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Nicola Lupo

Fantasmi - Storiette paesane

422 FOTO DI BRONTE, insieme

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Filippo Spitaleri detto Scagghjtta

Perché all'età di otto anni, nel lontanissimo 1927, scelsi come padrino di cresima Filippo Spitaleri, detto Scagghjtta? Forse perché, fra gli amici di mio padre, era il più simpatico, anche se bruttarello; forse perché era quello che era sempre allegro e sempre pronto a cogliere, di qualsiasi situazione, il lato comico o che si prestasse a una battuta o a uno scherzo, a volte anche pesante.

Me' parrinu all'epoca era commerciante di tessuti e, dopo, quando a Bronte fu portata la corrente elettrica, mise su una impresa di impianti elettrici con relativo negozio del materiale occorrente, che credo esista tut­t'ora, gestito da una delle figlie.

Ma io non intendo parlare della sua vita e delle sue attività, del suo carattere particolare che oggi lo acco­sterebbe moltissimo a quei personaggi e attori che tutti abbiamo ammirato nella serie di film Amici miei.

Infatti, avendo egli il negozio sulla via principale, era sempre a contatto con tutto quello che avveniva in paese e interveniva con le sue battute o i suoi scherzi in tutte le vicende e con i più svariati personaggi. Oggetto delle sue sceneggiate e dei suoi lazzi erano per lo più le persone del luogo che erano note per le loro debolez­ze o la loro dabbenaggine, come il facchino Graziano.

A questi una volta, stando egli al caffè con molti amici, si rivolse chiedendogli se avesse con sé la corda (attrezzo che il Graziano portava spesso appeso alla cintura dei pantaloni per eventuali trasporti a spalla) e, sentendo che la risposta era negativa, lo pregò di andare subito a casa a prenderla, perché doveva ritirare della merce da portare a certi amici. Il Graziano si avviò di buon grado verso casa sua per prendere il richiesto necessario attrezzo e, tornato poco dopo al caffè dove lo attendeva ‘u Scagghjtta con tutta la combriccola dei suoi amici, gli chiese che cosa doveva fare.

A questo punto don Filippo con la massima serietà disse al Graziano: «Vai alla stazione e ritira 'u fasciunèllu 'i mìnchie(1) che è arrivato fresco fresco da Catania e portalo con ogni cura alla pescheria per la distribuzione gratuita alle donne bisognose».

Il Graziano, che era un poco tardivo, rimase per un attimo interdetto e per­plesso, ma poi, visto che tutti i presenti stavano scoppiando in una rumorosa risata, o meglio sghignazzata, arrossendo e, non essendo capace di reagire adeguatamente, si allontanò sacramentando come un turco. (Si dice sempre così, non si sa perché, attribuendo ogni esagerazione ai poveri turchi!)

Una volta, in occasione di una festa, di quelle che vedevano riunite le famiglie dei nonni e dei figli con tutti i nipotini intorno alla tavola, il compare Scagghjta con un altro amico-parente organizzò e portò a termine uno scherzo amaro anche nei confronti della mia famiglia.

Eravamo pronti per andare a tavola noi con nonni e zii per un totale di dodici persone, quando arrivò, ano­nimo, un enorme vassoio di cannoli, specialità delle nostre parti, al quale facemmo grandi feste noi ragazzi che eravamo tre, in un clima di diffidenza dei grandi che subodorarono un qualche scherzo.

Quasi alla fine del pranzo, quando stavamo mangiando la frutta che una volta in Sicilia si mangiava prima del dolce, bussarono al portone e, con nostro grande piacere, vedemmo che erano gli amici Spitaleri e Isola, che i nostri genitori fecero accomodare a tavola invitandoli a mangiare con noi la frutta; ma capirono che essi erano gli anonimi donatori dei cannoli di cui non fecero parola.

Però noi ragazzi, ignari di inganni di quel tipo e desiderosi di quei dolci veramente particolari e che si mangia­vano di rado, cominciammo a chiedere a gran voce i cannoli, al che i nostri genitori non poterono più far finta di niente e misero a tavola il sospetto vassoio. Noi ragazzi pretendevamo di essere serviti per primi, i nostri ospiti si rifiutarono garbatamente, ma decisa­mente, di accettare, mentre i nonni si offrirono, mute cavie, di assaggiare per primi i dubbi e misteriosi cannoli; e, quando con un cenno degli occhi, fecero capire a nostra madre che erano buoni, finalmente noi potemmo avere le sospirate leccornie.

