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Benedetto Radice

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Benedetto Radice, "Memorie storiche di Bronte"

Florilegio di Nicola Lupo

Florilegio delle Memorie storiche di Bronte - Indice


14. Nino Bixio a Bronte

Episodio della rivoluzione siciliana del 1860 con diario e documenti inediti

[la vendetta] [l'eccidio] [la repressione] Saggio di L. Sciascia


IV - Saggio sulla Rivoluzione di Bronte
(1)

di Leonardo Sciascia

Leonardo SciasciaIl paragone del serpe che depone la spoglia è ormai vecchio arnese retorico, e pure non ne trovo di meglio a significare il villano che, durante la messe, dà un calcio alla mitezza dell’indole, alla tranquillità abituale, al rispetto verso le classi più rispettate, e assume il ghigno feroce, il linguaggio a fil di rasoio, gli atti provocatori di un demagogo.”

Con questo brano di Serafino Amabile Guastella, introduttivo ai Canti popolari del circondario di Modica, Leonardo Sciascia introduce il suo saggio sui fatti di Bronte e sulla narrazione che ne fa Benedetto Radice, brano che si conclude con la frase: “Più non son urli, ed ingiurie, ma una tempesta di fischi e di pietre.”
Segue, quindi, il canto, che descrive il periodo della mietitura e della trebbiatura con tutti i vantaggi che il contadino ne trae, e lo Sciascia in calce ne dà “un essenziale glossario, chè la traduzione letteraria di solito porta il lettore a saltare il testo.”

E’ il canto della scatenata anarchia contadina, dell’odio verso ogni altra classe e categoria sociale […]”. Dopo alcune dotte citazioni del La Bruyère e del Courier che parlano delle condizioni dei contadini, Sciascia afferma che “I periodi di occupazione del bracciante agricolo erano quelli della semina, della prima e della seconda zappa, della mietitura e della trebbiatura: non più di cento giorni all’anno, e con un salario miserevole […].”

Si parla poi della “fame, cattiva consigliera” con esemplificazioni storiche, e “delle libertà sessuali che i galantuomini si concedevano con le ragazze del popolo: basti considerare che nel 1853 c’erano a Bronte (su circa 10.000 abitanti) 38 bàlie comunali, nutrici cioè dei bastardi di ruota.”

Seguono quindi esempi di tassazioni di contadini superiori a quelle imposte a ricchi possidenti benestanti; e le pene combinate a chi era sorpreso a far legna nella Ducea o nelle terre demaniali: “un’ammenda pari al valore dell’ albero vivo e non della legna, e non meno di un mese di carcere.”

E per concludere dice lo Sciascia che mentre la signora duchessa Nelson stava in Inghilterra, a Bronte, ad amministrare il gran feudo che graziosamente Ferdinando (III di Sicilia, IV di Napoli e I delle Due Sicilie) aveva donato all’ammiraglio Nelson, stavano, come già il loro padre, Guglielmo e Franco Thovez, inglesi ma ormai […] considerati notabili del paese. Ed è a loro che si deve il particolare rigore che Garibaldi raccomandò a Bixio per la repressione della rivolta di Bronte […]

“Sui fatti di Bronte dell’estate 1860, sulla verità dei fatti, gravò la testimonianza della letteratura garibaldina e il complice silenzio di una storiografia che si avvolgeva nel mito di Garibaldi, dei Mille, del popolo siciliano liberato: finchè uno studioso di Bronte, il professor Benedetto Radice, non pubblicò […] una monografia intitolata Nino Bixio a Bronte; e già, a dar ragione delle cause remote della rivolta, aveva pubblicato […] il saggio Bronte nella rivoluzione del 1820. E non è che non si sapesse dell’ingiustizia e della ferocia che contrassegnarono la repressione […] tutti sapevano […] solo che non bisognava parlarne: per prudenza, per delicatezza […]”.

