I Fatti del1860

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Antefatti - Decreti di Garibaldi - Situazione locale - I Fatti dal  2 al 9 Agosto - DIBATTITI E RICOSTRUZIONI


Un'analisi dei Fatti con l’occhio di uno scrittore che indaga su aspetti che coinvolgono la ragione, o la sua assenza, in molte vicende siciliane

"In Sicilia"

Non si può operare come Bixio a Bronte, il quale ordinò di fucilare anche il pazzo Fraiunco pur di inseguire un’irraggiungibile giustizia

di Matteo Collura

La Ducea Nelson, argomenti correlati

I Fatti del 1860. argomenti correlati

[…] Settantatré anni prima, apparentemente ragionando sulle sue entusiastiche scoperte di natura mineraria, Johann Wolfgang Goethe annotava quello che può essere considerato una sorta di vaticinio, una straordinaria intuizione che oggi suona addirittura banale: «Senza vedere la Sicilia, non ci si può fare un’idea dell’Italia. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto».

L’uso di questa «chiave» mi suggerisce ora di spingermi laggiù, alle falde dell’Etna, seguendo un filo che porta a Bronte, alla ricerca di quanto oggi rimasto di un possedimento inglese, appartenuto a dei «principi sotto il vulcano» che la rivoluzione garibaldina, dagli affamati popolani locali presa alla lettera, parve minacciare.

Il torrente Saracena, fresco e sonoro, scorre (quando non appare di pietra, come in questa torrida estate) sotto le mura brune del castello di Maniace, fino a una ventina d’anni fa proprietà di un’aristocratica famiglia britannica.

Si chiamano così, il castello e il torrente, perché qui il bizantino Giorgio Maniace, in un cruento scontro, sconfisse i nemici saraceni, e tanti ne furono uccisi di quei mori che il loro sangue imporporò le acque del ruscello.

È uno strano castello, questo, un po’ mas­seria e un po’ villa di campagna, con residue tracce dell’antica abbazia che ne fu l’originaria struttura. Nel cortile interno, cui quel che rimane dei locali monastici conferisce un aspetto raccolto e dimes­so, severa ed estranea s’impone alla vista una croce celtica. «Heroi Immortali Nili» (All’eroe immortale del Nilo) dice un’ancor più estranea scritta incisa nel basamento.

L’eroe cui viene reso perenne onore è Horatio Nelson, il vincitore di Trafalgar, cui Ferdinando di Borbone, quarto re di Napoli, terzo di Sicilia, nel 1799, assieme al titolo di duca, donò questo pezzo di Etna - con tutto dentro: abba­zia, terreni circostanti, uomini e animali - come concreta ricompensa per avergli salvato la vita e il trono.

In quei giorni di rivoluzione giacobina, il sovrano delle Due Sicilie a tal punto si era sentito in pericolo che era fuggito da Napoli a Palermo, dove con l’aiuto di Nelson era poi riuscito a riacquistare forza e a riprendersi il potere. Nacque così questa ducea che rende gloria al trionfatore delle battaglie navali di Abukir e di Trafalgar, offuscatrici  della buona stella di Napoleone.

 

Il brano è tratto dal libro di Matteo Collura "In Sici­lia" (Longanesi & C., Mi­lano 2004).
Un viaggio nei sentimenti in una regio­ne dai mille volti e dai feroci contra­sti, un itine­rario, insie­me “fi­si­co” e im­magi­nario, che lo scrit­tore percorre gui­dato dalla no­stal­gia ma anche dal desi­derio di indagare su fatti, personaggi e luoghi, noti o meno sconosciuti. Fra questi Bronte e due per­so­naggi che hanno inci­so profon­damente nella storia della città di Bronte: Nelson e Bixio.

Matteo Collura (Agrigento 1945) ha, ci­tan­do solo al­cu­ni libri, pubblicato: Il Maestro di Regal­petra - Vita di Leo­nardo Sciascia (Longanesi 1996, quattro edizioni; Tea 2000); Eventi - Il racconto dell’Italia del Novecento (Lon­ga­nesi 1999, Tea 2001); Alfa­beto eretico (Longa­nesi 2002); In Si­cilia (Lon­ganesi 2004, tre edizioni, Tea 2006), tradotto anche il polacco con il titolo “Na Sycylii” (2015), Qualcuno ha ucciso il generale (romanzo, Lon­ga­nesi, 2006).

