Assenza del suono ddu/dda
Una delle principali
peculiarità, che distinguono il brontese dal siciliano, è l’assenza
del suono ddu/dda, ch’è proprio di molte parole d’uso quotidiano:
siciliano: picciriddu/dda, beddu/dda/, cavaddu/dda ecc.
brontese: piccirillu/lla, bellu/lla, cavallu/lla ecc.
Esaminando le seguenti brevi frasi:
latino: illa bona est; ille est;
italiano: ella (lei) è buona; è lui;
siciliano: idda bona è; iddu è;
brontese: illa bona e(st); illu e(st);
notiamo che:
1) latino, siciliano e brontese, diversamente
dall’italiano, amano mettere il verbo alla fine;
2) l’italiano e il
brontese mantengono il suono latino della doppia “l”, mentre il
siciliano ha la doppia “d”;
3) il brontese, almeno fino a qualche
tempo fa, e tuttora in qualche quartiere, mantiene la forma latina
“est” del verbo essere.
Il rotacismo
Un’altra peculiarità del brontese è
il frequente rotacismo (dalla lettera greca ro, ossia
la r), cioè la tendenza a trasformare in “r”
la “l” e la “d” intervocaliche latine,
per cui mulum, caelum, cannolum ecc. diventano mulu, celu,
cannolu in siciliano, ma muru, ceru, cannoru
in brontese.
E parimenti: ridere, videre, laudare in siciliano suonano
ridiri, vidiri, lodari; in brontese ririri, viriri,
lorari.
Molto spesso diventa r anche la d
iniziale. In brontese si dice: Ciù rasti u’
pani o piccirillu? invece di Ciù dasti u’ pani
o picciriddu? (siciliano); Ciù ricisti?
invece di Ciù dicisti?
In italiano le due frasi suonerebbero così: “Hai dato il pane al
bambino?”; “Glielo hai detto?”.
Tutte le parole acquistano un senso preciso solo in un contesto, a
maggior ragione quelle che hanno subito il rotacismo, altrimenti
cosa distinguerebbe ceru nel significato di
cielo da ceru in quello di cero?
Fraintendendo a causa del frequente rotacismo, gli scrivani del
‘700, nel tradurre il brontese in italiano nei registri ufficiali
della parrocchia, pensando che la pronunzia del cognome Ciraldo
fosse errata, trascrivevano Cilardo; similmente accadeva per
il cognome Triscari, che diventava Triscali.
La “l” dinanzi a consonante La l del
latino dinanzi a consonante, soprattutto la t, in
alcune parlate siciliane (tra cui il catanese) si trasforma in
u (raramente in r), mentre nel brontese
cade, facendo in qualche caso raddoppiare la consonante seguente.
Latino: alter, altus, saltus, falsus, alba, almus;
italiano: altro, alto, salto, falso, alba, almo;
siciliano: autru, autu, sautu, fausu, alba (o arba),
almu (o armu);
brontese: atru, atu, satu, fassu, abba, ammu (si veda sotto
il paragrafo “L’assimilazione”).
Mantenimento della lettera “b” Nelle parlate
siciliane invece della “b”, soprattutto iniziale,
propria del latino, spesso si ha la “v”.
Latino: barca, bucca, basium;
italiano: barca, bocca, bacio;
siciliano: varca, vucca, vasu.
Nel brontese rimane la “b” latina: bacca, bucca,
basu (più comunemente basuni).
L’assimilazione
Come già accennato, e come si
nota dalla parola barca, divenuta bacca, un’altra
caratteristica del brontese è l’assimilazione delle
consonanti liquide l ed r da
parte di quelle che le seguono: morto, porto, storto, dirlo, farlo,
e simili, in siciliano sono mortu, portu, stortu, dirlu, farlu, e in
brontese mottu, pottu, stottu, dillu, fallu.
Così come accade per le
parole siciliane maltu, sveltu, pulviri che in brontese suonano
mattu, svettu, puvviri (più comunemente puvvirazzu). Suoni duri,
aspri, che testimoniano le lontane origini montanare e contadine
della popolazione.
Non avviene, invece, nel brontese l’assimilazione
della d da parte della n a proposito
dell’avverbio temporale quando, del gerundio dei verbi, e di
altre parole come lavanda, mondo, ecc., assimilazione comune
a quasi tutte le parlate siciliane: Quannu vinisti?
