I Fatti del 1860

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ANTEFATTI - DECRETI DI GARIBALDI - SITUAZIONE LOCALE - I FATTI DAL 2 AL 9 AGOSTO - DIBATTITI E RICOSTRUZIONI


Cenni storici sulla Città di Bronte

"La fame di terra" e l'ambiente socio-politico all'epoca dei Fatti

«Difesa pronunziata d'innanti la Corte d'assisie del Circolo di Catania per la causa degli eccidii avvenuti nell'agosto 1860 in Bronte» (1863)

I Fatti del 1860

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Introduzione

di Gino Longhitano

«[...] Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conduce­vano ammanettati al tribunale [...].

Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. 'Voi come vi chiamate?'. E ciascuno si sen­tiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto.

Gli avvocati armeggia­vano fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pen­denti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugan­dosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco.

I giudici sonnecchiavano dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiaccia­vano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stan­chi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba o ciangot­tavano fra di loro.

Certo si dicevano che l'avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce.

Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspetta­vano pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: 'Sul mio onore e sulla mia coscienza!’.

«Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: 'Dove mi condu­cete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c'era la liberta!...’».

Così Giovanni Verga, nella giustamente celebre novella Libertà, liberamente - molto liberamente - ispirata ai fatti di Bronte del 1860.

Ma conclusa in questi termini - e in questi termini, con la descrizione che ne precede il finale, essa è stata spesso inter­pretata - la vicenda appare come la fase conclusiva della cronaca d'una jacquerie, rico­struita sul motivo dell’eterna contrapposizione tra ricchi e poveri, a giustificazione d’una lettura della storia siciliana all'insegna del destino dei vinti.

Epperò, tra gli avvocati che a parere di Verga «armeggiavano tra le chiac­chiere» e «si scalmanavano», ce ne fu uno che fece molto più che asciu­garsi la bocca «col fazzo­letto bianco, tirandoci su una presa di tabacco».

E di quegli avvenimenti fornì nella sua arringa difensiva un'interpre­tazione politica d'una tale lucidità da fare accapponare la pelle a chi con un pro­cesso e una sentenza per reati comuni, inquadrati magari in un contesto di «reazione borbonica», riteneva di aver riposto definitiva­mente nell'ar­madio uno dei più ingombrati scheletri dell'unificazione italiana.

Ma il modello interpretativo che Michele Tenerelli Contessa - l'avvocato catanese che difese davanti alla Corte d'assise di Catania gl'imputati del secondo processo per i fatti di Bronte, quelli scampati alle fucila­zioni sommarie ordinate tre anni prima a Bronte da Nino Bixio - applicò a quei fatti, come non dovette piacere ai giurati del processo, così non incontrò il favore di Giovanni Verga.

Ché vinti erano sì tutti quei condannati - come non definirli tali davanti ai risultati di quei due giudizi! - ma vinti entro gl'ingra­naggi d'un gioco più complesso, del quale però essi erano stati attori e dove la lotta politica era stata gravida di implicazioni assai diverse da quelle d'una mera jacquerie.

Certo, la terra c'era di mezzo, e costituiva quasi il problema vitale della comunità brontese. Attorno ad essa, perciò, aveva finito col qualificarsi buona parte della lotta politica municipale nei decenni immediatamente precedenti.

Ma il conflitto che su di essa si scaricava non era un conflitto tra poveri e ricchi, centrato attorno ai problemi d'una ridistribuzione della pro­prietà, nella forma sbrigativa in cui Verga riteneva di poterlo rap­pre­sen­tare. La «rivoluzione» del 1860 a Bronte non fu un'opera­zione di «comunismo primitivo».

A Bronte, il problema della lotta politica attorno alla terra era, a metà dell'Otto­cento, l'effetto d'un avvenimento «nuovo»: il fatto dell'esistenza, a partire dal 1799, della ducea Nelson.

Il conflitto che, a questo proposito, si era aperto nel primo Ottocento tra il comune e la ducea potrebbe anche far pensare alla continuazione d'un conflitto antico, quello che nei secoli precedenti aveva visto il comune contrapporsi al precedente feudatario, l'Ospedale Grande e Nuovo di Palermo.

Ma mentre il conflitto con l'Ospedale si era avviato verso una conclu­sione che pareva positiva alla fine del Settecento, sull'onda del riformismo borbo­nico, col duca inglese esso si era riaperto in tutta la sua ampiezza, rinfo­colato da non pochi elementi di «reazione signorile».