E’ autore inoltre di Associa­zione indigenti (Einau­di 1979, Tea 2001), Baltico (Reverdito 1988), del best sel­ler Sici­lia scono­sciuta (Rizzoli 1984/1997) e di Sicilia-La fab­bri­ca del mito (Lon­ganesi, Milano, 2013).
Biografo di Leonardo Sciascia, di cui è stato inti­mo ami­co, ha ottenuto diversi premi letterari e gior­nalistici con il libro incentrato sulla sua vita. Scrive articoli di cul­tura per il Corriere della Sera e vive a Milano.

 

Leggi nel nostro sito web i capitoli (in versione Pdf) di Risorgimento perduto, che lo storico Antonino Radice dedica ai Fatti di Bronte

Vedi anche La strage insensata, di G. Bonina

Un angolo d’Inghilterra venuto inopinatamente a incastonarsi su un fianco del vulcano, dove la lava disseccata crea subbugli da paesaggio lunare. Un contrasto che sconcerta e disorienta; e procedendo nella visita, tra languidi giardini e quadrerie marinaresche, sconcerto e disorientamento virano verso un senso di tristezza, suggerito da ciò che questo castello tende a nascondere nel mentre esalta i meriti antinapoleonici del suo antico signore.

Ma non tanto in ricordo del genio militare del suo beneficiario questa ducea viene traman­data, quanto di un crimine di guerra che in quel finire di secolo rischiarato dai bagliori della rivoluzione soffocò in Sicilia ogni speranza.

Restaurata, a Napoli, la monarchia col determinante contributo delle forze britanniche e delle sanguinarie bande del cardinale Ruffo, fu Horatio Nelson a decidere della sorte dello sconfitto Francesco Caracciolo, suo omologo divenuto per brevissimo tempo ammiraglio della marina della Repubblica Partenopea.

Condannato a morte, il «liberale» Caracciolo - a lui, sì, e alle sue idee la Sicilia avrebbe dovuto dedicare, in memoria, una qualche «ducea» - aveva chiesto di essere fucilato, ma non gli fu risparmiata l’ignominia della forca: Nelson lo fece impiccare all’albero maestro della sua nave. Sarà forse per questo crudele e ingeneroso gesto che il duca di Bronte diventerà il prota­gonista di un’inquietante leggenda che la gente dell’Etna si tramanda e che enigmati­ca­mente è venuta a mescolarsi con l’impresa di Garibaldi?

Mi è stata raccontata, questa leggenda, da un albergatore di Taormina, il quale non per­de occasione per ricordare ai forestieri con cui entra in contatto che lo strapiombante verde di cui gode questo magnifico promontorio (che, tuttavia, di anno in anno viene sempre più eroso e sfregiato dal dilagare del cemento) si deve agli stranieri che qui abitarono, soprattutto nell’Ottocento. Inglesi, la maggior parte.

Tante le loro decantate residenze, tappe esclusive di una tradizione che si è fatta mito. Villa Nelson, tra queste, lascia indovinare le delizie del suo ben protetto giardino. Non sono riuscito a sapere se essa abbia a che vedere con la vicina ducea di Bronte o se si tratti di un caso di omonimia di cui si è perduta traccia, il nome rimasto tra i locali per antica abitudine. […]

E ora la leggenda. Essa racconta che il corpo di Elisabetta I, la grande sovrana d’Inghilterra e d’Irlanda, dopo la sua morte fu rapito da una schiera di diavoli e in volo, attraverso la Manica e la Francia, trasportato in Sicilia, dove fu gettato nel cratere dell’Etna.

Nel precipitare, da un piede del cadavere si sarebbe staccata una scarpetta che, rotolando tra le lave, si sarebbe arrestata ai piedi di una rocca chiamata Calanna, tra Maletto e Bronte.

Così mi racconta l’amico albergatore, rifacendosi forse alla versione che, nella seconda metà del XVIII secolo, contribuì a diffondere Patrick Brydone, il quale però credeva che il corpo precipitato nel cratere fosse quello della madre della regina Elisabetta, la sfortunata Anna Bolena.

Comunque sia, resta un’oscura diceria, questa; e ancor più lo è il seguito, in cui compare Nelson. Vuole infatti la leggenda che durante la cerimonia in cui fu nominato duca di Bronte, nel Palazzo Reale di Palermo, l’ammiraglio sia stato avvicinato da una misteriosa donna, la quale gli avrebbe donato un cofanetto. «Lo apra in segreto», gli avrebbe detto la sconosciuta, «e lo tenga sempre con sé.»