Ma al primo boccone, tutti e tre all'unisono, cominciammo a gridare sputando, non badando più alle buone maniere, quanto avevamo messo in bocca e in parte ingoiato. Naturalmente tutta l'assemblea familiare si divise: le donne cercavano di capire perché gridavamo e sputa­vamo quanto prima avevamo desiderato così intensamente; gli uomini, che ormai avevano le prove di quanto avevano intuito già prima, non volevano dare la soddisfazione agli interessati dello scherzo riuscito, mentre questi ultimi ridacchiavano sornioni, senza tuttavia ammettere di esserne gli autori.

Tutto finì allora in una gran risata di tutti, tranne qualcuno di noi ragazzi che, non riuscendo a togliersi completamente di bocca l'amaro e il disgusto dell'aloe, medicinale di cui si temevano anche gli effetti principali e successivi, non aveva gradito lo scherzo e sperava che nostro padre fosse pronto a ricambiare pan per focaccia.

In quella occasione Filippo Scagghjtta si dimostrò, più che il solito mattacchione, un vero guastafeste, spe­cialmente agli occhi di noi ragazzi che in tutte le altre occasioni avevamo riso delle sue burlesche trovate, ma non quella volta che ne eravamo state le vittime.

Altro personaggio preso di mira dal nostro piccolo re dei burloni era l'orologiaio Giovanni Greco, forestiero di origine, ma trapiantato a Bronte; forse anche per questo, oltre che per carattere, ombroso e irascibile e poco disposto a subire scherzi. Di lui un giorno, e in sua presenza, nel solito caffè, zio Filippo raccontò una storiella che giurava vera, mentre il mal capitato denunziava falsa e calunniosa.

Ecco la storia e le sue conseguenze: «L'altra mattina alla vetrina dietro la quale don Giovanni ha sistemato il suo tavolo-laboratorio per potere sfruttare a pieno la luce del giorno per il suo lavoro, bussa un ragazzo, e all'orologiaio che alza la testa togliendosi il monocolo che usa per vedere ingranditi gli ingranaggi degli orologi, fa cenno di voler sapere l'ora; don Giovanni, un po' seccato per il disturbo, risponde: "sono le dieci e mezzo", e sta per rimettersi lo speciale monocolo e riprendere il lavoro interrotto suo malgrado, quando il ragazzo ad alta voce gli grida: "Don Giuvà, a menzu jonnu ci' a veni e suca a me' patri?" e scappa via.

Don Giovanni, che era già contrariato per l'interruzione, e dato il suo carattere irascibile e intollerante, divenuto paonazzo, si alza di botto, esce dal negozio-laboratorio e si mette a correre come un dannato dietro al ragazzo che è ancora in vista sulla via principale.

A questo punto - continua il narratore nel silenzio assoluto del suo uditorio e guardando negli occhi l'oggetto della sua satira il quale diventa di mille colori - Giovanni s'imbatte in me che lo blocco per chiedergli la ragione di quella sua scalmanata corsa; lui, ansimante, mi racconta il fatto ripetendomi la scurrile frase del ragazzo; al che, cercando di infondergli calma, gli consiglio: "Ma Giovanni, c'è ancora tanto tempo, puoi andarci con comodo a fare quanto richiestoti dal ragazzo!"».

Sonorissime sono le risate di tutti i presenti tranne che dell'orologiaio il quale, cercando inutilmente di smen­tire tutta la fandonia inventata dal nostro burlone, si allontana incazzatissimo come e più del solito, quando pensava di avere subito uno sgarbo o una offesa.

Ultimo scherzo che mi sovviene, condotto con misurata furbizia da me' parrinu Filippo fu quello fatto a un rappresen­tante di commercio che lo aveva visitato e che aveva ottenuto da lui un buon ordine, per cui gli si sentiva particolar­mente obbligato almeno per quel giorno.

Approfittando di questa favorevole circostanza, don Filippo disse al rappresen­tante che avrebbe voluto chiedergli un favore particolare, che quello dichiarò subito di essere dispostissimo a fargli. Ma lo Spitaleri la tirò così per le lunghe fino a sera inoltrata che quel povero malcapitato si pentì in cuor suo di avergli fatto la promessa di essere a sua completa disposizione.

Alla fine, quando questi disse allo Scagghjtta che non poteva attendere più a lungo per rientrare a Catania, dove era atteso dalla famiglia per la cena, il nostro, come se gli chiedesse chissà che cosa, gli disse: «Lei mi deve fare il grande favore, appena arriva a Catania, di andare in Piazza Duomo e dare ‘na straviatìna 'e balli 'ru liòtru»(2).