Il ceto politico brontese si era spaccato: tra «ducali» (sostenitori del «partito» del duca) e «comunisti» (sostenitori del «partito» del comune) si era aperto così un conflitto nuovo, destinato a riempirsi di contenuti più ampi, allorché non avranno esito nel comune gli effetti dell'abolizione della feudalità dichiarata in Sicilia nel 1812 e si riapriranno questioni e liti - pub­bliche e private - su boschi, sciarelle, difese e parapasceri.

Perché il problema demaniale, che aveva costituito un grosso proble­ma in tutti i comuni dell'isola, si era complicato a Bronte, per la presenza del duca inglese, degli effetti d'una grande questione diplomatica. Su questo conflitto finirà per evolversi a Bronte la vicenda dei «partiti».

Dodicimila all'epoca dei fatti, erano 8.862 gli abitanti di Bronte al cen­si­mento del 1832, quello di cui si conservano le carte con le indica­zioni nominative presso l'Archivio di Stato di Catania.

La povertà di grandissima parte di questa popolazione era nota. La mitologia relativa alla presenza d'una grande attività industriale nella Sicilia preunitaria può trovare anche a Bronte le sue pezze d'appoggio.

Pensiamo un momento alle professioni femminili: il censimento del 1832 conta diverse centinaia di «filatrici e di «industriose». Esse però non appaiono nel sommario finale di condizioni e professioni redatto dai responsabili delle operazioni censuarie, a conferma che tali quali­fiche - applicate peraltro esclusivamente alle donne capofamiglia, le vedove in particolare - erano nella stragrande maggioranza dei casi, a Bronte come altrove, nulla più che pietosi sinonimi di «povera».

Su quasi 2.000 maschi adulti che dichiaravano una condizione profes­sio­nale, i bracciali erano 1.212 e i pecorai 249. Diciannove erano coloro che dichiaravano titolo o professione di legali, dieci i medici, sessantacinque i preti, trentadue i monaci, nove i notai e tre i farmacisti.

Venivano poi le diverse attività artigianali, tra le quali erano più rap­pre­sentate quelle di calzolaio (75), falegname (46), muratore (43), ferraio (40). Centoquindici, tra uomini e donne, erano i possidenti senza altro titolo, otto quelli che, senza altro titolo, potevano fregiarsi di quello di proprietari.

Un riscontro sulla situazione del catasto, redatto pochi anni dopo, confer­ma come la gerarchia delle professioni s'accompagni parallela alla gerarchia della rendita fondiaria.

Peraltro, entro le due liste, e perciò anche entro la lista degli eligibili e nelle cariche municipali, ai livelli più considerevoli si ripropongono sempre gli stessi nomi, le stes­se famiglie: i Cimbali, i Margaglio, i Luca, i Saitta, i Leanza, i Minissale, gli Zappia, i Meli. Da qui le alleanze: in una dimensione della comunità formalmente vasta, le relazioni matrimoniali tra i notabili seguivano di generazione in generazione percorsi poco variati.

Gli Zappia s'imparentavano coi Leanza coi Mauro, i Margaglio coi Mauro e con gli Artale, i Leanza coi Saitta e con gli Spitaleri, i Cimbali coi Palermo e coi Saitta, e così via. L'endogamia sociale era in fondo una condizione di sopravvivenza nello status.

Ma tutto questo non bastava a tenere a freno i conflitti di potere che, sul piano dell'eser­cizio delle professioni, sul piano delle candidature alle cariche municipali, scaturivano dalla ristrettezza di quei rapporti.

Ampio quanto a popolazione, il paese era certamente più stretto quanto a canali di mobilità sociale. Il controllo del potere municipale, con le sue finanze, coi suoi demani, con gli appalti, con le usurpazioni, con la possibilità di mantenimento dei seguaci, era perciò al centro delle lotte e dei conflitti.

Peraltro, la strada delle professioni passava al margine delle oppor­tunità che una famiglia aveva potuto ottenere dalla carriera ecclesia­stica, fuori dai confini del comune, di qualcuno dei suoi membri. Ne sapevano qualcosa i Saitta, che avevano avuto in famiglia un vescovo, e i De Luca, che vantavano allora un cardinale.

