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Uno spettacolo unico, terrificante e nello stesso tempo maestoso e affascinante, resti di un fiume di magma incandescente che distrusse un paio di secoli fa una parte di Bronte e che solidificandosi ha assunto le forme più strane e inverosimili. Ve lo presentiamo con le parole di Benedetto Radice che, questa volta, lasciando da parte la veste dello storico prende a prestito per un attimo l'abito del poeta: «Vulcano con i suoi artefici ha foggiato la materia ignea, scolpendo ardite strane forme: lunghe, scarmigliate capigliature di corpi immani mostruosi; alberi con intricati viluppi di radici; giganteschi serpenti e sfingi; enormi gole spalancate di leoni, ove urlando ruggiscono i venti; ossature, avanzi impietrati di una gigantomachia immemorabile. «E’ una ruina vivente, una desolazione magnifica e tremenda, sulla quale sembra passeggiare la vendetta di Giove. Non fruscìo di rettili, non frullo d’ala, non gridi d’uccelli predaci rompe il nero tetro silenzio di quell’irta, paurosa solitudine, dove celansi spelonche. Di mezzo a quella funerea landa par che giunga all’orecchio una lamentazione infinita, lugubre, confusa, di generazioni, delle quali i secoli, in quella sinistra solitudine, hanno conservato l’eco dolorosa. Sono voci alte e fioche e strida e gemiti e implorazioni, è tutto un coro triste di Etnei antichi e nuovi, cacciati dall’avaro fuoco che in brevi istanti ha impietrato e incenerito il campicello, sostegno alla stanca e misera vecchiaia. Ancora par che giunga all’orecchio la voce cupa della rossa fiumana che, come a Daneta, intima: Veteres migrate coloni. Quella terra non ha più palpiti: è spento ogni segno di vita. Solo la morte! La morte! la morte!
Ora tutto involge una ruina. Una solenne calma elegiaca ed eroica tiene il paesaggio circostante all'Etna dalla sua candida cappa di neve e di ghiaccio che raggia e brilla come diamante sul cielo purissimo. All’orlo del nero deserto, popolato in basso dal lussureggiante siriaco pistacchio, frastagliato da verdi dagale, che dànno immagini delle oasi orientali, biancheggiano villaggi e paesetti lillipuziani (...). Alcuni siedono a specchio del glauco sonante Ionio, altri corcati nel verde, coronati dalle irte siepi del chionzo fico, dono dell’India, si arrampicano sulle spalle del gigante: quivi lavorano, vivono, soffrono, cantano, pregano, finchè il vecchio Titano non si adira o si scrolla. (...)
«Questa gara assidua di forza distruggitrice della natura e l’audacia più indomabile dell’uomo, questo lavoro perpetuo delle Danaidi e di Sifo ci fanno ricordare le parole di Geremia profeta. | |||||
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