Il povero rappresentante restò di sale e chissà cosa avrebbe voluto fare al suo buon cliente, ma per non perderlo e per non dare altro piacere ai presenti che naturalmente se la ridevano, fece buon viso a cattivo gioco e, fingendo di avere apprezzato di buon grado lo scherzo, con amara ironia e rendendogli pan per focaccia, gli rispose che senz'altro avrebbe portato i suoi saluti all'elefante della sua città, assicurandolo che il mandante presto sarebbe venuto a trovarlo di persona a compiere la devozione.


Don Antuninellu 'u Spiziali

Tutti noi siamo frequentatori più o meno spontanei delle farmacie che sono diventate dei veri e propri bazar: infatti vi si vendono le cose più varie: dalle scarpe ai profumi, alle creme, oltre che ai medicinali veri e propri.

I farmacisti, quindi, si sono trasformati in commercianti protetti e hanno perduto la caratteristica professio­nale perché non solo non confezionano più medicinali, ma addirittura non conoscono, quasi, quelli che ven­dono e che sono tutti prodotti industriali molte volte simili, ma con nomi e prezzi diversi.

Queste mie succinte considerazioni mi portano alle vecchie farmacie degli anni Venti-Trenta con i loro scaffali pieni di bocce di ceramica o di vetro, di dimensioni e fogge varie, con su scritte in latino o in volgare le deno­minazioni scienti­fiche dei vari prodotti, e ai vecchi farmacisti, veri e propri alchimisti della scienza medica, intenti a preparare infusi, poma­te, cartine, pillole e quant'altro il medico, o spesso lui stesso, consigliava ai suoi pazienti-clienti per gli acciacchi più diversi e ricorrenti.

In modo particolare mi torna in mente il nostro farmacista, e dico nostro perché era il farmacista di tutta la nostra larga famiglia composta da nonni, figli e numerosissimi nipoti: don Antuninellu Aidala, ma che tutti noi chiamavamo solamente 'u Spiziali, anzi 'u Spiziarellu: il che dimostra che fin d'allora in un piccolo centro agricolo della Sicilia, che era un'isola linguistica (basti pensare che si diceva illa est che è perfetto latino non ancora contaminato dal volgare) si usava alte­rare i sostantivi, facendo diminutivi-vezzeggiativi, come dutturellu, professurellu e così via, mentre oggi si arriva a fare i superlativi dei sostantivi, come per esempio gover­nissimo, il che dimostra che, non sapendo fare un buon governo, i politici vogliono sbalordire i cittadini con queste aberrazioni grammaticali.

Egli era una persona di età indecifrabile, almeno per noi allora ragazzi o giovani, ma amabile nei tratti e sem­pre disponibile ai consigli, anche in presenza del medico il quale spesso si intratteneva nella sua farmacia ed era il dottore Zappia. I pazienti-clienti di allora si rivolgevano preferibilmente al farmacista, perché i suoi consigli erano gratuiti, mentre quelli del medico erano a pagamento e vi si ricorreva come ultima ratio, quando le medicine del farmacista non avevano sortito l'effetto sperato e promesso.




 


Filippo Spitaleri detto "Scagghjtta". Il disegno di Angelo Mazzola è tratto da "Galleria" de "Il Ciclo­pe" (n. 2 del 15.1.1950)





(1) Piccolo fascio di "minchie”.







 

piccolo vocabolario brontese



 

FACCE DI BRONTESI














 

L'orologiaio Giovanni Greco, in una caricatura tratta dalla "Galleria" de "Il Ciclope" (n. 11 del 1.12.1946)





 



















(2) «Una carezza alle palle dell'elefante»  (mo­nu­men­to in pie­tra lavica, em­ble­ma della città di Catania).

La farmacia di don Antuninellu 'u Spiziali era sempre piena di clienti in attesa: donne anziane, giovani con bam­bini, vecchi piegati dall'artrosi o dalla podagra, e tutti seduti alle sedie che erano addossate lungo gli scaffali dei medicinali liquidi, in polvere o erbacei che servivano di volta in volta per i vari preparati occorrenti. Il silenzio era assoluto in quel laboratorio aperto al pubblico, perché il farmacista non poteva sbagliare nel pesare le diverse polverine e poi mescolarle e fare di tale(3) sei, dodici o ventiquattro cartine.

Accurata e meticolosa era la preparazione delle pomate e degli infusi (per i quali il farmacista faceva scaldare o bollire l'acqua su una spiritiera nel retrobottega, ma solo per la sicurezza dei clienti-pazienti) e caratteristica quella delle pillole che a noi ragazzi facevano pensare spiritosamente agli escrementi delle capre o delle pecore.