Comprensibile lo stupore di Nelson nel constatare che conteneva soltanto una scarpetta da donna. Lontanissima da lui l’idea che quella scarpetta potesse appartenere alla regina Elisabetta, ne fece dono alla sua amante, Lady Emma Hamilton.

E questo, vuole la leggenda, gli sarebbe stato fatale. Poco prima della battaglia di Trafalgar, infatti, l’enigmatica donna che nella reggia di Paler­mo gli aveva fatto dono del cofanetto, gli sarebbe riapparsa, rimprove­randogli di non avere rispet­tato il patto e annunciandogli l’ormai prossima fine. Il resto è noto.

Horatio Nelson, il duro ufficiale che in precedenti battaglie aveva perso un occhio e un braccio; lui, l’ammiraglio che sembrava trarre forza dalle sue stesse muti­lazioni, nelle acque di Trafalgar trovò la morte. Raggiunto alla schiena da una fucilata, spirò dopo aver appreso della propria vittoria a conclusione dello scontro con la flotta franco-spagnola; trionfo navale britannico, quello - era il 1805 -, che pose fine alle mire francesi di dominio sul mare.

Leggo ancora una volta la scritta ai piedi della croce celtica e mi appare improv­visamente chiaro perché, in giro per la Sicilia, mi viene detto conti­nuamente che quest’isola è un «deposito di misteri».

Ora non mi è più estranea questa scritta, e mi dico che è giusto sia ricor­dato anche qui, Nelson, lontano dalla sua patria e dal luogo della sua ultima battaglia. La storia ha una sua logica, anche se, a volte, apparen­temente irrazionale.

Questa ducea a ragione porta il nome di Horatio Nelson anche se lui non vi mise mai piede. Di questo suo possedimento usufruirono gli eredi che legit­timamente ne fecero occasione di rendita e meta di esotiche vacanze.

Alla morte dell’ammiraglio la proprietà passò al fratello Guglielmo, pastore anglicano; poi fu trasmessa alla figlia di questi, Carlotta, sposa del visconte di Bridport.

Erano i Bridport signori della ducea quando Bronte divenne teatro, nel­l’ago­sto 1860 di atroci fatti di sangue, cui seguì una repressione altret­tanto dura e cieca, il garibaldino Nino Bixio a sovrintenderne.

Incoraggiata dalla promessa di riscatto che lo sbarco dei Mille a Marsa­la sembrava aver portato ai siciliani prigionieri dei feudi, a Bronte la popo­la­zione si sollevò contro i notabili e in un crescendo di violenze, tra sac­cheggi e incendi, ne trucidò otto (i morti furono 16, NdR).

Dopo un processo sommario, Bixio fece fucilare cinque brontesi, tra i quali un avvocato che con la rivolta e gli eccidi aveva pochissimo a che fare, e un povero pazzo la cui colpa era stata quella di aver girato per il paese con la testa fasciata da pezze messe insieme a formare un approssimativo tricolore.

Anche in altre zone dell’isola, dopo le vittorie gari­bal­dine di Calatafimi e di Palermo, si era­no avuti disordini con eccidi per vendet­te e per antichi odi tra servì e padroni, ma qui, tra le lave del vul­cano, vi era una pro­prietà inglese da tutelare. E gli inglesi - questo ormai non sorprende più nessuno – finan­zia­ria­mente avevano con­tri­buito all’impresa garibaldina in Sicilia. [...]

Nel piccolo cimitero della ducea, ombreg­giato dai cipressi e dai platani, una tomba, sormontata anch’essa da una croce celtica, mostra incisi questi versi: «Addio allora a quel che è conosciuto ed esaurito / benvenuto a quel che è sconosciuto ed inesplorato».

Sono del poeta scozzese William Sharp, che qui a lungo soggiornò e nel 1905 morì, dopo aver pubblicato le sue opere sotto lo pseudo­nimo di Fiona MacLeod.

Fingendomi incoraggiato dal benvenuto che il poeta dà allo «scono­sciuto» e all’«inesplorato», altre tombe scopro, con incisi nomi stranieri. Ecco quelle dei Thovez, di cui in uno scritto dedicato a questi luoghi parla Sciascia.