Finché la questione della distribuzione dei demani non si porrà come la chiave per l'esplo­sione del conflitto sociale su un terreno non più controllabile attraverso gli strumenti a disposi­zione delle élites tradizionali, alla classe politica brontese, nei grandi momenti della storia siciliana, basterà barcamenarsi: forse maligna, e certo non rappresentativa del complesso dei comportamenti delle élites politiche locali, l'osservazione di Gesualdo De Luca (a destra in un quadro di Nunziato Petralia, Ndr), sui modi della neutralità brontese nel conflitto tra Palermo e Messina durante i fatti del 1820, lascia adito a qualche riflessione:
«Re Ferdinando, rifugiato in Palermo, rifece il Parlamento all'uso spagnuolo. Se ne contentò Palermo, ne arse di sdegno Messina. Indi la scissero.

Bronte si stette neutrale, e tenendo pronte lunghe fasce a maglia di colore rosso e di colore giallo, accoglieva i messi or dell'una, or dell'altra città, incon­trandoli il popolo ornato il petto delle fasce del rispettivo colore».

Ma gli avvenimenti «militari» al centro dei quali si trovarono i brontesi nel 1820 non furono senza effetti sulle possibilità di movimento nelle successive scadenze «rivoluzionarie».

Ora, furono proprio i ricordi di tali capacità militari a far intravedere una linea di soluzione extragiudiziaria della lite con la ducea. Essa s'inserì nel contesto della rivoluzione del 1848 e si manifestò attraverso l'occupazione popolare delle terre contestate.  A dirigere e ad approvare il movimento fu una parte dei «comunisti» brontesi, i fratelli Minissale in primo luogo.



 

Dopo il primo sommario processo, fatto istruire da Bixio davanti alla commissione speciale nei pochi giorni che restò a Bronte (dal 6 al 9 agosto 1860) e concluso con cinque condanne a morte, ne seguì un altro, celebrato davanti alla Corte d’Assise di Catania. Si trascinò per tre anni e si concluse nel 1863 con 37 condanne tra cui 25 ergastoli.

Michele Tenerelli Contessa era l'avvocato catanese che difese davanti alla Corte d'assise di Catania alcuni impu­tati del secon­do processo.

L’ntervento di Tene­relli-Contessa - appassionato, luci­dissimo, d'un av­vo­cato colto e intel­ligente - pub­blicato nel 1863 dalla Tipo­grafia La Fenice di Musumeci (Ca­ta­nia) è stata ristam­pato recente­mente dalla "C.u.e.c.m." (Catania, 1989) a cura del brontese prof. Gino Longhitano.

Per gentile concessione dell'autore e della C.u.e.c.m., ripor­tiamo la parte introduttiva del libro.



GINO LONGHITANO, nato a Bronte nel 1940, profes­sore di Storia moderna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Uni­versità di Catania, è autore di nume­rosi libri.
Tra le sue pubblicazioni,
Il progetto politico di Francois Quesnay - Materiali e note per una riconside­razione dell'agra­rismo fisiocratico, Catania 1998; Ricchezze, valo­ri, società - La "nuova scienza" e i modelli sociali nella Francia del secondo Sette­cento, Vicenza 1993; Traité de la Monarchie di V. de Mirebeau e F. Quesnay, Paris, 1999.
 

«Quando nel banco dei rei siedono molti accusati, allo­ra bi­sogna ricercare in tutt'altro che nell’umana mal­va­gità la cagione dei loro reati»
(M. Tenerelli Contessa)


 

I Fatti di Bronte

Perchè Garibaldi si è prestato alla repressione?

l'opinione dello storico Salvatore Lupo

«Paradossalmente Garibaldi finisce per intervenire a fian­co del partito Borbonico contro il locale Partito liberale». «L'in­surrezione di Bronte faceva parte della rivoluzione e si le­gittimava con essa»

Professore ordinario di storia contemporanea all'Uni­versità di Palermo e precedentemente docente di Storia contempo­ra­nea presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Catania, Salvatore Lupo (Siena, 7 luglio 1951) è tra i maggiori storici contemporanei. E' presidente dell’IMES (Istituto Meri­dionale di Storia e Scienze Sociali) di Catania, vicedirettore della rivista storia e scienze sociali dell'istituto "Meridiana", nonché uno dei più quotati stu­diosi della mafia in ambito ita­liano, autore di numerose pubblicazioni sul fenomeno crimi­noso e di storia contem­poranea.