Virennu facennu; Profumu di lavanna; Chistu è u munnu,
ecc. In brontese si dice: Quandu vinisti? Virendu facendu;
Profumu di lavanda; Chistu è u mundu, ecc..
Insomma, la
coppia nd rimane intatta. In italiano le suddette
frasi suonerebbero così: Quando sei venuto?; Procedendo
con cautela a mano a mano che si acquista conoscenza della
situazione; Profumo di lavanda; Questo è il mondo.
L’aspirata
Nel panorama delle parlate siciliane,
una rarità, perché comune soltanto, ch’io sappia, al brontese e alle
parlate di
poche località dell’ennese, è l’aspirata, di chiara derivazione greca, forse risalente ai bizantini
che nell’undicesimo secolo agli ordini di Giorgio Maniace si
stanziarono numerosi e a lungo nella Sicilia centro-orientale per
combattere i saraceni.
E’ difficilissima la pronuncia per tutti coloro che non abbiano
potuto impararla da bambini, impossibile la trascrizione esatta
perché, non esistendo in italiano, manca sulla tastiera dei nostri
computer una lettera che l’esprima (dovrebbe essere la terzultima
dell’alfabeto greco).
Anche se non soddisfa del tutto, perché non è l’identica cosa,
qui ci può aiutare l’esempio della pronuncia toscana della c
di casa o di cosa, o la J
della pronuncia spagnola di Juan, della quale ci serviremo per
rendere approssimativamente il suono aspirato. Le parole italiane
fiore, fiume, fiumara, soffiare, e simili,
in siciliano suonano sciuri, sciumi, sciumara e
sciusciari; in brontese jiuri, jiummi,
jiumara e jiujiari.
Altri problemi di scrittura
Il siciliano, lo
ripetiamo, non è una lingua unitaria, che abbia una qualche
ufficialità con tutti gli obblighi di precisione che essa comporta,
soprattutto per gli atti pubblici, ma è rimasto sempre – come
d’altronde tutti gli altri dialetti – una molteplicità di parlate
con pochi sbocchi letterari, molto rari per la prosa, un po’ più
frequenti per la poesia.
Per questo motivo, a risolvere i problemi linguistico-letterari,
soprattutto ortografici, hanno sempre provveduto, più o meno
ingegnosamente ed efficacemente, ma in maniera isolata, i letterati
stessi, creando ciascuno una propria lingua e una propria
ortografia, che andava ben al di là della parlata locale: così hanno
fatto il palermitano Giovanni Meli, il catanese Domenico Tempio,
Ignazio Buttitta di Bagheria, il catanese Francesco Guglielmino,
Santo Calì di Linguaglossa, Nino Martoglio di Belpasso, e altri.
Tutti poeti coltissimi di notevole valore (alcune poesie del Meli
furono tradotte in italiano addirittura dal Foscolo).
Ma proprio la
mancanza di soluzioni comuni e codificate, lascia ancora irrisolti i
problemi riguardanti soprattutto l’ortografia e la trascrizione di
alcuni suoni del nostro dialetto.
Leggendo picciriddu (= bambino) un italiano del nord
pronuncerebbe il gruppo ddu come il finale della
parola italiana freddo, cosa che non sarebbe esatta,
perché nella nostra pronuncia le due d di picciriddu
sembrano sviluppare una mezza r, che però sarebbe
– forse – eccessivo scrivere.
Similmente noi siciliani non pronunciamo troppu,
travi, tri come in italiano si
pronunciano troppo, trave, tre, ma spingendo la lingua in
avanti nella bocca semichiusa, quasi fino a toccare l’arcata
dentaria superiore, e facendo passare l’aria tra i denti.
In maniera simile pronunciamo anche la r iniziale di
parole quali Roma, rumore, ruspa.
Insomma, se in italiano esiste oltre alla z dolce (es.
mazza) una z aspra (es. zio),
in siciliano, e fortemente nel brontese, accanto alla r
dolce (es. amaru) troviamo quella aspra, come
nelle parole sopra citate.
Quali segni grafici potrebbero essere utili a rendere questi ed
altri suoni del siciliano? Ma forse non è questo il luogo dove
affrontare il problema, che deve essere risolto concretamente dagli
scrittori nelle loro opere in dialetto.