È per aver letto questo scritto che sono giunto qui, di fronte a queste sepolture che, assieme al loro ormai impal­pa­bile contenuto, sembra­no onorare il vincolo del silenzio che la gloriosa storia dell’Unità d’Italia a esse ha imposto.

La Ducea di Bronte ed i Fatti del 1860
 

LA DUCEA «MALEDETTA»

di Michele Pantaleone

«A Bronte non fu una guerra contro i Borboni ma era una lotta degli op­pressi contro gli oppressori e gli op­pressori, grandi e pic­coli, erano i notabili paesani al servizio della Ducea "male­detta"». «L'aspetto più sconcertante della storiografia del tempo sta nel­la totale assenza dai «Fatti di Bronte» della Ducea, come se fosse stata estranea...»

Intervento di Michele Pantaleone al convegno sul film di Flore­stano Vancini "Bron­te, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccon­tato" (Bronte, 1983)

«... E ad entrare nel castello, che è poi l’antica abbazia di Santa Maria di Maniace, la suggestione si fa più profonda: nel cortile è una croce di pietra lavica, ma di forma da noi inconsueta, borchiata, in memoria di Nelson; nella chiesa sono sepolti gli amministratori inglesi del feudo e i loro familiari: e chi sappia qualcosa dei fatti del 1860 è colpito dal nome Thovez, ché Guglielmo e Franco Thovez erano allora gli amministratori.

E si può dire che come essi, e i loro predecessori e successori nell’amministrazione del feudo, sono riusciti a ricreare un paesaggio inglese intorno al castello, la realtà siciliana è riuscita a fare di loro dei siciliani della peggiore estra­zione: gretti, furbi, tortuosi, abilissimi nel gioco delle parti.

Qui dove il greco Giorgio Maniace sconfisse nel 1040 i saraceni, nel feudo chiamato appunto della Saracina, la gloria di Horatio Nelson e di Nino Bixio scende nel sangue e nell’ingiustizia: Nelson ha accettato questa terra come compenso di un tradimento e di un massacro, Bixio si è fatto apostolo del terrore invece che della giustizia.»

Furono i Thovez, per difendere la minacciata proprietà della duchessa che in quel tempo se ne stava nella sua Inghilterra, a chiedere soccorso al console britannico a Catania, e questi a rivolgersi a Garibaldi, il quale comandò scrupolosa fermezza nel reprimere quello che Verga definisce il «furibondo carnevale del mese di luglio».

E fu davvero furibonda quell’ubriacatura di sangue, a Bronte, in cui uomini da sempre assoggettati come pecore si trasformarono in lupi, facendo orribile strazio dei primi «padroni» che trovarono sulla loro strada. Tutto in nome di quel proclama che da Marsala aveva chiamato il popolo siciliano a insorgere con le armi contro chiunque rappresentasse un nemico della rivoluzione.

Ma da quegli eccessi la rivoluzione rischiava di essere sporcata e ancor più si sarebbe imbrattata le mani se i rivoltosi avessero sfogato la loro rabbia sull’appartata ducea. […]

In un giardinetto ai piedi della scalinata che immette sul piazzale della chiesa di San Vito, dove il 10 agosto 1860 furono fucilati i cinque brontesi considerati da Bixio i caporioni della rivolta, un monumento in ferro battuto, fatto erigere dal Comune in anni recenti, ricorda il tragico episodio.

Ma questo, che Alberto Savinio chiamerebbe «monumento casereccio», nonostante i contorcimenti e gli spasimi tra corde e lame di un corpo umano legato a una sorta di cippo sacrifìcale, non ha la solenne retorica dei monumenti quando era tempo che si costruissero.

E questa specie di stento orticello più che un giardinetto, che gli sta intorno ne accentua la modestia, come di cosa fatta in famiglia per tramandare memoria di un avvenimento rimasto nel chiuso di una piccola, insignificante comunità. E, del resto, come si sarebbe potuto erigere un vero monumento in ricordo di una nera pagina di storia in cui non figurano né colpevoli né innocenti, né vincitori né vinti?

Nell’autunno del 1985 il Comune di Bronte organizzò un virtuale ancorché spettacolare processo a Bixio, con accusa, difesa e collegio giudicante.

Dopo estenuanti arringhe si giunse al verdetto, che fu di assoluzione sia per il generale garibaldino sia per i rivoltosi, essendo stata ogni responsabilità addossata alle «circostanze che davano ragione sia ai massacratori sia a Bixio, il quale li fece fucilare senza distinzioni pur di non essere intralciato», così si espressero i «giudici», «nella marcia trionfale dei garibaldini verso l’Unità d’Italia».