Bronte, disegno del 1880
Bronte all'epoca dei Fatti (disegno tratto dalla Storia della Città di Bronte, di p. Gesualdo De Luca, 1880)

 

Gli ATTI PROCESSUALI

Leggi tutti i documenti del processo istruito in tre giorni - dal 7 al 9 Agosto del 1860 - dalla Commis­sione Mista Ec­ce­zio­nale di Guerra nominata da Bixio.


I documenti e gli atti giudiziari relativi ai cosiddetti "Fatti di Bronte" che avvennero nei primi giorni di ago­sto del 1860 a Bronte e in alcuni paesi limitrofi, e le carte del Processo in Corte di Assise di Catania che si trascinò per tre anni e si concluse nel 1863 con 37 condanne tra cui 25 ergastoli, sono conser­vati sotto il titolo Pro­cesso di Bronte nell’Archi­vio di Stato di Catania (16 volumi di scritture,  Buste I – XVI, Estremi cronologici 1860 – 1867).

Tutti i documenti dei 15 faldoni del Processo di Bronte (7.609 pagine) sono stati recentemente an­che dema­te­ria­liz­za­ti, digi­ta­lizzati a cura della no­stra Asso­cia­zio­ne. L'archivio digitale, consegnato nel Febbraio 2024 all'Ar­chivio di Stato di Catania è ora a dispo­sizione di tutti.

 L’ARRINGA DI TENERELLI CONTESSA

L’appassionato intervento dell'avv. Michele Tenerelli-Con­tes­sa davanti alla Corte di Assise di Catania (1863), ristam­pato dalla "C.u.e.c.m." (Catania, 1989) a cura del prof. Gino Longhitano.


Vedi anche

 -  La Ducea "maledetta", di Michele Pantaleone

 -  La marcia dei contadini sulla Ducea dei Nelson

 -  Alle origini della contesa - Lotte demaniali a Bronte nell'ottocento borbonico

 -  Sui modi dell'aggregazione politica nel Mezzo­giorno contem­po­raneo, di Salvatore Lupo

p. Gesualdo De LucaL'occupazione ruppe l'unità entro il partito dei «comunisti» e finì col costituire, dopo il fallimento del '48 siciliano, la ragione prima dell'iso­la­mento politico in cui vennero a trovarsi i settori più radicali del ceto politico brontese.

Data da quei momenti la sfortuna politica dei Lombardo, dei Minissale, dei Sanfilippo. Da allora, sino al 1860, essi resteranno isolati, esclusi dal potere municipale. Peraltro, il '48 peserà fortemente nella polemica politica locale. I «ducali» non mancheranno di approfittarne direttamente e indirettamente.

Nel giugno del 1851, il dottor Luigi Saitta veniva destituito dalla carica di sindaco, dietro pressione del rappresentante della ducea, perché, amministrando gl'interessi del comune, si era reso responsabile di «abuso di potere» in danno degli interessi della duchessa Nelson. Ma la liquidazione dei «comunisti» più radicali non riuscì a sedare i conflitti di potere. Le accuse di «immoralità» che corredavano - anonime e firmate - le obiezioni incro­ciate sulle diverse candidature a sindaco, a primo e a secondo eletto, continuavano a gravitare tutte, in maniera più o meno strumentale, per tutto un decennio, sulle responsabilità dei candidati nei fatti del '48.

Nel 1853, Francesco Cimbali, fratello maggiore dell'allora più noto Antonino, essendo stato proposto alla carica di primo eletto, si vide scaraventare addosso, da una let­tera anonima, le accuse di «stran­golamento e furto di grossa somma in persona della vedova Nunzia Fiorenza»: l'anno prima, candidato alla carica di sindaco, era stato affrontato da Vito Margaglio, che aveva evidenziato apertamente la sua responsabilità in omicidi, relativamente ai fatti del '48, e la cattiva fama politica della famiglia, es­sen­do figlio di Giacomo Cimbali, un ex sindaco del comune - odiato ferocemente dai «ducali» - condannato per irregolarità amministrative.

