Esiste un mezzo per manipolare la verità dei fatti allo scopo di trarne vantaggi di parte. È la disinformazione, con la quale vengono fornite verità "addomesticate", "dimezzate", "taciute", "alterate", "false".
È un'arma immateriale usata dall'uomo nei diversi campi del suo operare. [....] Della disinformazione spesso e facilmente ha fatto le spese la Chiesa. È stata usata contro di essa, fin dalle sue origini, da parte degli intellettuali pagani, politologi, giuristi, filosofi, retori che hanno contribuito ad alimentare, così, il fuoco della persecuzione e a fare esplodere nei suoi confronti i pogrom e i furori popolari. [....] E c'è, poi la letteratura. Dalla penna di non pochi scrittori, cosiddetti laici, è venuta fuori un'immagine inquietante della Chiesa e soprattutto del suo clero, dei preti: solo figure meschine e a volte riprovevoli, persino ripugnanti. E se di qualcuno si parla bene lo si fa per erigere un isolato contraltare alla Chiesa ufficiale. Nel loro repertorio clericale, dunque, non trovano posto preti che hanno consumato la loro vita alla ricerca e al recupero dell'uomo emarginato, povero, indifeso. Qualcuno di questi scrittori riflettendo che la Chiesa con la genìa di preti usciti da tale letteratura non avrebbe fatto molta strada, mentre è ancora florida, arriva a sofisticare che il segreto della sua tenuta nei secoli si deve, proprio, "ai preti cattivi ché ai buoni"! Io, ultimo uomo di chiesa e ultimo prete siciliano, mi sento provocato. Le parole di questi grandi nomi della letteratura, soprattutto di quella siciliana, mi giungono come pietre taglienti. Una di queste pietre intendo, però, raccoglierla. Giovanni Verga, tra le sue "Novelle Rusticane" ne scrive una, "Libertà", ispirata ai noti fatti di Bronte, accaduti nell'agosto 1860, e collegati al Risorgimento italiano. Verga non intende, naturalmente, fare il cronista di quei fatti; non cita espressamente la cittadina etnea quasi a dare un significato universale agli episodi che si sarebbero potuti verificare ovunque e tanti particolari non rispondono, volutamente, alla cronaca di quei giorni della quale, tuttavia, il novelliere è bene informato; se ne serve, invece, liberamente, esclusivamente a fini letterari, artistici e così ci ha lasciato una mirabile e drammatica pagina di prosa che dalla cronaca degli eventi ha attinto solo la semplice ispirazione. Ma perché quei fatti lo hanno ispirato in un senso piuttosto che in un altro? Intendo riferirmi alla descrizione che egli fa dei preti "di quel paesetto lassù". Descrizione pesantemente negativa. Descrizione divenuta comune, poi, anche ad altri scrittori, soprattutto siciliani come L. Sciascia, che sembrano quasi obbedire ad un cliché, ai canoni di una scuola che sul prete impone un luogo letterario fisso: il solito prete grassone, usuraio, poco colto, lontano dai problemi della gente, sudicio moralmente. In questa novella Verga accomuna i preti alle figure odiate a morte dal popolo, come il barone, vittime, pertanto, della sua rivolta e vendetta, aggrediti da una folla inferocita per i soprusi da loro subìti. “A te...” , così viene assalito con la scure un prete del paese.
"A te, prete del diavolo che ci hai succhiato l'anima!" E più avanti su un altro reverendo, che “predicava l'inferno per chi rubava il pane" e che stava per tornare "dal dir messa con l'ostia consacrata nel pancione e gridava "Non mi ammazzate, che sono in peccato mortale!", anche su di lui si abbatte il colpo di scure:
"Tè, tu pure!"
"E quella carne di cane", dice il Verga, finisce sbrandellata "sugli usci delle case e sui ciottoli della strada" da altri colpi di scure in balia, ormai, di una folla che come "il lupo, allorché capita affamato in una mandria, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia". A quali preti si ispirò lo scrittore per questa drammatica novella? O non c'è, dietro il Verga artista, l'uomo con le sue passioni, le sue visioni personali, a volte partigiane, delle cose? Se conosceva bene i fatti, come pare, non avrà forse ceduto alla loro mistificazione in dipendenza del suo bagaglio culturale e di una visione rigidamente precostituita e generalizzata, cui si sentiva tenuto?