A quei tempi una delle abitudini igieniche delle famiglie era quella della purga: di emergenza, quando qualcosa aveva fatto male, o di routine, dopo le feste, o a scadenza fissa. In casa nostra la purga era una sola: olio di ricino, olio di mandorla e una punta di santonina: il primo vero purgante, il secondo rinfrescante e il terzo contro i vermi. Nostra madre ce lo propinava con il caffè, per cui io per molti anni, anche dopo aver sospeso l'uso di questo purgante, non potei sopportare neppure l'odore del caffè, perché mi riportava all'odore e al sapore disgustosi dell'olio di ricino.

Io da ragazzino avrei preferito la magnesia S. Pellegrino, non solo per sostituirla all'aborrito olio di ricino, ma anche per venire in possesso della caratteristica scatoletta di latta a forma di esagono irregolare, con la figura del santo Pellegrino (che è tuttora in commercio); ma questo mio desiderio allora non poté essere soddisfatto mai, primo perché contrastava con i rigidi principi igienici di mia madre, e secondo (e forse più importante motivo) perché costava caro: ben 21 soldi, cioè una lira e cinque centesimi: somma proibitiva per un purgante, specie se doveva essere moltiplicata per quattro, quanti eravamo i figli.

Noi andavamo dallo speziale con un bicchiere che lui, dopo averci messo i tre componenti dell'intruglio nella dose adatta a ognuno di noi, chiudeva con un quadratino di carta da farmacia che ripiegava con maestria attorno all'orlo del bic­chie­re, ottenendone una chiusura quasi ermetica. Ora i farmacisti sanno solo staccare le fustelle da applicare alle ricette della USL! (ora ASL)

Al momento della consegna del preparato c'era la cerimonia del pagamento: sì, perché esso era una vera e propria cerimonia! Infatti il farmacista, vuoi per un morboso e affettuoso attaccamento al denaro, vuoi per addolcire il danno che provocava al suo cliente, pronunciava la somma richiesta sempre al diminutivo: quattro sudditti, mezza liritta e così di seguito.

E il cliente, se era un ragazzo apriva la mano in cui aveva tenuto serrate le sue monetine, se era un vecchio le estraeva dal taschino del suo gilet, se era una donna giovane dal seno sodo dov'erano al calduccio, o se era una vecchietta da un grande fazzoletto buono per tutti gli usi, anche quello di avvolgervi i soldi e le carte.

Quei soldi, da qualunque portafogli provenissero, andavano a finire in una grossa scatola di latta di biscotti o altro, sistemata nel cassetto dello speziale il quale, al loro tintinnìo, li accompagnava con un suo particolare sorriso di compiacimento.


I Botta

I Botta erano una famiglia di commercianti di stoffe la quale abitava inizialmente in uno dei due appartamenti del piano terra del palazzo Ciraldo, nell' attuale piazza Piave di Bronte, di fronte alla casa di mio nonno pater­no; poi passarono nel palazzo che si costruirono sempre sulla via principale, di fronte alla via Cavour, dove avevano negozio e soggiorno a piano terra e salone e camere da letto al primo piano, mentre il secondo, con entrata indipendente, l'avevano destinato ad affitto.

All'epoca in cui abitavano nel palazzo Ciraldo avevano il negozio sempre sulla via principale, corso Umberto I, di fronte alla piazzetta della Chiesa del Rosario, ed erano organizzati in questo modo: il padre, don Vincenzo, faceva l'ambulante e batteva tutte le fiere dei paesi viciniori non solo dal lato Nord dell'Etna, ma anche dei Ne­brodi e delle Madonie più vicine a Bronte.

Forse per la sua vita disagiata, sempre in giro, con trenino o autobus sgangherati, per paesi a dir poco inospitali e fred­dissimi d'inverno e torridi d'estate, come Cesarò, Troina, S. Fratello ecc., don Vincenzo era sofferente di bronchite cronica e aveva continuo bisogno di espettorare, il che spesso gli riusciva molto difficoltoso.

Questo suo handicap era oggetto dell'ironica, ma bonaria, satira di alcuni buontemponi che erano i calzolai che avevano i loro piccoli laboratori  sulla stessa via principale che i Botta dovevano percorrere per andare da casa al negozio e viceversa. Spesso durante le belle stagioni, i suddetti calzolai mettevano i loro deschetti fuori sul marciapiede e lì lavoravano ala­cre­mente, ma cantando, chiacchierando fra loro o con i passanti e spesso prendendo in giro qualcuno con cui potevano permetterselo o per la familiarità che avevano con l'oggetto del loro scherzo o per la di lui passiva dabbenaggine.