Infatti, anche la s della delicata parola giniusu
(= che sta a genio per la sua simpatia), in siciliano va pronunciata
con un lieve struscio che la rende leggermente aspra, facendo
passare l’aria tra i denti. E la parola srurusu? (= ironico,
pungente). Un milione di dollari a un veneto, figlio di veneti, nato
e cresciuto in veneto, che la pronunci come un brontese DOC!
Il fatto è che spesso anche la s intervocalica in
siciliano e in brontese acquista un suono aspro.
Il professore Nicola Lupo ha proposto apprezzabilmente per la grafia
della s aspra di far seguire a questa lettera la
z: amuruszu (= amorevole o amoroso), caruszu
(= ragazzo, giovanotto), ecc. In questo caso il vocabolo srurusu
andrebbe scritto szruruszu.
Latino, italiano, siciliano e brontese: grammatica e sintassi
a) L'articolo Nel latino classico, letterario, le parti del discorso sono otto, perché manca l’articolo.
Il vulgus (= il popolo), dalla cui parlata (lo ripetiamo ancora una volta) derivano fondamentalmente lingue e dialetti romanzi, era nella stragrande maggioranza analfabeta (mica esisteva la scuola gratuita e addirittura obbligatoria come adesso!), “possedeva” un numero limitato di vocaboli, ed era incapace di crearsi e rispettare rigidamente una grammatica nell’uso delle desinenze nominali e verbali, perciò per esprimersi si serviva, molto di più rispetto agli scrittori, delle preposizioni e dei pronomi dimostrativi, tra i quali is, ea, id e, soprattutto,
ille, illa, illud, da cui derivano gli articoli determinativi della lingua italiana: il, lo, la, i, gli, le, mentre quelli indeterminativi, un, uno, una derivano dall’aggettivo numerale unus, a, um. Gli articoli determinativi siciliani sono: u, lu, a, la singolari; i, li plurali; questi ultimi due sono sia maschili che femminili (diciamo: i masculi, ma anche i fimmini; li sciuri – in brontese i jiuri – ma anche li rosi). Il brontese ha di particolare che non usa quasi mai lu, la, li.
Siciliano: u patri (= il padre), u munnu (= il mondo), u frati (= il fratello), u cristianu (= il cristiano), a cristiana (= la cristiana), ecc. ma anche lu patri, lu munnu, lu cristianu, la cristiana ...
Brontese: u patri, u mundu, u cristianu, a cristiana: di solito non altrimenti. Se Martoglio (di Belpasso) scrive “li patruni” (= i padroni), “la criata” (= la serva), “li pueta” (= i poeti), ecc. (da “La Centona”), a Bronte si dice (quasi) soltanto: “i patruni”, “a criata”, “i pueti”. Sia in siciliano sia in brontese si usano normalmente gli articoli u, a ed i anche dinanzi a z: u zoccuru (= lo zoccolo), a zita (= la fidanzata), i ziti (= i fidanzati); ed s impura: u scaruni (= lo scalino), a scara (= la scala), i scimuniti (= gli scimuniti), i sciari (= le sciare), ecc. Gli articoli indeterminativi siciliani sono simili a quelli italiani:
un, unu, una, solo che i siciliani spesso preferiscono non far sentire, e quindi non scrivere, la vocale iniziale: visti (o vitti) ’na cosa … anziché visti una cosa … (in italiano vidi una cosa). Bellissimo l’attacco della meritatamente famosa canzone siciliana Vitti ’na crozza supra
’nu cannuni
…(= Vidi un teschio sopra un fusto di cannone …). Come in italiano gli articoli nel brontese (e nel siciliano) possono diventare pronomi. Esempi:
Stu travagghiu u vogghiu fari ìu (Questo lavoro lo voglio fare io);
I frascaturi i faciva megghiu me’ mamma (La polenta la
faceva meglio mia madre);
A casza a puriziau Nunziata (La casa l’ha pulita Nunziata), ecc. Il brontese concorda col siciliano, che abbiamo definito generico (in realtà inesistente, date le diversità da luogo a luogo) anche nell’uso abituale,
di derivazione spagnola, della preposizione a dinanzi al complemento oggetto, preposizione assente in latino e in italiano trattandosi di un complemento diretto:
Assira visti a to’ patri chi passiava (Ieri sera ho visto tuo padre che passeggiava).
b) Il verbo: tempi, modi, forme attive, passive, riflessive,
irregolari, ecc.