«Immorale» si vedeva definito Bernardo Meli per la sua partecipazione ai fatti del '48. Pericoloso Fiorini, perché membro del comitato del '48, oltre che imparentato con Guglielmo Thovez, amministratore della ducea. E così via, quanto alle accuse «politiche».

Ma c'era anche dell'altro: a Vito Margaglio non si mancava di ricordare la destituzione di cui era stato oggetto quando aveva esercitato l'ufficio di giudice a Centorbi, mentre «immorale» era dichiarato il notaio Zappia per le «falsità» di cui si sarebbe reso respon­sabile nella sua attività professionale.

Un flusso periodico di lettere anonime, scandito sui ritmi della sua conferma e diretto a sottolineare una lunga pratica di contabilità disinvolta, riguardava Francesco Aidala, cassiere del comune. Nella cerchia assai ristretta di avvocati, medici e notai, entro cui di fatto si realizzava la concorrenza alle cariche municipali più ambite, la lotta rimaneva feroce: vi entravano motivi di ogni genere, non ultime le gelosie professionali.

Antonino CimbaliNel redigere le proprie memorie per la stampa, a metà degli anni Ottanta, Antonino Cimbali non aveva ancora dimenticato che Placido Lombardo gli aveva stroncato, diversi decenni prima, una promettente carriera di medico, avendo dimostrato che, di ritorno da Napoli - ove aveva svolto una parte dei suoi studi aiutato dalla liberalità dei fratelli Placido e Antonino Saverio De Luca -, egli aveva intrapreso l'esercizio di quella professione senza aver conseguito la laurea.

Ma tutto quello che attraverso beghe e conflitti interminabili finiva comunque col creare le nuove aggregazioni politiche locali, ridefinite sul fatto grosso dell'esclusione dei democratici dal potere municipale, rischiava di venire vanificato dall'arrivo, nel 1860, di Garibaldi in Sicilia.

Ché il dato naturale di quella presenza politica e militare pareva doversi tradurre a Bronte nella logica aspettativa d'una improvvisa e trionfale resurrezione politica dei Lombardo, dei Minissale, dei Saitta, nella sostanziale approva­zione dei loro compor­tamenti durante i fatti del 1848, nel riconoscimento - sancito in qualche modo indiretto dal decreto del 2 giugno - della giustezza delle loro posizioni radicali in materia di destinazione dei demani.

A Bronte e nei comuni dove il '48 aveva lasciato aperti problemi simili, la questione demaniale rischiava di passare tutta attraverso la soluzione prospettata dai demo­cratici nel 1848. Il 1860 di Garibaldi rischiava così di dover chiudere i conti aperti della rivoluzione precedente, di chiuderli lungo una linea che non aveva molti punti di contatto con la dimensione nazionale entro la quale doveva muoversi - nelle intenzioni di Crispi, che ne teneva le fila - l'operazione garibaldina in Sicilia.

E tutto questo, insieme alle pressioni inglesi su Garibaldi e sul gover­natore di Catania, può spiegare le ragioni per cui, al momento della costi­tuzione del nuovo consiglio civico brontese - prevista dal decreto legge 17 maggio 1860 come conferma del consiglio civico esistente prima della restau­razione borbonica, con la sostituzione, da parte del governatore, di coloro che nel frattempo fossero morti o che si fossero resi responsabili di collaborazione attiva col governo «illegittimo» dei Borboni -, non saranno tanto i borbonici ad essere esclusi dal consiglio, bensì i democratici del gruppo dei Lombardo, dei Saitta, dei Minissale, che avevano tutto il diritto di farne parte.

Così la presenza garibaldina in Sicilia finiva col funzionare a Bronte come uno strumento di definitiva emarginazione delle sinistre dal potere munici­pale e come un appoggio obiettivo al ceto politico della restaurazione. Che era quanto i democratici locali non potevano certamente credere.

«Si cridunu che sunu dudici anni che semu oppressi», così è verbalizzata in uno strano dialetto, dal delegato della sicurezza pubblica in Catania, il 3 agosto 1860, la testimonianza di Vincenzo Isola su ciò che gli avrebbero detto Silvestro Minissale e Nicolò Lombardo a Bronte il 26 giugno, «non potiri portari armi e non avere impieghi, ed ora, si crìdunu di non essiri calculati, se lo possono livari dalla testa, e succidissi la peggiu di lu paese».