Ed il Radice, pur avendo “della storia del risorgimento e del garibaldinismo una visione […] brillante di libertà e di nazionalità, […] era mosso dalla “carità del natìo loco”, gratuitamente macchiato d’infamia dagli scrittori garibaldini, e dall’umana simpatia e pietà per quell’avv. Lombar­do che Bixio sbrigativamente aveva fatto fucilare come capo della rivolta: ed era stato sì il capo della fazione comunista, ma della rivolta, e specialmente dei sanguinosi eccessi in cui sfociò, non si poteva considerare più responsabile dei suoi avversari della fazione ducale.”

Sciascia parla quindi dell’ “indignazione morale” che il Radice va acquisendo nei riguardi del Bixio man mano che prosegue nella sua ricerca di documenti, testimonianze e ricordi, indignazione che culmina nel “giusto e fine giudizio: “la rivoluzione gli fu propizia per salvarlo forse da una vita ignobile,” giudizio che ben poco lascia “di quel mito, di quella leggenda..” […]

Passa inoltre a parlare della versione letteraria che fa dei fatti di Bronte il Verga il quale, maggiore di 14 anni rispetto al Radice, nel 1882, scrisse la novella Libertà in cui, secondo Sciascia, “le ragioni dell’arte, cioè di una superiore mistificazione che è poi superiore verità, abbiano coinciso con le ragioni di una mistificazione risorgimentale cui il Verga, monarchico e crispino, si sentiva tenuto. […]”

Prova “della mistificazione di Verga è un piccolo particolare […] della novella” in cui parla di far fucilare un “nano“; egli, il Verga, “sapeva bene che non si trattava di un nano ma di un pazzo: il pazzo del paese, un innocuo pazzo soltanto colpevole di aver vagato per le strade del paese con la testa cinta da un fazzoletto tricolore profetizzando, prima che la rivolta esplodesse, sciagura ai galantuomini; quel Nunzio Ciraldo Fraiunco che non ci sarebbe stato bisogno di una perizia per dichiarare totalmente infermo di mente e la cui fucilazione costituisce la pagina più atroce di questa atroce vicenda. […]

[…] Verga nella novella eliminò quel simulacro di processo […] perché la rappresentazione, sia pure in una sola frase, del processo, lo avrebbe obbligato a caricare il generale di feroce ipocrisia; e voleva invece, a conferma della leggenda, darlo soltanto, e con indulgenza, come un intemperante. […] “[…] noi che abbiamo familiarità con le carte del processo, siamo portati a credere che lo scrittore lo abbia seguito da spettatore, e ne abbia conservato in appunti o indelebilmente nella memoria un intenso ricordo. […] Oltre l’arte, che in questa novella è grande, si sente l’evento fisico, ottico; la “cosa vista”. […]

“Ma la mistificazione più grande (in cui, ripetiamo, le ragioni della sua arte venivano a coincidere con le ragioni diciamo risorgimentali, […] ) è nell’avere eliminato dalla scena l’avvocato Lombardo, personaggio che non poteva non affascinarlo in quanto portatore di un destino, in quan­to vinto. Né poteva, Verga confonderlo col personaggio che ne fece la letteratura garibaldina (Abba) […] chè il Lombardo era ben conosciuto negli ambienti liberali catanesi, e nessuno a Catania avrebbe mai creduto alla storia, accreditata presso Bixio dai notabili di Bronte e diffusa a scarico di coscienza tra i garibaldini, di un Lombardo reazionario o “realista” […] (cioè borbonico).

E segue la lunga lettera che “il senatore Carnazza-Amari diresse al Radice” e che questi “nel saggio ha ritenuto di non dovere riportare per intero.”

“L’avvocato Lombardo, quel personaggio che effettivamente il Lombardo era stato, avrà inquietato e la coscienza civile e la coscienza artistica di Verga. […] Ed il fatto che di un tale personaggio si sia liberato del tutto, che l’abbia così decisamente rimosso, ci fa congetturare in lui una inquietudine, un travaglio. O forse questa nostra congettura muove dal grande amore che abbiamo per Verga, dalla profonda pietas che Lombardo ci ispira.”