Del siciliano (brontese compreso), se si astrae dalla
contaminazione subita a contatto con l’italiano, si può dire ch’è
molto più vicino al latino del toscano, ch’è il fondamento della
lingua italiana.
Come il latino, ad esempio, i verbi siciliani nell’indicativo
hanno solo sei tempi, anziché otto, perché il passato prossimo e il
trapassato prossimo sono di recente acquisizione e ancora non molto
usati. Infatti, a Bronte preferiamo dire: illu fu e non
illu ha statu (a Catania iddu fu). In
italiano, invece, si preferisce dire “è stato lui”.
A dire il vero, anzi, non è esatto nemmeno dire che i tempi siano
sei, perché i volgari, derivati, come più volte s’è detto, dal
latino parlato dal popolo, non hanno ereditato il futuro, che era
del latino dotto.
Nelle lingue moderne il futuro è stato ricreato dai letterati, in
Italia a partire dalla Scuola poetica siciliana, fondendo l’infinito
dei verbi col presente del verbo avere: ho da amare, amare-ho,
amerò; hai da amare, amare-hai, amerai, ecc.
Nel latino classico c’era invece un ben preciso suffisso temporale
del futuro: amabo, amabis, ecc; monebo, monebis,
ecc.
Se noi brontesi (e i siciliani in genere) oggi vogliamo esprimere il
futuro, e non siamo suggestionati, magari inconsciamente, dalla
conoscenza e dall’uso dell’italiano, cosa facciamo? O usiamo un
complemento (o avverbio) di tempo seguito dal presente (Doppurumani
vaju a Roma = dopodomani vado a Roma), oppure usiamo il verbo
avere seguito dall’infinito: Prestu aiu a jiri a Roma (=
Presto devo andare – oppure ho da andare – a Roma).
Espressioni come jirò sono dotte, cioè create a
tavolino da letterati. Il che non è un peccato di lesa maestà,
perché lo scrittore ha il diritto-dovere di creare nuova lingua
secondo le sue esigenze espressive.
Come il latino, il siciliano originario non ha il
condizionale.
Latino: si voluisses fecisses … (doppio congiuntivo);
italiano: se tu avessi voluto avresti fatto (congiuntivo +
condizionale);
siciliano (e brontese): si tu avissi vulutu avissi fattu …
(doppio congiuntivo).
Forme come faria, saria, ecc, frequenti soprattutto
nel ragusano, sono dovute a contaminazione con le lingue nazionali
neolatine, e comunque non esistono nel brontese.
In italiano il condizionale composto ha pure la funzione di
esprimere il futuro rispetto al passato. Perciò la frase Ieri
mattina pensavo che di sera saresti venuto a
trovarmi, in brontese potrebbe suonare Ieri matina ìu pinsava
chi a sira mi vinivi a truvari, oppure … tu m’assu
(= m’avissi) vinutu a truvari.
Un aspetto importante delle lingue è rappresentato dall’uso dei
verbi ausiliari.
In latino l’unico ausiliare è esse
(essere), usato soltanto per le forme passive
composte, cioè per quelle del perfetto e dei tempi che
da esso derivano. Infatti tutte le forme attive (amaveram =
avevo amato; amavero = avrò amato ecc.) e quelle passive del
presente, e dei tempi derivati dal tema del presente, hanno forma
semplice: amor (sono amato), amabor (sarò amato),
amer (che io sia amato), amarer (che io fossi
amato), ecc. Soltanto il perfetto passivo, e i tempi che derivano da
esso, sono composti: amatus sum, amatus eram, amatus essem (fui
amato, ero stato amato, fossi stato amato), ecc.
Nelle lingue romanze, invece, sono composte tutte le forme passive,
non esistendo desinenze passive, e sono composte anche parecchie di
quelle attive. L’italiano, unica lingua romanza, per formare le
forme passive non usa soltanto il verbo essere, ma anche, sia pure
sempre meno frequentemente, il verbo venire. Es. Annibale venne
sconfitto a Zama da Scipione.
E ancora: il verbo essere in italiano ha un ulteriore uso: è d’obbligo
anche per formare i tempi composti dei verbi intransitivi
(ovviamente attivi): sono stato, erano andati,
fosse venuto, saremmo caduti, ecc.