L'esclusione dei Lombardo, dei Minissale, dei Saitta, dei Sanfilippo dal consiglio civico lasciava tutta fuori dalle istituzioni municipali, immediata ed incontrollata, la dinamica del conflitto sociale.

L'élite politica locale, quella riconfermata o inventata per l'occasione dal governatore Tedeschi, di fronte al pericolo d'una reazione popolare, prenderà quasi tutta il largo, riservandosi di tornare in paese a cose risolte.

Dei quattro capitani delle compagnie di guardie nazionali di nuova istituzione, solo Lombardo, a capo di quella composta essenzial­mente di contadini, resterà al suo posto: e finirà con l'essere così, nello stesso tempo, il capo politico designato dei «rivoluzionari» brontesi e l'unico responsabile, davanti alle autorità della provincia, dell'azione repressiva che gli si chiede insistentemente contro gli stessi «rivoluzionari».

E i moti scoppiano e procedono irrefrenabili, nei primissimi giorni di agosto, nella certezza popolare che Lombardo sia in diretto contat­to con Garibaldi, che abbia la completa copertura di quest'ultimo e che le scelte politiche relative al rinnovo del consiglio civico fossero il risultato d'una congiura locale, ordita da «sorci» (ossia borbonici camuffati), da «civili» e da «mastri», a difesa delle usurpazioni perpe­trate ai danni del demanio comunale, contro la destinazione sancita per esso dai precedenti del 1848.

L'avvocato Nicolò Lombardo viene nominato presidente del municipio e il dottor Luigi Saitta è messo a capo del consiglio civico, a furor di popo­lo.

Il conflitto conoscerà episodi collaterali di ferocia, con devastazioni, incendi, saccheggi, assassini, ma si limiterà a bersagli particolari, e colpirà quasi esclusi­vamente personaggi compromessi con gl'interessi della ducea e borbonici notori: ma scoppierà col carattere d'una «grande paura», da parte dei suoi autori in primo luogo - se ne veda il racconto del cappuccino Gesualdo De Luca, che si trovò in mezzo agli avveni­menti, o la ricostruzione di Benedetto Radice, che se li fece raccontare -, terrorizzati dal fatto di essere essi le vittime del «tradimento» dei civili e dei mastri, e con un generale bisogno di mediazioni e di processioni religiose purificatrici.

I moti dei primi di agosto segnarono però la fine politica di Nicolò Lombardo. Dopo la comprensione manifestata da De Angelis e da Poulet, comandanti delle prime colonne militari fatte affluire a Bronte per ristabilire l'ordine pubblico, l'arrivo di Bixio comportò la cancellazione di ogni altra interpretazione che non fosse quella d'un ordine turbato da ladri ed assassini.

Ma il processo sommario, che Bixio organizzò seduta stante, vide dappertutto ladri ed assassini - gli atti del primo processo sono pieni di liste di delinquenti comuni sospetti -, ma finì col condannare fondamentalmente i politici: in primo luogo Nicolò Lombardo.

E che farsa di processo! Chi non ha letto attentamente i verbali non può farsene un'idea adeguata. Un assassinio legale mal concepito e mal eseguito. Una liquidazione fisica ideata come preciso strumento d'una definitiva liquidazione politica.

Nell'urgenza degli avvenimenti, Lombardo sceglie a difensore di sé e degli altri coimputati il suo «nemico» politico e professionale: avvocato Nunzio Cesare. Invitato a presentare le prove a discolpa degli imputati, Cesare le presenta in ritardo, rendendole irricevibili da parte della commissione eccezionale di guerra, che funziona da tribunale.

Gl'imputati si difendono praticamente da sé, come possono: solo testimoni a carico, quelli a difesa non sono accettati. Ai testimoni a carico sono proprio Lombardo e Saitta a fare le contestazioni nel dibattimento. L'avvocato non interviene mai.

Il verbale dice comunque che la com­missione pronuncia la sua sentenza dopo aver interrogato i testimoni a difesa (un falso vero e proprio, dal momento che la stessa commissione aveva deciso di non ammetterli) e dopo aver ascoltato «la parlata del difensore».

