore dello stato di Bronte, si fece sulla piazza pubblica del Pozzo il primo comizio popolare per la libertà.” (3 settembre 1595) […].»

Furono eletti i procuratori per la lite e, quindi, fu deliberata una tassa per le spese del giudizio.

«Alla novella che Bronte si accingeva a contrastare il secolare privilegio, Randazzo, agl’11 novembre dello stesso anno, riunì il suo consiglio, che elesse Giovanni Maria Petrusa per la difesa del predetto diritto.
Estorsioni, composizioni, sevizie di ogni genere, ruberie, violenze denunziarono i sindaci di Bronte contro i capitani e gli ufficiali di Randazzo, ai quali l’esercizio del diritto di mero e misto impero dava un guadagno di più di onze 400 all’anno, (L. 5100) oltre le illecite ed innumerevoli estorsioni e composizioni, per le quali al solito, si invocavano le prammatiche ed i capitoli del regno. […]

Tizio era multato in onze tredici, oltre la pena del carcere per aver visto un bandito e non averlo denunziato; Filano in onze dodici per avere praticato con banditi; Caio in onze sei perché alla macellazione di un bove mancava un testimone, nonostante ci fosse stato l’intervento dei giurati; Sempronio in onze dodici per avere macellata una vacca contro la prammatica; un tale in onze diecisette sotto pretesto di avere fatto resistenza al capitano; tale altro in onze trentacinque, oltre il bando e il carcere, per avere dato pugni; uno in onze dieci per avere venduto del grano contro una pretesa prammatica; un altro in onze ventiquattro sotto pretesto dì non avere rivelato la seminagione di terre; chi in onze cinque e il carcere per avere trovato un pezzo di carne di vacca nella pentola di un povero diavolo; chi in onze quattro perché trovato fuori della Terra col fucile carico: era una guardia che accompagnava il capitano. Etc..

Le multe piovevano a piacimento degli ufficiali, più o meno grosse, secondo le facoltà dei contravventori, da onze due ad onze quaranta, e si pagavano in denaro, in formaggio, in frumento; e se l’imputato era insolvente, si costringeva un terzo a fare piaggeria per lui per mezzo di contratti.

Oltre le multe, l’accusato era spesso mandato a provare le delizie dei ceppi nelle carceri di Randazzo per giorni e mesi ad libitum del signor capitano, salvo ad uscirne prima, sborsando altre somme. Per maggiore ironia, gli arrestati condotti in Randazzo, dovevano pagare anche il pedaggio.

Quei signori capitani ed ufficiali rifìutavano di pagare il posento, come dicevasi allora, cioè l’alloggio; negavano il pagamento delle cose com­prate; a chi toglievano la giumenta, a chi il cavallo, a chi i bovi, sotto un pretesto qualunque.

Bastonarono di santa ragione il capitano di Bronte, perchè, facendo di notte la ronda, aveva colto il capitano di Randazzo, Francesco Romeo, che a forza voleva entrare nella casa di una onesta famiglia. Il capitano Giovanni Gozzo scassinava la casa del notaio Paxia col pretesto di trovare la procura contro Randazzo. Quando non c’era materia di ammende e di multe, s’inventavano delitti e contravvenzioni pur di spillar denaro.»

Elencate le tante angherie che i poveri perseguitati brontesi dovevano subire dagli ufficiali che esercitavano il dritto di mero e misto impero il Radice conclude scrivendo che il loro «era un ufficio di banditi con la garanzia dell’immunità e la protezione delle prammatiche e dei capitoli del regno, più pericoloso di quello dei banditi di mestiere.» […]

Passa quindi a parlare dell’impoverimento di Bronte a causa delle frequenti carestie e delle pesti che avevano travagliato la Sicilia alla fine del 1500 e nella prima metà del 1600, per cui il re Filippo IV di Spagna era stato costretto dai bisogni per la guerra contro i Francesi a vendere tutti i beni del real patrimonio.

I rettori dell’ Ospedale Grande e Nuovo di Palermo si offrirono di acquistare il mero e misto impero detenuto da Randazzo, ma quel comune, sventata la manovra, riuscì ad ottenere la conferma per 2.400 onze.

Allora i rettori dell’Ospedale rilanciarono l’offerta a 14.000 scudi, alla quale si oppose Randazzo e “gli ufficiali fatti più forti e arroganti continuarono nell’esercizio delle loro angherie.”

Nel 1636 per una grande carestia e per le continue sevizie di Randazzo i Brontesi si ribellarono al grido di : “Vadano via i cattivi governatori, viva il re di Francia” Il paese per questo fu dichiarato reo di lesa maestà; molti furono arrestati e condotti in Messina dove furono giudicati e condannati a pene gravi.