Il siciliano, invece, ignora il verbo venire per fare il passivo
e usa il verbo avere per formare tutte le forme composte
attive, sia dei verbi transitivi, sia di quelli intransitivi: aiu
vistu, ma anche aiu statu, avissi vinutu, avia
cascatu, ecc.
Se c’è qualche eccezione, è per contaminazione con l’italiano, ossia
col toscano, di cui (già detto e ripetuto) il siciliano è fratello,
non figlio. Nel siciliano (e nel brontese) il verbo avere è l’unico
ausiliare delle forme composte attive dei verbi, transitivi o
intransitivi che siano. Cosa che vale anche per i tempi composti dei
verbi riflessivi, per i quali in italiano è pure d’obbligo
l’ausiliare essere (mi sono lavato, s’era vestito, ecc.), mentre in
siciliano (e in brontese) si usa sempre l’ausiliare avere: m’aiu
lavatu, s’avia vistutu, ecc.
L’ausiliare essere (in brontese éssiri, in
siciliano éssiri oppure essìri)
è regolarmente usato per formare il passivo; solo che nella parlata
quotidiana familiare, insomma spontanea e senza nessuna pretesa,
preferiamo usare il verbo quasi soltanto all’attivo.
Esempio:
difficilmente diciamo I potti ra me’ casza ri Bronti funu fatti
ru mastru Tanu Lupu (Le porte della mia casa di Bronte sono
state fatte da mastro Tano Lupo), perché più frequentemente
preferiamo dire I potti ra me’ casza ri Bronti i fici
mastru Tanu Lupu (La porte della mia casa di Bronte le
ha fatte …).
L’etimo del verbo italiano andare, per le forme che iniziano col
gruppo fonico “and”, è incerto: forse dal latino
classico ambulare, forse dal latino volgare ambitare.
E’ certo, comunque, che nel latino classico “andare” non
esiste e non esiste nemmeno in siciliano, che usa forme derivate dai
due verbi latini ire (eo, is, ivi o
ii, itum, ire) e vadere (vado, is, vadere:
poco usato, questo, e chiaramente difettivo).
- Latino, pres. ind.: eo, is, it, imus, itis,
eunt;
-
brontese, vaiu, vai, va, jmmu, jti,
vanu;
-
latino, perf. ind.: ivi (ii), (i)isti, (i)it, (i)imus, (i)istis,
ierunt.
(In latino, come in greco, le vocali possono essere lunghe o
brevi, ma dalle nostre comuni tastiere dei computer non è prevista
la possibilità di segnare sillabe lunghe e brevi. Infatti, invece
della doppia i, si dovrebbe scriverne una sola con sopra il segno
ch’è lunga).
- Brontese, pass. rem.: ii, (i)isti, ìu, jimmu, jistivu,
jinu.
-
Italiano, pass. rem.: andai, andasti, andò, andammo, andaste, andarono.
I nomi delle piante e dei frutti
In latino i nomi delle
piante, considerate madri, sono di genere femminile, e i frutti
di genere neutro, il cui nominativo plurale è sempre in “a”:
donde poma, pira, (pomi, pere).
In siciliano i frutti
di solito (ma non sempre) sono di genere maschile, per cui al
plurale sono preceduti dall’articolo “i” (ma
anche l’articolo femminile plurale in siciliano, come già detto, è
“i”: i fimmini), ma la terminazione
per lo più è in “a” come in latino: i puma,
i pira.
Tra i frutti che fanno eccezione nel resto della
Sicilia c’è, opportunamente, ficu, che al plurale resta
ficu.
Il dialetto brontese, vivaddio! è invece coerente fino
alla fine. E non è la sua unica, diciamo così, stranezza: tra gli
ottomila comuni d’Italia, i brontesi siamo gli unici a chiamare
fagioli i piselli e piselli i fagioli, tra l’altro quasi sempre
nominati al singolare stravolgendo i generi: u fasoru, a
pusella.
Una bella brontesina dice al negoziante: “Mi rassi
’n chilu ri pusella”, e il negoziante, regolarmente, le
dà un chilo di fagiolini, con la soddisfazione di entrambi. Be’,
così era una volta, ora non credo più. Però mi chiedo quando è nato
questo stravolgimento, e quale lungo isolamento testimoni!