Una volta, tornando da scuola a casa, raggiungemmo don Vincenzo all'altezza della calzoleria D'Aquino: erano ancora tutti fuori al lavoro e Don Vincenzo, passando davanti, ebbe bisogno di scatarrare, ma non ci riusciva; allora il D'Aquino, premuroso, gli fa: «don Vincenzo, non faccia complimenti, prenda il nostro tiraforme» (che era l'attrezzo a mo' di gancio che serviva per tirare la forma dalla scarpa quando questa era finita) e a queste parole seguirono le risate di tutti i pre­senti e dei passanti, tranne che del povero don Vincenzo, vittima non solo della sua malattia, ma anche della irriverente derisione dei suoi concittadini, amici ma non troppo!

Il vero capofamiglia dei Botta era la madre, donna Carmela; donna corpulenta, dalla chioma fulva, dal viso aperto e sorridente e dagli occhi vivacissimi, nata per attirare le simpatie dei suoi interlocutori e, quindi, adattissima a gestire un negozio con grande profitto.

La cosa che di lei ricordo di più, oltre l'accoglienza sempre spontanea e cordiale per tutti gli amici del figlio Biagio, ma specialmente per Gino Meli e per me, inseparabili fin dalle elementari e affiatatissimi anche se sempre in competizione per quanto riguardava lo studio, era il gesto che donna Carmela faceva quando entrava una cliente nel suo negozio e lei stava seduta dietro il bancone: si alzava, premurosa e cordiale, appoggiandosi ai braccioli della grande sedia, e una volta in piedi, prendeva con entrambe le mani la sua grossa pancia pendula e, sollevandola, l'appoggiava al bancone, con grande disinvoltura e naturale sollievo.

I figli erano tre: due femmine e un maschio, tutti amanti della musica, anche da adulti. Ricordo che la grande a me e al fratello, alunni di terza elementare, una volta dettò le parole di una canzone allora in voga, della quale ricordo ancora il motivetto, intitolata Zichi-Bachi, Zichi-Bu, che raccontava le avventure amorose di un italiano, già da allora latin lover, per una giovane e bella indù dal suddetto nome. Biagio frequentò con me tutte le scuole elementari a Bronte e poi il ginnasio inferiore a Pedara, presso i Salesiani.

In quei tre anni di collegio, purtroppo, egli diventò così egoista che preferiva far marcire la buona e abbondante roba da mangiare che gli mandava continuamente la famiglia anziché farne partecipi i compagni, neppure me e altri tre brontesi che eravamo lì, i due cugini Peppino e Pasquale Spanò e Vittorio Caponnetto; mentre tutti gli altri, pur ricevendo pacchi più poveri e più raramente, dividevano tutto e subito con i compagni più intimi e quelli della stessa tavola a pranzo e a cena.

In seguito tutta la famiglia si trasferì a Catania e perdemmo la vecchia consuetudine, anche se quando ci vedevamo ci facevamo grandi feste reciproche.

Ho rivisto Biagio tanti anni fa, forse il lunedì di Pasqua del 1956, a Maniace dove eser­citava la sua professione di medico, ma mi accorsi con grande disappunto che la nostra amicizia, come i grossi fuochi, era ormai coperta dalla spessa coltre delle ceneri della lontananza e dell'oblio.





(3) Forma usata nelle ricette mediche.


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Il 10 febbraio 1996, prima della presentazione di questi miei "Fantasmi" nel Collegio Capizzi, uno degli invitati mi si presenta e dice: "Sono Biagio Botta e mi abbraccia, affettuosamente ricambiato da me. Abbiamo scambiato qualche battuta ma, pres­sati dai tanti altri, dei vecchi che mi volevano salutare o dei giovani che mi volevano conoscere o farsi conoscere, ci siamo persi. Però, quando la ressa intorno a me si fu diradata, torna e ripete: "Sono Biagio Botta" e mi riabbraccia. Io, commosso perchè capisco che il mio vecchio amico e compagno è un po' svanito, lo riabbraccio rispondendo per rassicurarlo: "Ci sia­mo già salutati!". Dopo pochi mesi il caro Biagio ci ha lasciati; infatti non ho avuto alcuna risposta al mio "Federico II di Svevia”, inviatogli in omaggio. Ora non mi resta che il penoso ricordo di un amico che si allontana sul "viale del tramonto". Addio Biagio!"


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