Passa quindi Sciascia a parlare della difesa degli imputati fatta dall’avv. Michele Tenerelli Contessa, della cui arringa “nemmeno il Radice ha tenuto conto (e a noi proviene dalle sue carte) […]” e che “veniva a tradurre in termini rigorosamente giuridici, in argomentazioni di diritto, le più profonde istanze della vera, effettiva, concreta rivoluzione liberale. […] E ne riporta “quello che […] pare il passo fondamentale: “Or quando proverò che le stragi perpretate in Bronte dal 2 al 5 agosto 1860 anzicchè rivelare opposizione al diritto […], rivelano piuttosto una brutale convalidazione, una feroce affermazione di una legge scritta a caratteri di sangue […], la vittoria della difesa sull’accusa non sarà più dubbia.

Ci troviamo nel caso di considerare un’azione, la quale malgrado porga le apparenze di un fatto criminoso, pure era una conferma, una brutale convalidazione della rivoluzione; […] In una parola, ci troviamo nel caso ove non si può considerare reato un’azione la quale, quantunque por­ga le apparenze di un fatto criminoso dinanzi alla giustizia, pure è comandato dalla legge - è permesso dalla legge. […] Alle prove.”

E traccia il programma di Marsala che “chiamava il popolo ad insorgere colle armi in pugno, contro il comune nemico. […] il Borbone […] e tutti coloro che con qual si sia mezzo contrastassero la rivoluzione. […] la rivoluzione marcia avanti seguendo come ombra il suo eroe. E la rivoluzione […] fu mestieri farsi anche democratica, allorché il Dittatore ordinò la divisione delle terre comunali…

Tutti coloro che ostacolavano l’attuazione di questi principi, tutti erano intrinsecamente dichiarati rei di lesa nazionalità: […] Quindi le leggi rivoluzionarie, mentre realizzavano i principi della rivoluzione, condannavano coloro che ostacolavano la manifestazione obiettiva e reale di tali principii, come quei brontesi che si erano opposti a riconoscere questi diritti della plebe, malgrado che il governo borbonico li avesse voluto soddisfare!

Signori giurati, la borghesia brontese, non paga di avere per vent’anni avversato con tutti i modi ingiusti l’attuazione di questi bisogni, […] oggi, dopo essere stata dichiarata nemica della rivoluzione in virtù delle leggi dittatoriali medesime, seguiva a contrastare l’esecuzione della legge rivoluzionaria… […]” (2)

“Evidentemente questa arringa non convinse né i giudici nè i giurati[…] e 25 imputati si ebbero l’ergastolo, 1 vent’anni di lavori forzati e 2 dieci, 5 i dieci anni li ebbero di semplice reclusione.

“Forse parve anche a Giovanni Verga, questa difesa del Tenerelli Contessa, un armeggiare d’avvocato, una chiacchiera.

Leonardo Sciascia




Note:

(1) Memorie storiche di Bronte, pag. 407 - Il titolo è mio.

(2) La nota (3) riporta: L’arringa del Tenerelli-Contessa fu pubblicata nel 1863 dalla Tipo­grafia La Fenice di Musumeci, Catania: Difesa pronunziata d’innanzi la Corte d’Assise del Circolo di Catania per la causa degli eccidi avvenuti nell’agosto 1860 in Bronte. […]”

Il "Saggio sulla rivoluzione di Bronte" (il titolo è del prof. N. Lupo) è stato scritto da Leonardo Sciascia nel 1963 e pubblicato come Introduzione al libro Nino Bixio a Bronte di B. Radice (Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta, 1963); successivamente il brano è stato anche incluso ne La corda pazza, scrittori e cose di Sicilia di L. Sciascia (Adelfi Edizioni, Milano 1991, pagg. 89-106) con il titolo "Verga e la libertà" che vi proponiamo integralmente nelle nostre pagine.
 

L'edizione integrale del Saggio di Leonardo Sciascia potete leggerla a pag. 335 del ns. volume

Memorie storiche di Bronte

Ve la offriamo in formato  (raccoglie le 16 monografie pub­blicate per articoli e rac­colte in due volumi editi rispet­tiva­mente nel 1926 e nel 1928; 529 pagine corre­date da numerose foto; 9.158 Kb)

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