Altre peculiarità Nos latino (ossia l’italiano
noi) in siciliano si sbizzarrisce in tante voci: nuatri,
nautri, niautri, nui, e forse qualche altra voce ancora. In
brontese è natri, sempre col solito suono del gruppo
tri.
Vos latino (ossia l’italiano voi) in siciliano ha meno
varianti: vuatri, vautri, vui. In brontese è
vatri.
Ego latino, da cui io italiano, in brontese si
traduce ìu, con l’accento sulla i,
mentre altrove, ad esempio nel catanese, è prevalente la lezione
iù, con l’accento sulla u.
Vocali lunghe o brevi, aperte e chiuse
Che le vocali in latino siano lunghe o brevi, non è senza
conseguenza sia per la lettura sia per il significato.
La e di venit, quando è del presente indicativo, è
breve e in italiano si traduce viene; quando è del perfetto,
è lunga e si traduce venne.
Infatti, le due voci verbali, scritte in maniera identica (venit),
dai latini erano pronunciate in maniera diversa. Nella traduzione
non solo la voce del perfetto mantiene la e, ma
addirittura raddoppia la consonante che segue.
In siciliano il presente e il perfetto latini si traducono
rispettivamente veni e vinni, per cui nel presente
resta la e con una sola n, mentre la e
del perfetto si chiude in i e raddoppia la consonante
seguente. (Parleremo fra poco di vocali aperte o chiuse).
In generale si può dire che, passando dal latino all’italiano, la
e breve diventa ie (viene, diede,
lieve, ecc.), quella lunga rimane
e (specie, re, legge, ecc.). Similmente le o
brevi latine in italiano si trasformano in uo (domus,
duomo; ovum, uovo; locus, luogo; homo, uomo, ecc), quelle lunghe
rimangono o (modus, modo: donum, dono; dos, dotis:
dote, ecc.). In siciliano le o e le e
latine, brevi o lunghe che siano, restano comunque tali, ma le
lunghe talvolta tendono a chiudersi.
Semiconsonanti
Sempre di derivazione latina è il problema della semiconsonante
i (o, come preferiscono altri, semivocale: il
bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto?), per la solita necessità di
rendere con la grafia alcuni suoni siciliani.
Molte parole latine cominciano con una i, che non è
una semplice vocale, ma una semiconsonante, tanto che in italiano è
diventata g: ire (gire), iudex (giudice), iocus
(gioco), ianuarius (gennaio), Iulius (Giulio), iuvenis (giovane),
iam (già), ecc.
In siciliano (e nel brontese) spesso è rimasta la i
latina, ma una i che non pronunciamo libera e sciolta
come quella di inter, iter, illuminare, ecc., ma strusciata e
quasi doppia.
Per indicarne la particolarità del suono la soluzione più adatta
potrebbe essere quella, già adottata da alcuni poeti siciliani, di
usare la lettera j. Così avremmo:
latino: iudex, iocus, ianuarius, ecc.
italiano: giudice, gioco, gennaio, ecc.
siciliano: judici, jocu, jinnaru, ecc.
brontese: jurici, jocu, jinnaru ecc.
(la r di jurici per il
rotacismo tipico del brontese).
Ma si potrebbe obiettare: l’uso della lettera j non
l’abbiamo già suggerito per l’aspirata del brontese? E allora?
Attendiamo suggerimenti.
Semiconsonante nella pronuncia latina era anche la i
che seguiva la l intervocalica, tanto che in italiano
il gruppo li ha sviluppato una g,
e in siciliano, ad abundantiam, due, addirittura con un
suono gutturale, che ha fatto scomparire la l.
Latino: filius, folium, lilium, melior, mulier, ecc.
italiano: figlio, foglia, giglio, migliore, moglie, ecc.
siciliano (e brontese): figghiu, fogghia, gigghiu, megghiu,
mugghieri, ecc.
Vocali aperte e chiuse
Le vocali, in latino come negli idiomi da esso derivati,
riguardo alla pronuncia aperta o chiusa procedono in quest’ordine
decrescente: a, o, e, u, i: massima apertura la a,
massima chiusura la i.
Cosa, questa dei suoni, di
rilievo tutt’altro che scarso, se è vero che, soprattutto nelle
opere letterarie, immagini, sensazioni e sentimenti sono suggeriti
anche dal suono delle parole, che può addirittura ingannare
rispetto al senso.