A Bronte i fatti andarono molto diversamente e forse è mancata
l’occasione buona per offrire ugualmente,
prima di tutto ai siciliani, una bella pagina di letteratura,
una volta tanto non pessimista.
I preti, infatti, "di quel paesetto lassù", scrissero col loro coraggio, determinazione, saggezza e, anche, genialità una mirabile pagina di storia cittadina che poteva assurgere, anch'essa, a significato universale.
Il Radice, lo storico di Bronte, di quei sanguinosi eventi fu spettatore bambino, anzi drammaticamente coinvolto insieme alla famiglia rimasta viva per miracolo. Adulto ne tramandò memoria "sine ira", con "indipendente giudizio" col distacco proprio dello storico. "La cultura italiana gli deve tanto per una più esatta visione e giudizio dei fatti risorgimentali". (L Sciascia).
Orbene, le sue pagine di storia, non meno drammatiche della novella verghiana, ci informano che il clero brontese in quei giorni di vendetta non venne affatto accomunato ai baroni o alle figure odiate dal popolo. A nessuno dei rivoltosi - e ce n'erano di feroci e barbari! - passò minimamente per la testa il pensiero di alzare un dito sul clero, venerato dai "buoni" e rispettato dai "cattivi".
I preti che ebbero direttamente un qualche ruolo, piccolo o grande, in quelle calde giornate agostane, furono molti, non meno di dodici. Presagendo il temporale che stava per abbattersi sulla loro comunità non esitarono a uscire allo scoperto, sulle piazze, sulle strade, battendo agli usci delle case per interporre i loro buoni uffici, per scongiurare i dolori, le atrocità e i lutti che si preannunciavano.
Girarono per il paese andando nei posti a rischio, nei covi, per persuadere e distogliere i malintenzionati dai loro terribili propositi di vendetta e qualche prete non temette di arringarli. Con le loro implorazioni e lacrime riuscirono a strappare dalla morte alcuni dei concittadini che stavano per essere condannati da un improvvisato tribunale del popolo. Consolarono, coi conforti religiosi, i morituri e impedirono, con forza, ai più violenti di eccedere in vendette e crudeltà. Ma l'opera geniale di quel clero si ebbe la domenica del cinque agosto quando a Bronte da Catania stava per giungere una compagnia di soldati al comando del colonnello Giuseppe Poulet con l'ordine di reprimere la rivolta. I ribelli, numerosissimi, tenendo sotto assedio il paese, avevano architettato nei particolari il loro piano di battaglia per affrontare l'esercito. Si erano appostati con le armi nei posti strategici, soprattutto sul monte San Marco che dominava la strada di accesso al paese. Il popolo era nella paura: il pericolo di morte, adesso, incombeva su tutti. Il clero che fino allora non si era dato tregua nel tentativo di calmare gli insorti, accesisi di più alla notizia dell'approssimarsi dell'esercito, ebbe una trovata semplice, eppure geniale. In sacra processione, col crocifisso in testa, portato dall'arciprete Politi, con stendardi e bandiere, partì dalla chiesa San Vito per andare incontro, in segno di pace, al colonnello. Il popolo "buono" non tardò ad unirvisi e dai balconi cominciarono a pendere le immagini della Madonna Annunziata, segno rassicurante per i brontesi, mentre le strade, percorse dal corteo, risuonarono del canto delle litanie. Ad un tratto, però, quando improvvisamente si sentirono delle fucilate e le campane del paese suonare - era il segnale convenuto dell'approssimarsi dei soldati alle porte del paese - gli insorti più esagitati irrompendo nel corteo si diedero a grida ''Tradimento, tradimento!”. La processione si scompigliò in un fuggi fuggi generale. Ma il padre Gesualdo De Luca, cappuccino, si fece avanti agli esagitati insorti, parlò loro, li abbracciò anche e riuscì a rassicurarli sulla missione pacifica dei soldati. La processione si ricompose e riprese a procedere verso lo Scialandro, porta del paese verso Catania. |