E sarebbe certo interessante sapere cosa avrà potuto dire nella sua «parlata» Nunzio Cesare, se solo qualche giorno dopo lo vediamo farsi promotore d'una iniziativa che mira ad estendere, visto che la mediazione politica era stata esclusa per la liquidazione fisica dei capi del movi­mento, il giudizio sommario in loco, da parte della stessa commissione eccezionale di guerra, nei confronti di alcune centinaia di arrestati nelle carceri di Bronte; se un mese dopo, il 15 settembre 1860, lo ritroviamo al primo posto fra i firmatari di una supplica che porta cinquantatre firme, quelle dei bravi civili brontesi, quegli «onesti cittadini» che fino a qualche mese prima, in documenti firmati e in lettere anonime, solevano onorarsi vicendevolmente dei titoli di ladro e di assassino, e che tutti insieme ora, i Meli, i Cimbali, i Margaglio ed altri ancora, felicemente ricom­pattati sui cadaveri dei loro comuni nemici, danno la loro spiegazione dei fatti: «[...] pria dei giorni nefasti, in cui avvennero le atrocità, gli assassinii ed i furti, in questa desolata Comune tutto era ordine, e solo l'opra di alcuni infami ribaldi che parteggiavano per la causa del Borbone fu nascostamente da prima, e poscia apertamente, la causa fatale della rovina. Costoro [...] devono essere prontamente e con severità puniti».

Sarebbero stati dunque borbonici i seguaci di Lombardo, contrari al «governo di verità e di giustizia» che essi, garibaldini di comple­mento, si preoccupavano da sempre d'instaurare! Un'infamia vera e propria; si ribellerà persino il governatore della provincia di Catania. Né Bixio, né la commissione militare erano stati capaci di usare un linguaggio così ignobile!

Ma su quella linea si erano compattati i rappresentanti del ceto politico brontese, che dall'impegno volontario nella restaurazione borbonica si apprestavano a passare di lì a poco, armi e bagagli, nella Sinistra di Francesco Crispi: col disprezzo preventivo di Nino Bixio, che aveva dovuto sporcarsi le mani a loro vantaggio, e non «borghesi» aveva deciso di definirli, ma molto più semplicemente «vigliacchi».

Tre anni dopo, al secondo processo sui fatti brontesi, celebrato davanti alla Corte di assise di Catania, gli avvocati della difesa dovettero misurarsi ancora con buona pane di questa concordata ricostruzione dei fatti. E non riuscirono a smontarla del tutto.

Ci tentò, con l'arringa che qui ristampiamo, l'avvocato Tenerelli Contessa.
E un'arringa appassionata, lucidissima, d'un avvocato colto e intelligente, d'un politico raffinato: a leggerla si rischia in molti punti la commozione.

Certo, Nunzio Cesare, tre anni prima, davanti alla commis­sione eccezionale di guerra, non può aver detto le stesse cose. Anche perché le sue posizioni politiche non gli consentivano di porsi il problema d'un'autocritica della gestione che i democratici avevano fatto della rivoluzione meridionale, nei termini in cui Tenerelli coraggiosamente e lucidamente li pone. Ché non si poteva, come gli uomini di Garibaldi avevano fatto, chiamare il popolo alla rivoluzione, farne il garante della legalità rivoluzionaria e ad esso esclusivamente chiedere conto poi del sangue che la rivoluzione stessa aveva fatto versare.

Gino Longhitano

 L’ARRINGA di Michele Tenerelli Contessa

 

Il processo ai cinquantuno imputati dei misfatti di Bronte

di Vincenzo Pappalardo

«C’è una parabola paradossale che segna tutte le ri­voluzioni, portandole da una fase di massima utopia ad una normalizzazione triste, quando le idee e gli eroi prima osannati vengono nascosti, negati, per­si­no condannati; mentre la storia, almeno apparen­te­men­te, prende una strada che curva verso il passa­to. George Orwell ne ha fatto una figura universale nel­l’indimenticabile Napoléon de “La fattoria degli animali”.

Così successe alla rivoluzione francese, che abbatté il regno che sapeva di vecchio, eresse la repubblica che esalava fragranza di nuovo, e si trovò dieci anni più tardi a riesumare col Bonaparte le insegne im­periali dell’antica Roma.

Il processo ai cinquantuno imputati dei misfatti di Bronte, che si apre nella Corte d’Assise di Catania il 15 giugno del ‘63, costituisce un piccolo argomento di questa non nobile consuetudine dei fatti umani. La lettura degli atti di quel processo è poi un’occa­sione preziosa perché gli storici ringrazino il buon animo della loro stella, che li ha destinati alla lungi­miranza della loro arte piuttosto che alla miope pra­tica del diritto.