Parini e Foscolo chiamarono notturno e immondo il più bello e
grazioso degli uccelli italiani, l’upupa, ingannati dal cupo
ripetersi delle due u. Leopardi nel settimo verso della
canzone La quiete dopo la tempesta, che Saba definì il più
luminoso della letteratura italiana, nell’ultima redazione
sostituì splende con appare:
… e chiaro nella valle il fiume appare.
Eppure splende come significato è parola più luminosa, ma non
ha il vantaggio della vocale di massima apertura, la a,
ripetuta ben due volte in sintonia col resto del verso.
Tornando dopo questa premessa al nostro tema, passando dal latino
all’italiano i nomi (con l’eccezione di quelli derivanti dalla
quarta declinazione) e gli aggettivi di prima classe hanno la
terminazione dell’ablativo singolare latino, per cui suonano: rosa,
lupo, console, specie, buono/a.
Cioè, scompaiono molte u e molte i proprie degli altri
casi latini (soprattutto del nominativo e del genitivo), sostituite
dai suoni più aperti della o e della e, sicché in
generale si può dire che l’italiano è una lingua più aperta,
per quanto riguarda i suoni, del latino.
Nel siciliano, invece, accade il contrario, perché le parole tendono
a chiudersi ulteriormente.
Latino (ablativo): ancilla, lupo, consule,
domo, fide, ecc.
italiano: ancella, lupo, console, duomo,
fede, ecc.
siciliano: ancidda, lupu, consuli,
domu, fidi,ecc.
brontese: ancilla, lupu, consuri,
domu, firi.
A causa di questo fenomeno linguistico, qualcuno s’è sentito
autorizzato a parlare (o sproloquiare?) di carattere chiuso, cupo,
tragidiusu (= tendente al tragico), dei siciliani. Io, forte
della mia assoluta incompetenza in materia, mi guardo bene
dall’addentrarmi in un simile campo minato.
Qualche curiosità
Quando ero ragazzo sentivo frequentemente espressioni o parole che poi non ho
mai più sentito fuori Bronte. Quelle che ricordo sono:
1) “Avi (= ha) l’occhi di Fragàru”;
2) “Chi si’ locu?” (cioè pazzo);
3) “Custureri” (= sarto);
4) “Pòpitu” (= copula).
5) “Musci leviti”
Per la prima espressione, Fragàro sarebbe stato un barbone brontese con
occhi così rossi, a causa di una congiuntivite non curata, da divenire termine
di paragone.
Per la seconda, si tratta d’un lascito della dominazione spagnola (in spagnolo
loco significa pazzo).
Custurèri è invece un lascito francese (da "couturier").
Della parola pòpitu, mai sentita
fuori di Bronte, so che indica l’atto sessuale. Forse si potrebbe –
ma il condizionale è proprio d’obbligo – collegare ai sostantivi
latini popìna, ae, (= taverna, luogo di piacere) e popìno,
popinònis, che significa crapulone, e al verbo deponente,
anch’esso latino, popinor, aris, ari (= frequentar le
taverne, crapulare).
“Musci leviti” (due parole al plurale mai sentite fuori Bronte)
nel significato di melliflue moine volte ad accattivarsi la
simpatia e i favori di qualcuno, ha un etimo quasi impossibile.
Tuttavia un’interpretazione non completamente arbitraria potrebbe
essere la seguente: musci, come musciu
(vedi questa voce), potrebbe derivare da musteum,
il mosto mielato e molliccio di cui erano ghiotti gli antichi
romani; leviti da levitas, che significa leggerezza,
ma anche superficialità, insignificanza, falsità. Es. “Iu
sugnu sinceru, musci leviti non ’di sacciu né riri né fari”
= Io sono sincero, sdolcinate falsità non ne so né dire né
fare”.
In Sicilia per dire brutto usiamo la parola lariu; per dire
cattivo, tintu. Perché?
Presso gli antichi Romani, Lares (in italiano i Lari) erano gli dei
del focolare protettori della famiglia, che erano rappresentati con
statuette di legno rozzamente abbozzate, tanto brutte da diventare
un termine di paragone. Tu si’ lariu quindi significa: tu sei
brutto come una statuetta che rappresenta un lare.