Dieci anni dopo, nel 1647, a Napoli scoppia il tumulto che elegge capitano del popolo Masianello e in Sicilia, affamata da una ennesima carestia, Palermo insorge “con Giuseppe Alessi gridando: pane grande, viva il re di Spagna e fuori il mal governo” a cui seguirono tutte le altre città dell’Isola. “Nella terra di Bronte […] i villani sollevati fecero levar via le gabelle.”

Per “nuovi pressanti bisogni di denaro […] il re Filippo […] ordinava vendersi per non dire rivendersi all’incanto ai maggiori offerenti quel che restava del Real Patrimonio: jus luendi, tonnare, terre con titoli di baroni, e il diritto del mero e misto impero.

Accolsero i Brontesi, con animo aperto alla speranza, la fausta occasione per liberarsi dalle continue vessazioni, e nel 26 luglio e 13 ottobre 1637 tennero pubblico consiglio per prendere a mutuo 14.000 scudi e offrirli al governo di sua maestà; 10.000 per la compra del mero e misto impero, e 4.000 per ottenere la grazia del tumulto del 6 aprile 1636.

Ma nessuno in Bronte, nonostante che ci fossero persone facoltose, volle sborsare questa somma. Né fuori, per le mene dei pii ret­tori, il paese trovò credito; onde per riavere la libertà, i beni confiscati, la preminenza negli uffici e i privilegi, dei quali era stato spo­gliato per quella sedizione, che cagionò lutti e miserie, Bronte fu costretto dalla dura necessità di ricorrere all’Ospedale e convenire con esso per la compra del mero e misto impero, sperando così maggiore sollievo ai suoi mali.

Volle però l’Università contribuire per metà a quella compra per avere il diritto alla nomina dei giurati, del capitano, del giudice e del fiscale, e nel 19 novembre 1637 fra i rettori dell’Ospedale e il dottore Paolo Ortale, procuratore per Bronte si concordarono i capitoli.

Nel fatto però essi magnifici rettori eleggevano a loro libito giurati, giudici e capitano, e più volte il viceré per denunzia dei cittadini annullò l’elezione fatta in violazione dei capitoli e delle leggi.”

Segue l’elenco dei capitoli che stabilivano che “il capitano, i giurati e il giudice civile e criminale e il fiscale devono essere cittadini brontesi ed eletti ogni anno […] in pubblico consiglio […]. I capitoli firmati dai rettori e ospitaleri, dai giurati e dal sindaco furono confermati dal Tribunale del Real Patrimonio e approvati dal consiglio popolare generale.”

I giurati di Randazzo, però, fecero una ulteriore offerta di 5.000 scudi per non perdere il diritto già venduto alla loro città, e i rettori, a loro volta offrirono 22.000 scudi, parte per il comune di Bronte e parte per conto dell’Ospedale.

Nel gennaio 1638 si tenne in Bronte un pubblico comizio “per la libertà della terra, e unanimemente fu deliberato prendere a mutuo 9.000 scudi dai rettori dell’Ospedale […].

La Regia Corte, nonostante la vendita fatta alla città di Randazzo nel 1630 […] annullava il contratto in vista della maggiore offerta e nel 22 maggio 1638 vendette ai rettori dell’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo il diritto del mero e misto impero, la giurisdizione civile e criminale su Bronte.

Il 27 maggio dello stesso anno 1638 il viceré, duca di Montalbano, concedeva ai Brontesi la grazia del tumulto.[…] Fu festa e luminarie. Ebbe così il paese il triste spettacolo di vedere allo Scialando innalzata la forca, segno del mero e misto impero.” (3)

Seguono documenti da pag. 163 a pag. 169.




Note
:

(1) Ibidem cit. pag. 146 - Alla nota (5) il Radice spiega che: “Merum imperium, significa il puro, sommo, il più elevato fra tutti i diritti che esercitava il re, cioè il jus neci = pena di morte. Merum imperium est habere gradi potestatem ad puniendum facinorosos morte, exilio, et relagatione.[…] Tutt’altra giurisdizione amministrativa, giudiziaria si chiamava mixtum imperium.”

(2) La sottolineatura è mia.

(3) Ibidem cit. pag. 162 e nota (50) “Scialandro, Il nome a questa località probabilmente è stato dato dai Brontesi, derivandolo forse dal greco: “s c i x w ”= separo, scindo e quindi in senso più lato uccido: e a n i r ,(deve essere an e r ) a n d r o s = uomo, quindi, Luogo di supplizio per i rei.”  N. B. Il pro­gramma di scrittura del mio computer non ha né gli accenti né gli spiriti, quindi chiedo venia se la grafia dei termini greci risulta incompleta.

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