La prolusione del Presidente cavalier Antonino Ferro è un capolavoro della retorica risorgimentale; ma è anche un documento impressionante del processo di revisione storica compiuto dal nuovo regime; e dello scaricamento dei ceti popolari operato dall’esta­bli­shment unitario. La normalizzazione è ormai compiu­ta, le utopie innescate dal proclama del 2 giugno di­gerite ed assimilate, i fessi che c’erano cascati ben­serviti.

Il Presidente può allora così raccomandare: “... per voi signori giurati è un nulla la storia. Per voi non valgono le origini, le cagioni prime. Per voi i fatti, è questi soli che voi dovete giudicare”. I contadini brontesi perdono il diritto alloro contesto, a quelle che gli avvocati dicono le circostanze atte­nuanti.

Il ceto borghese di Bronte, ducale e borbonico, non ha tardato a mettere le vesti tricolori; perciò i suoi esponenti hanno il diritto al rispettoso appellativo di civili e all’ancora più rispettoso silenzio sul loro pas­sato di abusi e sopraffazioni. Anzi già che s’era in ballo, tanto valeva spazzare ogni residuo senso di colpa sulla sorte di Nicola Lombardo: “... il primo a spargere i civili esser nemici del popolo” e natural­mente “doversi tutti scannare, perché erano di osta­colo alla divisione delle terre comunali”.

Il giudizio storico è ormai concluso; la prospettiva bor­ghese e insensibile alle richieste popolari di rifor­ma agraria assunta come naturale; l’avvocato Lom­bardo bell’e sistemato. Poco varrà che le audizioni successive restituiranno un quadro più equilibrato; nella seduta iniziale il Pre­sidente ha di già il suo parere imparziale.

Non manca per incidente un momento di riflessione, quando al Presidente quasi scappa che a monte della barbarie di quegli assassini dovesse esserci la respon­sabilità di qualcuno: poi per fortuna spunta un appiglio astratto, una sfera dei massimi sistemi dove le facce dei colpevoli appaiano sfocate e non rico­noscibili; e un fervorino antiborbonico vitupera “quell’infame dinastia” che “ci lasciò larga eredità di odi repressi, di discordie cittadine, di virtù spregiate e derise, di vizi, di spionaggi, di turpitudini”. E meno male!

Tutto è passato, tutto ora è normalizzato. I raggiri, le ambiguità, gli abusi della borghesia ducale lasciati al giudizio della storia, quella vaga dell’epoca borbo­nica; le attese e le speranze, le frustrazioni e le umi­liazioni dei miserabili rimosse, negate.

L’avvocato Paolo Figlia, che di quel processo fu con­sigliere, commentando il dibattimento lo stesso gior­no della prima udienza, poteva a buon diritto negare la finalità politica del moto brontese, perché coloro “... ch ‘eccitano alla guerra civile è necessario che siano mossi da un pensiero politico, e che politica sia la cagione della discordia che spinge gli uni con­tro gli altri cittadini”; pertanto quei fatti successi nei primi giorni dell’agosto del ‘60 “non possono che rien­trare nelle regole generali dei danni alla proprietà, degli incendi, degli omicidij”. Dunque assassini! Senza scusanti, senza la rispetta­bilità di un movente affossato in una storia millenaria che spiegasse il loro agire.

Pover’uomini, privati di tutto, della terra, della digni­tà, persino della ragione che li aveva condotti alla bestia­lità Perciò bestie e basta che avevano a un cer­to punto indirizzato la loro selvaggia e turpe natu­ra su quei galantuomini dei civili, veri rivo­luzio­nari, autentici italiani del risorgimento e del nuovo Paese finalmente unito.

La storia italiana ora poteva essere scritta senza mac­chia. Quei disperati potevano raggiungere stu­pe­fatti le celle dello Stato che avevano pensato a mo­do loro di costruire; le mogli e i figli, raggelati, pote­va­no cominciare a fare le valigie e a ingros­sare ine­spressivi le fila di maschere silenti che aspet­tavano i vapori per le Americhe.»

(Dalla Postfazione Un destino feudale) di Vincenzo Pappa­lar­do in La Ducea di Bronte di A. Nelson Hood, Bronte, 2005)

 
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