La marcia trionfale dei garibaldini verso l’Unità d’Italia, quella degli Alleati, ottantatré anni dopo, per liberare l’Italia da nazisti e fascisti; e anche questa volta la proprietà inglese, a Bronte, sarebbe stata difesa e risarcita.

Un villaggio simbolicamente costruito lì, di fronte al castello dei Nelson, negli anni degli assalti ai latifondi, e per contrappasso dai capi delle rivolte contadine intitolato all’ammiraglio Caracciolo, nell’estate del 1943 fu fatto abbattere dalle autorità militari di Sua Maestà britannica, gli assegnatari dei terreni costretti a firmare un più «ragionevole» atto di rinuncia. (le imponenti costruzioni del Borgo Caracciolo furono abbattute dalle ruspe del Duca nella primavera del 1964, NdR)

Dalla balconata che lo sovrasta, nelle prime ombre della sera, il monumento si confonde con il grigiore delle case e lo scoscendere rapido dei tet­ti, la cui umile geometria è deturpata da panciuti recipienti di un vivissimo quanto stravagante colore azzurro (e vien da chiedersi perché questi utili contenitori d’acqua che in Sicilia troneggiano ovunque non vengano messi in commercio con un colore che li renda meno appariscenti).

In quest’ora serena di fine giornata, mentre di quella fucilazione cerco tracce ormai irrecuperabili, mi accompagnano le voci taglienti dei bambini del quartiere.

Sprangata e muta, con il bel portale - unica sua attrattiva esteriore - puntellato da vistose travi, la chiesa di San Vito, in faccia alla quale i cinque condannati caddero, sembra languire in un abbandono senza rimedio.

Una tristezza infinita scende, con la sera, su questo paese acquattato tra buie lave che si perdono a vista d’occhio, incombente ovunque la massiccia mole del vulcano, come fosse un immenso altare verso cui gli esseri umani levano sguardi deferenti.

Mi trovai qui, una volta, in inverno, in questa stessa ora, e l’immagine del vulcano, allora ricoperto dalla neve tutta rosa di tramonto, mi è rimasta nella memoria come una delle esperienze di viaggio più straordinarie.

L’Etna innevato a Mario Praz ricordava «quel terribile bianco di cui parla Melville a proposito di Moby Dick»; e in certi casi la presenza del vulcano, in questa zona, si fa così ossessiva, assoluta, incalzante che si è come sopraffatti dall’arcano manifestarsi di una potenza divina.

Questa sera, no. Inargentato dalla luna, l’Etna è un grosso animale accovacciato, buono, solo, perduto nel sonno.

Torno a camminare, come i Brontesi fanno nelle loro attonite passeggiate serali, tra queste lave che fanno pensare a corsi d’acqua pietrificati d’un colpo, deserti e apparentemente inospitali.

Quando vi giunsi la prima volta, erano il pendolarismo con Catania e la coltivazione del pistacchio, qui impiantato dagli arabi, a muovere la modesta economia del paese. Oggi, un migliaio di brontesi confezionano jeans per le migliori marche d’abbigliamento.

Allora non c’era il monumento all’«Olocausto dei cittadini di Bronte », che ora arrugginisce come un ferro vecchio gettato chissà da chi su un terrapieno dove i ragazzi, come fosse lo spiazzo di un triste oratorio, sul far della sera vanno a giocare a palla.

Sembra di essere passati da un continente a un altro se si arriva qui provenienti dal promontorio di Gibilrossa. Eppure la storia, tra questi diversi luoghi, ha creato un legame che non si potrà più sciogliere.

Marsala, Calatafimi, Palermo, Bronte, Milazzo segnano le tappe di un’impresa che rese possibile il formarsi di una nazione, ma che non ha colmato le distanze tra le varie realtà della Sicilia; distanze accentuate, prima d’ogni altra cosa, dal repentino mutare della natura che qui ha condizio­nato finanche la storia, assoggettandola a esiti che altrove sarebbero apparsi inconcepibili, le accomodanti lapidi a documentarne, di volta in volta, l’innegabile eccezionalità. [...]

Matteo Collura ("In Sici­lia", Longanesi & C., Mi­lano 2004, pagg. 152-169)

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