Tintu non è altro che il participio perfetto del verbo latino
tingere (tinctus, a, um). Durante le persecuzioni cristiane
qualcuno (raro) preferiva il martirio, i più per paura abiuravano e
si risolvevano a sacrificare al genio dell’imperatore.
Finita la paura del martirio, cominciava quella dell’inferno, per
cui i lapsi (i caduti nel peccato dell’abiura)
volevano ardentemente essere riammessi nella comunità ecclesiale.
Come sempre accade, si crearono due partiti: i rigoristi, ovviamente
contrari, e gli indulgenti. Si scelse la via di mezzo di
accoglierli, però umiliandoli: durante la celebrazione
dell’eucaristia, i buoni, quelli che non avevano peccato (ma non
erano stati nemmeno inquisiti) assistevano alla liturgia in toga
candida, i lapsi, invece, stavano dietro coperti da un velo
scuro. Quindi davanti c’erano i candidi, dietro i tinti
(ossia quelli che avevano tradito, i cattivi).
A questo punto val la pena di soffermarsi pure sul significato della
parola italiana cattivo, di chiara origine latina, in
quanto deverbativo di capio, is, cepi, captum,
capere, che significa prendere, catturare.
Nell’età classica captivi erano i prigionieri. Persona
disonesta, malvagia, era il malus, colui che faceva il male (malum).
Nella tarda latinità, alle origini del cristianesimo, chi era
malus era anche captivus (diabli), cioè
prigioniero (del diavolo), donde l’acquisizione della connotazione
moralmente negativa di questo vocabolo (captivus, da cui
cattivo) da parte del volgare toscano, e quindi dell’italiano.
Ma il siciliano deriva direttamente dal latino, e da noi si continua
a dire mal’ommu, mala fimmina, oppure ommu tintu,
fimmina tinta.
Tuttavia è anche vero che in siciliano la parola cattivu/a
esiste pure, ma nel significato di vedovo/a.
Anche qui il motivo è storico. Fino a non molti secoli fa in
Sicilia, per l’“onore” del morto e, soprattutto, per motivi
economici riguardanti l’eredità, le vedove, soprattutto nobili,
venivano tenute segregate in conventi di clausura, ossia erano “captivae”
sotto la tutela di chi ne esercitava la potestà, il quale soltanto
poteva, a sua scelta, e se lo credeva opportuno, destinarle a un
nuovo matrimonio. Per analogia il termine si estese anche agli
uomini.
Quindi l’etimo del sostantivo siciliano “cattivu/a”, nel
significato di vedovo/a, sta sempre nel verbo capio e nel
sostantivo-aggettivo captivus (= prigioniero).
La parola cristianu in brontese talvolta sembra
perdere il significato di appartenente alla religione cristiana, per
assumere o quello di persona in genere (Era taddu, ma ancora c’eranu
tanti cristiani peri peri = era tardi, ma ancora c’erano in giro
molte persone; Cu è stu cristianu? Iu no canusciu. = Chi è
costui? Io non lo conosco); o quello di persona
ragguardevole: Ora chi ti ’n’ammasti, sì chi pari ’n cristianu!
= Ora che ti sei vestito bene, sì che sembri un signore!).
Quest’ultimo significato traslato probabilmente deve essersi creato
in secoli nei quali essere cristiano era un segno distintivo
rispetto ad un pagano o ad un musulmano.
Ancora di derivazione storica è la frase “Chisti su’ cìciri chi
non si còcinu” (questi sono ceci scucìvuri, non
buoni da cuocere, nel significato
traslato di questi sono guai seri), che risale esattamente ai
Vespri Siciliani.
I siciliani coi normanni e gli svevi avevano avuto amministrazioni
sopportabili, gli angioini invece si mostrarono subito esosi e
arroganti, arrivando al punto da molestare le femmine, e ai
siciliani i fìmmini non ci ranu a tuccari! (be’,
era così fino a qualche tempo fa, ora i tempi sono cambiati).
Scoppiati i moti, si poneva il problema di come distinguere i
rossi angioini dai normanni e dagli svevi di simile colore, ma
ormai da molti anni naturalizzati siciliani. Gli angioini (come i
francesi dei nostri giorni) non sapevano pronunciare la c
palatale di ce e ci, che nella loro bocca diventava
se e si. Costretti a dire ceci, molti finirono
sbudellati.
Nino Russo Settembre 2010 |